Il dopo-Emilia Romagna

Anche se le Regioni che vanno al voto sono due (Emilia Romagna e Calabria), inutile nasconderselo, è sull’Emilia Romagna che sono puntati i riflettori. Perché, lo si voglia o no, la sfida Bonaccini-Borgonzoni si è trasformata in una specie di giudizio di Dio sul governo nazionale.

Non sarebbe stato così se, una volta caduto il governo giallo-verde, sinistra e Cinque Stelle avessero avuto il coraggio di tornare di fronte all’elettorato, come succede nei paesi normali allorché un’elezione non restituisce un vincitore chiaro. In quel caso i confronti regionali sarebbero rimasti nell’alveo giusto, quello di una competizione locale fra due candidati locali. Poiché, invece, si è scelto di stare al governo a dispetto dei santi, ci si trova a fronteggiare l’insofferenza di quella parte dell’elettorato emiliano-romagnolo che sente l’insediamento del governo giallo-rosso come un vulnus alla democrazia sostanziale.

Dunque, è inevitabile. L’esito delle elezioni in Emilia Romagna non potrà che assumere un significato nazionale. E lo farà chiunque vinca: dopo il voto del 26 gennaio il sistema politico italiano non sarà più quello di prima.

Ma che differenza può fare una vittoria del Pd o una vittoria del centro-destra?

Per certi versi nessuna.

In entrambi i casi diventerà evidente che il nostro sistema politico è tornato bipolare. Il conflitto politico, dopo la breve stagione tripolare 2013-2019, tornerà ad essere strutturato intorno all’opposizione fra destra e sinistra. Certo, i partiti di centro potranno avere uno spazio più o meno grande e risultare più o meno decisivi, ma la scelta elettorale di fondo tornerà ad essere quella classica, fra il blocco di centro-sinistra (più o meno europeista) e il blocco di centro-destra (più o meno sovranista).

C’è un’altra conseguenza che pare difficile evitare, chiunque vinca: l’ulteriore indebolimento del Movimento Cinque Stelle. Questo esito, a mio parere, non ha la sua origine principale negli errori tattici e relazionali di Di Maio, dalle epurazioni alla cacciata di Gianluigi Paragone, ma nella rinuncia a sfruttare l’occasione irripetibile che il governo giallo-rosso aveva offerto ai Cinque stelle: quella di diventare la gamba popolare del centro-sinistra. Se avessero seguito il loro Dna, fondamentalmente assistenziale e anti-migranti, i Cinque Stelle avrebbero potuto, anche grazie alla sponda e alla legittimazione ricevute dalla loro alleanza con il partito dell’establishment (il Pd di Zingaretti), provare a coprire un segmento elettorale che esiste, e tuttavia non ha rappresentanza: quello di quanti chiedono più protezione sia sul versante economico (salario minimo e reddito di cittadinanza) sia su quello sociale (difesa dei confini e controllo del territorio). Con un Pd paladino dell’accoglienza e sempre incerto fra riformismo e assistenzialismo, i Cinque Stelle non avrebbero avuto difficoltà a coltivare e rappresentare questo segmento dell’elettorato.

Ma gli esiti comuni ai due scenari, quello di una vittoria di Bonaccini e quello di una vittoria di Borgonzoni, si fermano qui. Per il resto credo che le cose andrebbero assai diversamente nei due casi.

Dovesse vincere Bonaccini, il Pd si sentirà elettrizzato da un successo di cui ben pochi erano sicuri, Zingaretti si sentirà legittimato a guidare risolutamente il processo di costruzione del “partito nuovo” (qualunque cosa l’aggettivo significhi), le Sardine non esiteranno ad attribuirsi ogni merito per la vittoria, e naturalmente esigeranno di avere un peso elevato nel processo di ricostruzione (e ridenominazione, a quanto pare) del Pd, che nonostante la scissione di Renzi e la concorrenza cinquestelle resta pur sempre il maggior partito della sinistra. Quanto al governo, tutto lascia immaginare che si sentirà legittimato a continuare, magari con un rimpasto che tolga qualche ministero ai Cinque Stelle e li assegni al Pd. In questo scenario il destino dei Cinque Stelle è di diventare una riottosa ruota di scorta del Pd, e probabilmente anche di subire la scissione di quanti (Di Battista?) non vogliono restare alleati per sempre del “partito di Bibbiano”.

Dovesse vincere la Borgonzoni, tutto cambia. E’ anche possibile che il governo nazionale provi a resistere, ma è difficile che riesca nell’intento. In quel caso, infatti, si sommerebbero almeno due spinte del medesimo segno. Da una parte, il “grido di dolore” del popolo leghista e più in generale dell’elettorato di centro-destra, sempre più convinto (erroneamente, Costituzione alla mano) che tornare al voto sia un proprio inalienabile diritto. Dall’altra, il ben più prosaico interesse dei parlamentari a tornare al voto molto rapidamente, prima che il referendum sulla riforma costituzionale cancelli 345 seggi, rendendo drammaticamente più difficile essere rieletti.

E’ vero che, sulla carta, una strada alternativa per conservare il posto ci sarebbe, e sarebbe quella di “resistere, resistere, resistere” fino al 2023. Ma è forse ancor più vero che, nel caso di un trionfo del centro-destra, sui parlamentari di maggioranza si aggirerebbe uno spettro difficile da esorcizzare: quello di un governo che resiste qualche mese, magari un anno, e cade troppo tardi, ossia dopo che il referendum ha drasticamente potato i posti disponibili. Sarebbe il danno e la beffa: non poter arrivare al 2023, in tempo per eleggere il successore di Mattarella, e dover andare al voto giusto subito dopo aver segato il ramo su cui si è seduti.

Pubblicato su Il Messaggero del 24 gennaio 2020



Legge elettorale

Un paio di giorni fa i partiti di maggioranza hanno fatto depositare alla Commissione Affari Costituzionali della Camera una nuova proposta di legge elettorale, che alcuni hanno già battezzata “germanicum” causa vaghe somiglianze con il sistema tedesco. La proposta prevede, in buona sostanza, un ritorno al proporzionale (come nella prima Repubblica), con una soglia di sbarramento al 5%, corretta con un fumoso “diritto di tribuna”, ossia con un meccanismo per dare qualche seggio anche ai partitini incapaci di raggiungere la soglia del 5%.

Fra qualche giorno la Corte Costituzionale dovrà decidere sull’ammissibilità del referendum proposto dalla Lega, che in caso di successo prevede il passaggio a un sistema esattamente opposto, interamente maggioritario.

L’impressione è che fra i due eventi vi sia un nesso. Verosimilmente, i partiti di maggioranza hanno scelto questo momento per avviare l’iter di una nuova legge elettorale anche per mandare un preciso segnale alla Corte Costituzionale: se di legge elettorale ci stiamo già occupando noi in Parlamento, perché mai dare la parola al popolo?

Ma la di là dei tempi e delle piccole convenienze dei protagonisti di questa vicenda (leggermente surreale se si pensa allo stato della nostra economia e alle tensioni del quadro internazionale), qual è la posta in gioco? Che conseguenze può avere l’adozione di una legge elettorale o di un’altra?

La prima cosa di cui dobbiamo renderci conto è che non può essere la legge elettorale a fornire al sistema politico ciò che gli manca. Se non ci sono, da molti anni in Italia, coalizioni ben strutturate, dotate di programmi comprensibili e di dirigenti politici seri, non sarà certo una legge elettorale ben fatta a fare il miracolo di fornircele.

Con ciò non intendo dire che la legge elettorale sia irrilevante. Adottare una legge elettorale piuttosto che un’altra, qualche conseguenza tende a produrla. Uno dei luoghi comuni più diffusi, ad esempio, è che scegliere una legge di impostazione maggioritaria (ad esempio: collegi uninominali, o sistema proporzionale con premio di maggioranza) favorisca la governabilità, mentre sceglierne una di tipo proporzionale assicuri la rappresentatività del Parlamento.

Non si tratta di un’opinione infondata. Fondamentalmente le cose stanno proprio così, perché, di norma, i sistemi maggioritari danno al vincitore più seggi di quanti ne meriti sulla base dei soli voti ricevuti. E, simmetricamente, è difficile (anche se non impossibile) che un Parlamento eletto con una legge proporzionale non rispecchi sostanzialmente le preferenze politiche dell’elettorato.

Tuttavia…

Tuttavia ci sono anche alcune complicazioni, che forse dovrebbero renderci alquanto prudenti prima di adottare un sistema proporzionale, almeno in un paese come l’Italia. Se in un sistema politico la destra e la sinistra hanno un consenso simile, ma nessuna delle due riesce da sola a superare il 50% dei consensi, allora è inevitabile che un potere sproporzionato venga detenuto dai partiti “intermedi”, ossia dai partiti di centro, o da quelli che non sono né di destra né di sinistra. Se per ottenere la maggioranza in Parlamento un governo deve ottenere i voti dei partiti intermedi, allora le sorti del governo sono in mano a forze politiche che rappresentano un’esigua minoranza dell’elettorato. Con tanti saluti al principio di rappresentatività: i seggi possono anche essere proporzionali al consenso, ma il potere che quei seggi conferiscono diventa inversamente proporzionale al consenso stesso.

Non è tutto, però. In un contesto fortemente trasformistico come quello italiano, l’esistenza di un 10-15% di voti che confluiscono sui partiti intermedi rende perfettamente possibile un’eventualità piuttosto inquietante, e cioè che uno dei due blocchi principali (destra e sinistra) sia minoranza nel Paese, ma diventi maggioranza in Parlamento perché riesce a stringere accordi con uno o più partiti intermedi. Giusto per fissare le idee, immaginate un parlamento in cui i blocchi Salvini/Meloni/Berlusconi da una parte e Zingaretti/Grillo/Leu dall’altra hanno ciascuno il 45% dei voti, e in mezzo flottano un partito riformista di Renzi e/o di Calenda, nonché un partito populista di Di Battista e/o di Paragone, tutti vicini al 5%: è chiaro che in una situazione del genere a decidere chi governa il paese non sarebbero gli elettori, ma le scelte di campo dei dirigenti dei partiti minori.

La rappresentatività del Parlamento, assicurata dal sistema proporzionale, dunque non esclude due conseguenze anomale, e per così dire contrarie al principio di rappresentanza: che alcuni partiti piccoli abbiano più potere di quanto gliene hanno conferito gli elettori, e che si installi un esecutivo che è l’opposto di quello che si formerebbe se a scegliere il governo fossero chiamati direttamente i cittadini.

Questo, beninteso, non significa che qualsiasi sistema maggioritario sia migliore di qualsiasi sistema proporzionale. Anche un sistema maggioritario basato sui collegi uninominali può risultare incapace di generare una chiara e netta maggioranza di governo. E nulla esclude che un sistema proporzionale assicuri a lungo maggioranze stabili e sostanzialmente rappresentative.

Il punto, però, è che quando ci si accinge a cambiare per l’ennesima volta la legge elettorale, sarebbe bene esplicitare che cosa si vuole ottenere. Perché ogni sistema elettorale produce conseguenze, e spesso tali conseguenze sono diverse, parecchio diverse, da quelle che gli si attribuiscono. La mia impressione è che l’attuale ritorno di fiamma per il sistema proporzionale sia, essenzialmente, il goffo tentativo di una parte del ceto politico di rendersi ancora più indipendente (di quanto già oggi non sia) dalla ingombrante volontà dell’elettorato.

Pubblicato su Il Messaggero dell’11 gennaio 2020



La destra della sinistra

Sono stati in molti, soprattutto a destra, ad affermare che il governo giallo-rosso è il governo “più di sinistra” che l’Italia abbia mai avuto. Questo giudizio non è privo di una sua plausibilità, se riflettiamo sul fatto che, oltre al Pd, nel governo sono presenti l’estrema sinistra di Leu e il Movimento Cinque Stelle, che alcuni vedono come una sinistra più pura, più radicale, meno compromessa con il potere. In effetti ci sono temi su cui Leu e il Movimento Cinque Stelle hanno posizioni più radicali (più di sinistra?) del Pd, ad esempio in materia di giustizia (i Cinque Stelle sono più giustizialisti) e di assistenza (la spesa per il reddito di cittadinanza è un multiplo di quella per il reddito di inclusione). Quanto al presidente del consiglio Giuseppe Conte, la sua dichiarazione di guerra all’evasione, con relativo patto degli italiani onesti contro quelli disonesti, non può non richiamare l’elogio delle tasse che così spesso è risuonato a sinistra, tanto ai tempi di Vincenzo Visco (che da destra veniva gentilmente dipinto come il “vampiro rosso”), quanto a quelli di Padoa Schioppa (sua l’affermazione secondo cui le tasse “sono una cosa bellissima”).

E tuttavia, a ben pensarci, la tesi che questo governo sia “di sinistrissima” non è poi così fondata. Io direi, piuttosto, che questo governo è sì un governo di sinistra, ma ha al suo interno due bombe a orologeria di destra, che prima o poi potrebbero portarlo a deflagrare.

Pensate a Renzi?

Sì, una è Italia Viva, il partito di Renzi. Sul tetto al contante, su quota 100, e più in generale sull’introduzione di nuove tasse, Italia Viva è più vicina all’opposizione di destra che agli alleati di governo (in particolare i post-comunisti di Pd e Leu). Questo non significa che Renzi sia “di destra”, come amano affermare i suoi detrattori di sinistra, ma mostra che la sinistra che ha in mente Renzi ha poco a che fare con quella del partito da cui proviene.

Ma la vera bomba a orologeria non è quella di Renzi, bensì quella di Di Maio. Non si può ignorare, infatti, che nel Movimento Cinque Stelle è presente anche una corposa componente di destra, o comunque ostile alla sinistra, e in particolare al Pd. Sui migranti, ad esempio, una parte considerevole degli elettori Cinque Stelle sono più vicini alla linea dura di Salvini che all’ideologia dell’accoglienza cara alla sinistra doc.

Quanto alle tasse, il minimo che si possa dire è che le “sensibilità” dentro il Movimento sono parecchio variegate. Il partito di Di Maio, da sempre, ha un occhio di riguardo per le partite Iva e per le piccole imprese. E ora che l’incauto Conte annuncia una lotta senza quartiere all’evasione fiscale, ai dirigenti Cinque Stelle non può non sovvenire che il grosso dei loro voti provengono dal Mezzogiorno, ossia dalle regioni con la più alta propensione all’evasione. Una propensione che è difficile mettere tutta in carico ai ricchi, alle grandi imprese e alle multinazionali, visto che – al Sudo come al Nord – la si vede quotidianamente, e ad occhio nudo, per le strade, nei negozi, nei mercati, nei cantieri, nei campi, dove coinvolge anche tante persone normali o povere, compresi disoccupati che lavorano in nero e occupati con il doppio lavoro.

Ed eccoci al punto. Questo sarà pure un governo di sinistra, ma le due bombe a orologeria Renzi e Di Maio potrebbero anche, prima o poi, farlo esplodere, o perlomeno provocare qualche terremoto interno.

Quando?

Credo che molto dipenderà da come andranno le molte elezioni regionali in vista, a partire da quella di domani in Umbria. Perché è vero che, se c’è la volontà di restare al potere fino all’elezione del Presidente della Repubblica (2022), non c’è risultato elettorale locale, per quanto eclatante, che possa convincere chi siede in parlamento ad affrontare anticipatamente la sfida elettorale. Ma è anche vero che, se l’elettorato Cinque Stelle, cui fino a ieri il Pd è stato presentato come l’impero del male, mostrasse di non gradire la nuova alleanza, difficilmente potrebbero non esservi conseguenze.

Ecco perché, nonostante gli elettori chiamati al voto non siano molti (circa 700 mila), il test umbro potrebbe risultare cruciale non solo per gli umbri, ma per il futuro del governo nazionale.

Pubblicato su Il Messaggero del 26 ottobre 2019



Donne e politica: perchè solo la destra si fida delle donne al comando?

«Come donna devi avere il senso del limite.» Forse la risposta al quesito «perché la sinistra non ha leader donne?» è tutta qui, nelle parole che nel 2001 si sentì dire il ministro Roberta Pinotti, all’epoca segretario provinciale Ds a Genova, quando il partito le propose la candidatura in Parlamento e, negli stessi giorni, lei scoprì di aspettare un figlio. A pronunciarle non fu il suo partner o un avversario politico maschio, o un compagno retrogrado tipo quelli immortalati da Guareschi in Don Camillo, che andavano a piangere dal prete perché la moglie era così impegnata in politica da trascurare i fornelli. A Pinotti lo disse un’altra donna del suo partito, l’ex Pci, l’attuale Pd. Probabilmente, una progressista pronta a combattere in buona fede per le pari opportunità, finché non si tratta di rompere il famoso soffitto di cristallo. Non è nella natura delle donne, e men che mai delle future madri, rompere i cristalli. Al massimo possono prendere straccio e Vetril, tirarli a lucido e godersi la splendida visuale delle suole dei compagni che, geneticamente sprovvisti del senso del limite, hanno fatto carriera e ora camminano sulle loro teste. Pinotti invece il cristallo l’ha rotto. Da tre anni è ministra della Difesa, prima donna in Italia. E oggi dice che per lei, donna ed ex comunista, è stato più facile farsi accettare dalle arcigne Forze Armate che dai politici, compresi quelli di sinistra. Una storia che ricorda alla lontana quella di Angela Merkel: cresciuta nella Gioventù comunista della Germania Est, ma poi trapiantata con successo in un’aiuola ideologicamente lontanissima, quella cristiano-democratica.

Chissà se a Frau Angela, la tri-cancelliera in cui molti vedono il solo vero uomo politico europeo, qualcuno ha mai consigliato di mantenere il senso del limite. O per rimanere in Germania, a Tatjana Festerling, la pasionaria di Pegida, destra radicale, o a Frauke Petry, ex leader dei nazionalisti di Alternative fur Deutschland, o ad Alice Weidel, attuale vice presidente del partito, o alle sue aristocratiche capi-corrente Doris von Sayn-Wittgenstein e Beatrix von Storch, imparentate con tutte le teste coronate d’Europa. Sembra che il senso del limite, rimanere un passo indietro rispetto ai maschi, senza mai alzare la voce o pestare i piedi, sia una virtù richiesta soprattutto alle politiche di sinistra. La destra europea pullula di donne «no-limits». In Francia, paese politicamente sessista almeno quanto l’Italia, ci sono le due Le Pen, Marine e Marion; in Inghilterra Theresa May, Diane James dell’Ukip, Leanne Woods dei nazionalisti gallesi e la bombastica Jayda Frensen, pasionaria dell’ultradestra di British First i cui tweet islamofobi sono stati improvvidamente retwittati da Donald Trump. Il giro d’Europa delle lady di ferro tocca la Norvegia, dove il centrodestra e la destra populista sono presidiate da due signore, Erna Solberg e Siv Jensen; la Lituania della Thatcher baltica, Dalia Grybauskaite, la Polonia, governata dalla leader degli ultra-conservatori Beata Szydlo, sconfina in Ucraina, forse la culla dell’euro-nazionalismo al femminile, inaugurato dall’iconica Yulia Timoshenko (la controversa eroina della Rivoluzione Arancione che ha annunciato di voler correre alle elezioni del 2019) e si conclude in Croazia, presieduta dal 2015 dalla conservatrice Kolinda Grabar-Kitarovic, la persona più giovane mai chiamata a ricoprire la massima carica dello Stato, e la prima a rimuovere dal palazzo presidenziale il busto del maresciallo Tito.

Pare che in Europa la leadership della destra, in tutte le sue cinquanta sfumature di nero, si declini preferibilmente al femminile. E visto che perfino da noi l’unica donna capo di partito è Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia, da poco raggiunta dalla «pitonessa» Daniela Santanché, possiamo dire che il problema con l’altra metà del cielo, una volta tanto, non ce l’ha solo l’Italia. Ce l’ha proprio la sinistra. (Negli Stati Uniti il problema ce l’hanno sia la sinistra che la destra, una che si mangia ancora le mani per aver puntato su Hillary, l’altra abbrutita da Trump e dal machismo dell’Alt-right, che vede una stridula femminista in ogni donna che lavora.)

Strano, vero? La parte politica che più si è battuta per l’emancipazione, i diritti e le pari opportunità sembra non fidarsi delle donne al comando. Mentre la destra, specie quella populista, trova in giovani, toste e spesso piacenti signore le portavoci ideali. I maschi bianchi impauriti dalla globalizzazione, destabilizzati dall’immigrazione, e magari tignosamente attaccati agli stereotipi di genere, pendono dalle loro labbra senza complessi. Sorprendente ma non troppo: in fondo il nazionalismo si è sempre appoggiato a una simbologia muliebre: da Marianna a Boudicca, le allegorie della Patria sono matrone più o meno discinte, spesso in pericolo, incatenate o concupite da stranieri libidinosi, che incitano il popolo protendendo le braccia tornite. «Nazione come incarnazione di una declinazione patriottica dell’amore romantico», secondo la definizione dello storico Alberto Maria Banti: anziché soffrirne, le donne della destra europea si avvantaggiano, più o meno consapevolmente, dei residui, deboli ma persistenti, di un immaginario sette-ottocentesco maschilista soffuso di sottintesi sadomaso. Una narrativa in cui cent’anni fa il «villain» era, a seconda dei casi, il barbaro tedesco, l’infido ebreo o il russo belluino, e oggi è l’immigrato nero e/o musulmano, supposto violatore di tutto ciò che è violabile: donne e proprietà, chiese e quiete pubblica.

L’appeal di Szydlo e colleghe ha sì un piede nel passato, ma l’altro è ben calato nel presente. Proprio perché donne, appaiono come un’alternativa più netta a un ordine mondiale creato da maschi ricchi e benpensanti in giacca e cravatta, e allo stesso tempo rassicurano un elettorato che si sente sperduto, indifeso, non considerato da poteri patrigni, lontani e cattivi. In un certo senso le leader populiste sono l’apoteosi politica delle mamme cazzute che vanno a litigare con gli insegnanti dei figli perché dànno troppi compiti e fanno favoritismi. L’ «uomo forte» all’antica evocherebbe fantasmi militareschi troppo impegnativi per l’europeo moderno, nato, cresciuto e invecchiato nel più lungo periodo di pace mai vissuto dal Vecchio continente. Nell’era della pop-politica e dell’intimità quasi fisica fra il leader e il suo popolo, l’eccesso di testosterone non fa più sognare l’elettorato conservatore, tant’è che il tipo vincente fra i leader maschi populisti non è il caporione baffuto e mascelluto, ma l’elegante metrosexual con visetto cesellato, chioma ben curata e fisico da attore di soap-opera, vedi Geert Wilders, Sebastian Kurz e, in versione mediterranea, Luigi Di Maio. Perfino Matteo Salvini ha messo da parte le rudi canottiere bossiane e si è ingentilito: fra una ruspa e un post anti-migranti infila una copertina «desnuda» per Oggi e un’intervista in cui parla dei suoi figli e della (poca) cura della barba, e arriva a incassare e perdonare la scappatella ibizenca della fidanzata, accreditandosi presso le sue molte fan come maschio aperto ed evoluto. Ha imparato dal migliore, il maestro inarrivabile della trasformazione del privato in affare pubblico: Silvio Berlusconi, che a ottant’anni, truccato e tirato come Joan Collins, riesce a fare di acciacchi, cateteri e dentiere un’arma di seduzione elettorale.

Per le donne vale l’opposto: esporre il proprio privato non le rende più simpatiche, solo più vulnerabili e meno autorevoli. Devono essere sia Cesare che la moglie di Cesare: assertive e di polso, ma anche inappuntabili dal punto di vista morale. La seconda parte è più difficile della prima, perché nella pop-politica, mediatica e socialmediatica, la morale è anche estetica, e alla donna si rinfaccia tanto la mancanza di avvenenza, giovinezza e civetteria – vedi l’accanimento contro Rosy Bindi – quanto il suo contrario – vedi le campagne grilline «cosa faresti in auto con Laura Boldrini?» e i lazzi volgari, anche da sinistra, contro Maria Elena Boschi ben prima dello scandalo Banca Etruria. Lo stesso trattamento riservato, ai tempi del governo Berlusconi, a Mara Carfagna. Credete che all’estero siano più evoluti? Pochi mesi fa, dopo che Alice Weidel aveva condannato la «political correctness», il Crozza tedesco, Christian Ehring, l’ha presa in parola definendola nel suo show «troia nazista». Denunciato da Weidel, il comico è stato assolto in tribunale in nome della libertà di espressione: le figure pubbliche devono incassare gli sfottò, anche pesanti. Del resto, hanno aggiunto i giudici, «nazista» si riferiva alle posizioni oggettivamente estremiste dell’Afd, e «troia» ha sì una connotazione sessuale, ma «è stato usato solo perché si tratta di una donna e agli spettatore era chiaro che il termine non corrispondeva alla verità». Nella Germania di Angela Merkel, in un contesto di satira televisiva, è lecito dare della troia a una donna, a meno che non lo sia davvero.

Nessun paese è immune dal sessismo. E nessuno schieramento politico. Ma quello plateale e smaccato degli insulti degli oppositori forse fa meno danni del sessismo ipocrita, untuoso e sabotatore che le donne di sinistra incontrano nei loro stessi partiti. Il Pd è «ipnotizzato», come scrive Lea Melandri, «dalla schermaglia più o meno astiosa dei concorrenti alla leadership del partito, da cui le donne sembrano essersi ritratte, forzatamente ricondotte a spettatrici». Alle quali si chiede impegno, generosità e, soprattutto, obbedienza quando il partito chiede di farsi da parte. Esemplare il caso di Laura Puppato: nel 2010, dopo essersi fatta onore come sindaca di Belluno, era la concorrente più accreditata alla presidenza della regione Veneto, sostenuta da comitati locali e da Vip. Eppure il partito alla fine decise di candidare un uomo, Giuseppe Bortolussi, e perse le regionali; Puppato, che correva solo come consigliere regionale, fu eletta con numeri da record. Dopo la sua sconfitta alle primarie Pd del 2012 nessuna si è più azzardata a contendere agli uomini il timone del Nazareno. E malgrado il renzismo ci abbia offerto gran copia di ministre e portavoce, nessuna donna è stata candidata alla poltrona di sindaco di una grande città. L’atteggiamento del Pd rispetto alle donne rispecchia un po’ quello della coppia italiana rispetto alle automobili: in famiglia la donna guida sempre l’auto di cilindrata più piccola. Quella grande e potente è appannaggio dell’uomo, al massimo lei fa da copilota, anche se ha più punti sulla patente.

Più si va a sinistra, peggio è. L’imbarazzante foto di gruppo dell’esordio del tanto atteso nuovo soggetto, Liberi e Uguali, sembra scattata alla pizzata della squadra di calcetto: tutti maschi. Dopo che sul palco dell’Atlantico Live erano passate l’operaia della Melegatti, la ricercatrice del Cnr, le presidenti di Arci e Legambiente: virtuose figurine, perfette per scaldare la platea con funzione di décor politico-emozionale. Ma lo stato maggiore di Liberi e Uguali è for men only, in un momento in cui il tema della violenza di genere è all’ordine del giorno in mezzo mondo. Roba che al confronto il M5s, con Raggi, Appendino, Taverna e Rocchi, pare un collettivo femminista. All’ombra di un padre-padrone di nome Beppe Grillo, certo; sta di fatto che all’ombra di D’Alema, padre nobile di Liberi e Uguali, per ora donne non se ne vedono. «Proprio quando la destra sceglie di rappresentarsi con le donne,» si dispera Silvia Garambois su Strisciarossa, il sito degli ex dell’Unità. Già, ma è anche vero che solo a sinistra le donne si vergognano di voler comandare. Che sia una velenosa eredità del pensiero della differenza, la corrente filosofica femminista made in Italy che ha influenzato tutta una generazione di donne di sinistra? A forza di insistere sullo «specifico femminile», fondato sulla relazione e connotato dal lavoro di cura e di accoglienza, ha finito per colpevolizzare nelle donne l’aspirazione al potere, alla leadership, vista come un concetto naturaliter maschile. Quelle come Boschi, Madia e Pinotti, che non cercano la maternità o non se ne lasciano condizionare, non sono viste come un modello di empowerment e di emancipazione per le giovani donne, ma vengono giudicate divisive: vogliono fare le prime della classe, e chi non ce la fa o non se la sente fa la figura della «meno brava».

A destra certe paturnie non hanno mai attecchito: sotto sotto è rimasta «il mondo soldatesco e affamato, in cui la presenza femminile appariva a stento e scompariva presto, a meno che non sviluppasse qualità amazzoniche, militari, maschili» di cui ha scritto Alessandro Giuli sul Foglio. Secondo cui Giorgia Meloni riassume tutto l’album genealogico delle donne della destra italiana: un po’ donna Rachele, un po’ valchiria, un po’ ausiliaria della Rsi, il tutto condito da una voce roca e romanesca da Evita della Garbatella che fa un po’ simpatia e un po’ paura. Meloni deve misurarsi «solo» con il sessismo dei maschi. Non deve anche rendere conto delle sue scelte personali a una platea femminile criticona e competitiva come quella che giudica le colleghe di sinistra. Pure lei si è sentita dire «faccia la mamma», quando pensava di candidarsi a sindaca di Roma durante la sua gravidanza. Ma glielo disse Guido Bertolaso di Forza Italia, non una compagna di partito.

Pubblicato il 12 dicembre 2017



Dal fisco alla scuola/Tre domande per la destra di governo che verrà

Anche se nessun partito ha ancora presentato un programma elettorale preciso, ormai un’idea me la sono fatta. All’appuntamento di marzo, quando saremo chiamati alle urne, la sinistra si presenterà, inevitabilmente, come la paladina e la garante della continuità. In un modo o nell’altro, è al governo da sei anni, e da quasi quattro, ossia da quando Renzi ne ha conquistato il comando, governa sostanzialmente da sola, con condizionamenti minimi da parte dei cespugli che circondano il Pd. E’ dunque verosimile che, alle urne, si presenti chiedendo agli italiani di consentirle di continuare il lavoro fatto da Renzi e Gentiloni. Se siamo stati così bravi fin qui, perché cambiare?  Molto difficile che, prima del voto, il Pd attui quella svolta a sinistra (ma sarebbe più esatto dire: quel ritorno al passato), che scissionisti e nostalgici invocano quotidianamente.

Il Movimento Cinque Stelle si presenterà nel registro opposto, come l’unica garanzia di un cambiamento vero, come l’unica forza che – essendo nuova e non avendo mai governato (o meglio: avendo governato in modo controverso a Roma, Torino e qualche altro comune) – può davvero cambiare il Paese. E cercherà di convincere gli italiani a votarlo soprattutto con la proposta di un (assai generoso) reddito minimo garantito, che si ostinerà a chiamare “reddito di cittadinanza”, che suona meno assistenziale.

Il vero rebus, per me, è la destra. Intanto perché, a destra, a differenza che altrove, siamo in presenza di tre partiti e non di uno solo: Forza Italia e la Lega stanno in prossimità del 15%, Fratelli d’Italia sta ormai stabilmente intorno al 5%, ben oltre ogni ragionevole soglia di sbarramento. Ma soprattutto per un altro motivo: il programma politico dell’alleanza che si va profilando fra i tre partiti di destra non è affatto chiaro. E non lo è non già su quisquilie e pinzillacchere, ma su almeno tre punti fondamentali.

Il fisco, innanzitutto. Sia Salvini sia Berlusconi parlano di flat tax, ovvero di un’unica aliquota sul valore aggiunto (IVA), per il reddito personale e per il reddito di impresa.

Ma per Salvini l’aliquota unica deve essere al 15%, per Berlusconi al 23% (una differenza enorme, sul piano macroeconomico). Entrambe le proposte sono al di sotto del 25%, ossia dell’aliquota proposta dall’Istituto Bruno Leoni, probabilmente il think tank più liberal-liberista che vi sia in Italia. E notate che l’aliquota unica proposta dal Bruno Leoni, molto efficacemente e dettagliatamente spiegata da Nicola Rossi in un denso volumetto di qualche mese fa (Venticinque% per tutti, IBL Libri), è già stata considerata irrealistica (troppo bassa) da qualificati studiosi di questioni fiscali. A destra si pensa che Salvini e Berlusconi troveranno un punto di equilibrio (20%?), ma la vera questione non è a che livello si metteranno d’accordo i due principali partiti del centro-destra, ma in che modo si possa attuare un programma così audace nell’orizzonte di una legislatura. Perché si fa presto a dire riduciamo il perimetro della Pubblica Amministrazione, combattiamo gli sprechi, facciamo la spending review: quando si arriva al dunque, nessuno riesce a chiudere gli enti inutili, nessuno riesce a liberarsi del personale in eccesso, nessuno riesce a privatizzare quel che andrebbe privatizzato, e la soluzione che mette d’accordo tutti i governi, di destra e di sinistra, è da 10 anni sempre la stessa: liberarsi dei commissari alla spending review.

Il secondo punto poco chiaro è quello del contrasto alla povertà, un dramma che continua a perdurare e anzi si è ancora (leggermente) aggravato negli ultimi tempi. Qui quel che si vorrebbe capire è se il centro-destra pensa sul serio di introdurre un’imposta negativa sul reddito (nel qual caso farebbe bene a spiegare innanzitutto che cos’è, visto che non tutti hanno studiato Milton Friedman e Friedrich von Hayek). E, se sì, su quali basi, con quali risorse, e destinata a chi. Giusto per ricordare qualche nodo: l’esistenza di prezzi molto diversi fra Nord e Sud rende iniqua un’imposta basata sul reddito nominale; aggredire la povertà costerebbe almeno 10 miliardi; quasi il 40% dei poveri è costituito da immigrati.

Un terzo punto che meriterebbe di essere chiarito è quello della sicurezza e dell’immigrazione irregolare. Se non ci fosse Minniti, la linea del centro-destra sarebbe scontata: stop alle politiche di accoglienza indiscriminata (e disordinata) attuate fino a pochi mesi fa. Ma adesso c’è Minniti che quelle politiche le ha già cambiate parecchio. Quindi la domanda diventa un’altra: fareste come Minniti? O fareste di più, o cose diverse? E se la risposta fosse quest’ultima, quali cose fareste fra quelle che si possono effettivamente fare, al di là dei facili slogan di una campagna elettorale? Come affrontereste il problema degli alloggi popolari abusivamente occupati da italiani non meno che da stranieri?

Ci sarebbe poi un punto ulteriore, che però non riguarda specificamente la destra, ma un po’ tutte le forze politiche: sulla scuola, e più in generale sul mondo dell’istruzione, che cosa possiamo aspettarci dal prossimo governo?

Perché almeno un paio di cose sono chiare, per chi ha occhi per vedere. La prima è che l’alternanza scuola-lavoro ha presentato forti “criticità”, per usare un eufemismo caro alla politica. Un peccato per gli studenti, ma forse anche un’occasione sprecata per le imprese, che potrebbero dare molto di più ai giovani (e a sé stesse) se fossero messe in condizione di fare della vera formazione sul posto di lavoro. La seconda è che l’abbassamento degli standard, in atto in tutti gli ordini di scuola da almeno mezzo secolo, non accenna a interrompersi. Nessun governo degli ultimi 50 anni ha mai fatto qualcosa per fermare questa deriva, e quasi tutti hanno molto operato per accelerarla.

Non sarebbe ora che almeno una forza politica si decidesse, non dico a combinare qualcosa di buono, ma almeno a riconoscere il problema?

Pubblicato su Il Messaggero il 21 ottobre 2017