Dal fisco alla scuola/Tre domande per la destra di governo che verrà

Anche se nessun partito ha ancora presentato un programma elettorale preciso, ormai un’idea me la sono fatta. All’appuntamento di marzo, quando saremo chiamati alle urne, la sinistra si presenterà, inevitabilmente, come la paladina e la garante della continuità. In un modo o nell’altro, è al governo da sei anni, e da quasi quattro, ossia da quando Renzi ne ha conquistato il comando, governa sostanzialmente da sola, con condizionamenti minimi da parte dei cespugli che circondano il Pd. E’ dunque verosimile che, alle urne, si presenti chiedendo agli italiani di consentirle di continuare il lavoro fatto da Renzi e Gentiloni. Se siamo stati così bravi fin qui, perché cambiare?  Molto difficile che, prima del voto, il Pd attui quella svolta a sinistra (ma sarebbe più esatto dire: quel ritorno al passato), che scissionisti e nostalgici invocano quotidianamente.

Il Movimento Cinque Stelle si presenterà nel registro opposto, come l’unica garanzia di un cambiamento vero, come l’unica forza che – essendo nuova e non avendo mai governato (o meglio: avendo governato in modo controverso a Roma, Torino e qualche altro comune) – può davvero cambiare il Paese. E cercherà di convincere gli italiani a votarlo soprattutto con la proposta di un (assai generoso) reddito minimo garantito, che si ostinerà a chiamare “reddito di cittadinanza”, che suona meno assistenziale.

Il vero rebus, per me, è la destra. Intanto perché, a destra, a differenza che altrove, siamo in presenza di tre partiti e non di uno solo: Forza Italia e la Lega stanno in prossimità del 15%, Fratelli d’Italia sta ormai stabilmente intorno al 5%, ben oltre ogni ragionevole soglia di sbarramento. Ma soprattutto per un altro motivo: il programma politico dell’alleanza che si va profilando fra i tre partiti di destra non è affatto chiaro. E non lo è non già su quisquilie e pinzillacchere, ma su almeno tre punti fondamentali.

Il fisco, innanzitutto. Sia Salvini sia Berlusconi parlano di flat tax, ovvero di un’unica aliquota sul valore aggiunto (IVA), per il reddito personale e per il reddito di impresa.

Ma per Salvini l’aliquota unica deve essere al 15%, per Berlusconi al 23% (una differenza enorme, sul piano macroeconomico). Entrambe le proposte sono al di sotto del 25%, ossia dell’aliquota proposta dall’Istituto Bruno Leoni, probabilmente il think tank più liberal-liberista che vi sia in Italia. E notate che l’aliquota unica proposta dal Bruno Leoni, molto efficacemente e dettagliatamente spiegata da Nicola Rossi in un denso volumetto di qualche mese fa (Venticinque% per tutti, IBL Libri), è già stata considerata irrealistica (troppo bassa) da qualificati studiosi di questioni fiscali. A destra si pensa che Salvini e Berlusconi troveranno un punto di equilibrio (20%?), ma la vera questione non è a che livello si metteranno d’accordo i due principali partiti del centro-destra, ma in che modo si possa attuare un programma così audace nell’orizzonte di una legislatura. Perché si fa presto a dire riduciamo il perimetro della Pubblica Amministrazione, combattiamo gli sprechi, facciamo la spending review: quando si arriva al dunque, nessuno riesce a chiudere gli enti inutili, nessuno riesce a liberarsi del personale in eccesso, nessuno riesce a privatizzare quel che andrebbe privatizzato, e la soluzione che mette d’accordo tutti i governi, di destra e di sinistra, è da 10 anni sempre la stessa: liberarsi dei commissari alla spending review.

Il secondo punto poco chiaro è quello del contrasto alla povertà, un dramma che continua a perdurare e anzi si è ancora (leggermente) aggravato negli ultimi tempi. Qui quel che si vorrebbe capire è se il centro-destra pensa sul serio di introdurre un’imposta negativa sul reddito (nel qual caso farebbe bene a spiegare innanzitutto che cos’è, visto che non tutti hanno studiato Milton Friedman e Friedrich von Hayek). E, se sì, su quali basi, con quali risorse, e destinata a chi. Giusto per ricordare qualche nodo: l’esistenza di prezzi molto diversi fra Nord e Sud rende iniqua un’imposta basata sul reddito nominale; aggredire la povertà costerebbe almeno 10 miliardi; quasi il 40% dei poveri è costituito da immigrati.

Un terzo punto che meriterebbe di essere chiarito è quello della sicurezza e dell’immigrazione irregolare. Se non ci fosse Minniti, la linea del centro-destra sarebbe scontata: stop alle politiche di accoglienza indiscriminata (e disordinata) attuate fino a pochi mesi fa. Ma adesso c’è Minniti che quelle politiche le ha già cambiate parecchio. Quindi la domanda diventa un’altra: fareste come Minniti? O fareste di più, o cose diverse? E se la risposta fosse quest’ultima, quali cose fareste fra quelle che si possono effettivamente fare, al di là dei facili slogan di una campagna elettorale? Come affrontereste il problema degli alloggi popolari abusivamente occupati da italiani non meno che da stranieri?

Ci sarebbe poi un punto ulteriore, che però non riguarda specificamente la destra, ma un po’ tutte le forze politiche: sulla scuola, e più in generale sul mondo dell’istruzione, che cosa possiamo aspettarci dal prossimo governo?

Perché almeno un paio di cose sono chiare, per chi ha occhi per vedere. La prima è che l’alternanza scuola-lavoro ha presentato forti “criticità”, per usare un eufemismo caro alla politica. Un peccato per gli studenti, ma forse anche un’occasione sprecata per le imprese, che potrebbero dare molto di più ai giovani (e a sé stesse) se fossero messe in condizione di fare della vera formazione sul posto di lavoro. La seconda è che l’abbassamento degli standard, in atto in tutti gli ordini di scuola da almeno mezzo secolo, non accenna a interrompersi. Nessun governo degli ultimi 50 anni ha mai fatto qualcosa per fermare questa deriva, e quasi tutti hanno molto operato per accelerarla.

Non sarebbe ora che almeno una forza politica si decidesse, non dico a combinare qualcosa di buono, ma almeno a riconoscere il problema?

Pubblicato su Il Messaggero il 21 ottobre 2017



Fallita la Terza via/Dopo 10 anni al Pd serve una nuova identità

Oggi è il 14 ottobre 2017. Esattamente dieci anni fa, il 14 ottobre 2007, veniva fondato il Partito democratico, che sceglieva come suo primo segretario Walter Veltroni (76% dei consensi, 3 milioni e mezzo di voti).

Il partito nasceva, essenzialmente, dal matrimonio tardivo di Ds e Margherita, due formazioni politiche a loro volta in ritardo sulla storia: i Ds sono stati l’ultima mutazione della tradizione comunista, travolta dalla caduta del muro di Berlino (1989); la Margherita è stata l’ultima mutazione della tradizione e democristiana, travolta dalle inchieste di Mani pulite (1992). Da allora si sono succeduti in tutto 5 segretari, due di matrice comunista (Veltroni e Bersani), due di matrice democristiana (Franceschini e Renzi), uno di matrice socialista (Epifani).

E’ un matrimonio riuscito quello che ha generato il Pd? O invece il progetto di un partito liberal-socialista, lucidamente delineato da Michele Salvati nei primi anni 2000, deve essere considerato fallito? E qual è stato il ruolo di Renzi in questa storia durata dieci anni?

Sappiamo che le risposte a queste domande costituiscono uno dei principali elementi di divisione a sinistra. C’è chi, come Piero Fassino (fresco autore di Pd davvero, La Nave di Teseo 2017), pensa che il progetto non sia affatto fallito, ma sia largamente incompiuto. E c’è chi, come i nemici di Renzi e del renzismo, da Bersani a Pisapia, da Fratoianni a D’Alema, pensano che Renzi sia la sciagura che ha distrutto il giocattolo.

Se vogliamo valutare quel che è successo in questi 10 anni, tuttavia, forse è meglio distogliere per un attimo lo sguardo dal piccolo recinto della politica italiana, e provare a collocare la storia del Pd nel più ampio teatro europeo. Ebbene, se facciamo questa operazione di spostamento, è difficile non accorgersi di alcune circostanze.

Primo. La sinistra tradizionale, ovvero i partiti socialisti, socialdemocratici, laburisti, sono in crisi in quasi tutte le democrazie occidentali (eccetto nel Regno Unito), e spesso sono ampiamente superati da forze di sinistra alternative ad essi. In Spagna i socialisti sono al 23%, in Germania i socialdemocratici sono al 20%, in Francia i socialisti sono al 7%: anche trascurando il successo alle Europee del 2014 (40.8%), il consenso al Partito democratico (intorno al 27%) si situa nettamente al di sopra dei valori dei partiti cugini in Europa.

Secondo. Fatto 100 il consenso a tutte le forze di sinistra, il Pd ne cattura tra l’80 e il 90%, una quota che, nel continente europeo, non viene neppure lontanamente avvicinata da alcun partito socialista o socialdemocratico. In Germania i socialdemocratici pesano per il 53%, in Spagna per il 49%, in Francia per il 26% (per non parlare della Grecia, dove sono ridotti al 13% dello schieramento di sinistra). Insomma: noi ci lasciamo impressionare dalle tempeste in un bicchier d’acqua di casa nostra, ma la realtà è che negli altri paesi la sinistra è molto più divisa, e il partito che tradizionalmente l’ha rappresentata è molto più in difficoltà di quanto lo sia il Pd in Italia. A quanto pare la “fusione fredda” fra comunisti e democristiani ha avuto l’effetto di sopprimere ogni reale concorrenza a sinistra.

Terzo. La sinistra tradizionale è in crisi quasi ovunque, in Europa. Su questo gli scissionisti di casa nostra hanno ragione. Ma la domanda cruciale è: perché la sinistra è in crisi? E che cosa può fare per uscire dalla sua crisi?

A me sembra che la risposta alla prima domanda sia abbastanza semplice: la sinistra è in crisi perché il modello della Terza via non ha funzionato, come del resto ha da tempo riconosciuto il suo maggiore teorico, il sociologo britannico Anthony Giddens. La sfortuna del Partito democratico è stata di nascere nel 2007, ossia l’esatto istante in cui la crisi (appena scoppiata negli USA, con la bolla dei mutui subprime) stava per mandare in frantumi i sogni riformisti degli anni ’90, quando i vari Clinton, Blair, Schröder, Prodi, D’Alema, Veltroni scommisero sul cocktail mercato-riforme-meritocrazia.  E’ allora che, sulla scena del mondo, la competizione fra destra e sinistra divenne una competizione fra due modi solo marginalmente diversi di gestire il mercato. Un cambiamento che, già in un libro del 1996, il politologo Marco Revelli aveva bollato polemicamente con la formula delle “due destre”, entrambe persuase delle virtù del mercato (Le due destre, Boringhieri 1996).

Ora, con milioni di disoccupati, e una crescita che è ripartita in alcuni paesi ma non in altri, la storia presenta il conto innanzitutto ai partiti che la globalizzazione avevano pensato di poterla governare, indirizzandola verso esisti egualitari. L’elettorato non perdona ai partiti socialisti e socialdemocratici di aver tradito le loro promesse: più occupazione, più stato sociale, più diritti. Anche per questo si rivolge ai partiti populisti, di destra, di sinistra e di centro, che quelle domande di protezione hanno mostrato di saperle prendere estremamente sul serio.

In questo quadro, l’anomalia dell’Italia è la seguente. Nel Pd ha prevalso l’anima modernizzatrice e mercatista della Margherita, di cui Renzi è stato un efficace interprete. Nonostante innumerevoli errori, di contenuto e di atteggiamento, non si può negare a Renzi il merito di aver perfezionato la modernizzazione del Pd, che ha deposto o attenuato alcuni dei tratti più discutibili della cultura di sinistra: immobilismo, consociativismo, complesso dei migliori, subalternità ai sindacati e alla magistratura. Il punto, però, è che quella modernizzazione non è stata un’improvvisa trovata del “ragazzo di Rignano”, ma era stata avviata, fin dagli anni ’90, dalle correnti riformiste dei post-comunisti, a partire da D’Alema e Bersani. Se il Pd è diventato quel che oggi è, non è certo perché Renzi lo ha snaturato, ma perché Renzi ha impresso un po’ più di velocità a un processo che altri, a sinistra, avevano avviato ben prima di lui, e ben prima della nascita del Pd.

Ecco perché le critiche degli scissionisti suonano oggi leggermente surreali. Il mondo che si muove alla sinistra del Pd ha perfettamente ragione a far notare che certi conti non tornano (a partire da quelli della disoccupazione e della povertà), ma è poco credibile quando sembra suggerire che, quei problemi, potrebbe risolverli un ritorno alle politiche del passato, ai bei vecchi cari tempi in cui l’economia mondiale tirava, e quella italiana cresceva trainata dal debito.

Se una critica si può ragionevolmente fare al Pd non è certo di non saper tornare risolutamente al passato, come vorrebbero i suoi critici nostalgici, ma di non saper guardare al futuro. Dove “guardare al futuro” significa prendere atto senza troppi giri di parole che la Terza via, quella su cui avevano puntato tutte le loro carte i fondatori del Pd, è sostanzialmente fallita, e che si tratta di inventarne un’altra (una Quarta via?), che sappia fare i conti con le sfide della globalizzazione, dell’automazione, delle migrazioni di massa.

Pubblicato su Il Messaggero  il 14 Ottobre 2017