Quegli anni bui del centrismo…

Gli anni che vanno dai primi governi Alcide De Gasperi allo sdoganamento delle forze di sinistra—i socialisti prima, i comunisti dopo—vengono descritti come una  sofferta fase di transizione tra la dittatura e la democrazia. Una chiesa che influenzava le scelte politiche, una radio che cestinava ogni prodotto artistico non in linea con i valori tradizionali (Dio, patria, famiglia), un’industria cinematografica soggetta alle più ottuse censure. Per chi ha vissuto quel periodo sembra di leggere una storia svolta a sua insaputa. Ero un liceale nei tardi anni cinquanta –l’unico studente della mia classe ad avere la tessera del PSI: invece della ‘Gazzetta dello Sport’, compravo ‘Il Mondo’ e non mi piaceva affatto vivere nella più bianca (allora) provincia italiana. Però ricordo anche altri aspetti di quell’Italia  dimenticati e rimossi: una televisione che, oltre a esercitare la censura, si preoccupava di elevare il livello culturale degli italiani (con sceneggiati di classici della letteratura e la mandata in onda del grande teatro europeo); una scuola selettiva non solo per gli studenti ma anche per i professori che, per diventare di ruolo, dovevano sudare sette camicie; un’amministrazione pubblica (stato e parastato) nella quale si entrava grazie a concorsi – tenuti nella mitica sede romana di Via Gerolamo Induno! – che non guadavano in faccia a nessuno; la diffusione del benessere in ampi strati sociali. La domenica nel mio paese ciociaro, prima della guerra, i contadini arrivavano in chiesa con i piedi dipinti di marrone per simulare le scarpe, nella mia adolescenza, li vedevo arrivare in macchina con grande sconcerto dei maggiorenti locali (‘di questo passo dove andremo a finire?’). Nel suo bel blog La nostra storia (‘Corriere della Sera’) Dino Messina ha recensito il libro di Pier Luigi Ballini ed Emanuele Bernardi, Il governo di centro: libertà e riforme. Alcide De Gasperi e Antonio Segni (Ed Studium). “I risultati della riforma che arrivò nel 1950 con una legge stralcio riguardante il delta del Po, la Maremma tosco-laziale, la Basilicata e la Puglia, la Sila e altre aree della Calabria, la Sicilia e la Sardegna sono racchiuse in un numero: 750 mila ettari distribuiti”. La vera rivoluzione sociale la fece la DC, a quella dei costumi avrebbero provveduto le sinistre.

 

Dino Cofrancesco




Dove sbaglia il radicale Valter Vecellio

Invitato all’Istituto Sturzo, con altri studiosi di pari prestigio, alla tavola rotonda di presentazione del fascicolo di ‘Paradoxa’,I, 2022, sulle ‘Parole della Destra—a cura della direttrice della rivista Laura Paoletti e del sottoscritto—Valter Vecellio un autentico liberale libertario  ha criticato il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, per aver parlato di ’certezza della pena’ invece che di ‘certezza del diritto’. E’ comprensibile il disappunto del direttore di ‘Notizie radicali, che, come il suo compianto mentore Marco Pannella, ha il culto della Destra storica ed è impegnato in benemerite battaglie civili, come la denuncia delle condizioni dei detenuti nelle borboniche prigioni italiane. E tuttavia, la  certezza della pena  è una ‘species’ del ‘genus  certezza del diritto. Se c’è la seconda, non può non esserci la prima e poiché l’una è un topos retorico sbandierato a ogni pié sospinto mentre l’altro viene sistematicamente squalificato come reazionario non meraviglia che qualcuno ne faccia la sua bandiera giacché in politica non esiste il vuoto e se nessuno si fa carico dei bisogni reali e delle esigenze di una parte della popolazione ci sarà sempre qualcuno pronto ad appropriarsene. Figlie, madri, sorelle, spose che vedono gli assassini dei loro congiunti rimessi presto in libertà—grazie anche alla filosofia del diritto mite di magistrati formatisi nelle Università sessantottesche dove hanno appreso che la responsabilità individuale è un mito giacché crimini e violenze sono prodotti della società borghese—non possono non ripetere, col protagonista di una vecchia sceneggiata napoletana,”chesta non è giustizia, è ‘nfamità!”. Il fatto che delle vittime si occupino solo i giornali del centro-destra—o trasmissioni televisive come quelle di Nicola Porro, di Mario Giordano (sempre sopra le righe), di Paolo Del Debbio—dovrebbe indurre le sinistre a mettere da parte il ‘politicamente corretto’—che spesso le porta a nascondere la provenienza exracomunitaria di chi delinque–e a chiedersi, seriamente, come mai una pronipote del ‘fucilatore’ Giorgio Almirante si trovi oggi a Palazzo Chigi.

Dino Cofrancesco

Presidente dell’Associazione Culturale Isaiah Berlin




Come le idee di Sinistra sono migrate a Destra – Pietro Senaldi (Direttore di Libero) intervista Luca Ricolfi

Il suo ultimo lavoro si intitola “La mutazione” e allude al passaggio a destra di alcuni valori cardine della sinistra. Ma prima dei partiti, non è cambiata la società italiana, e in che modo?

Sì, dei cambiamenti del sistema-Italia ci sono stati, ma il più importante a me pare l’aumento del grado complessivo di incertezza, del senso generale di vulnerabilità, provocato da un complesso di fattori: a partire dal 2011, l’esplosione del problema migratorio in seguito alla morte di Geddafi; nel 2007-2013 la instabilità finanziaria; dopo la crisi finanziaria, l’irruzione sulla scena mondiale dei cosiddetti perdenti della globalizzazione. La destra ha colto il cambiamento, cercando di dare risposte più o meno efficaci all’incertezza, la sinistra non ha minimamente capito che la globalizzazione, l’Europa, le istituzioni internazionali stavano diventando invise ai cittadini in difficoltà.

La sinistra è diventata un cartello di gestione del potere e questo l’ha allontanata dall’ascolto delle esigenze della popolazione: è stato un processo inconsapevole o nel tempo è diventata una strategia per conservare il potere, abbassando il livello di istruzione e quindi di consapevolezza generale per creare una massa manovrabile con qualche slogan politicamente corretto e quindi virtualmente incontestabile?

Direi che è stato un processo inconsapevole, guidato dalla naturale attrazione per il potere. Escluderei che dirigenti strutturalmente incapaci di accorgersi dei più elementari e vistosi cambiamenti della realtà possano aver consapevolmente perseguito forme di istupidimento delle masse.

Perché il merito fa così paura a sinistra, se è il solo modo di riattivare l’ascensore sociale e perché la sinistra non concepisce più la cultura come mezzo di elevazione sociale, concetto peraltro gramsciano?

Perché, grosso modo dal 1962 (anno della riforma della scuola media), e con particolare energia dal 1968, i dirigenti della sinistra si sono convinti che la partita della competizione sociale si giocasse tutta all’interno della scuola, e che la posta in gioco fossero i titoli di studio conseguiti. Di qui l’idea – imbarazzante per la sua stoltezza – che abbassando livello degli studi e asticella della promozione si sarebbe prodotta più eguaglianza.

Merito, sovranità alimentare, made in Italy, natalità: perché la sinistra ha criticato e scatenato battaglie ideologiche contro la promozione di queste parole? Sono concetti di destra, di sinistra o semplicemente di buon senso?

A me sembrano concetti di buon senso, che sono diventati improvvisamente radioattivi quando la destra li ha fatti propri. Nei loro confronti la sinistra reagisce pavlovianamente, come il toro davanti al drappo rosso.

Perché la libertà di pensiero è difesa dalla destra e non dalla sinistra, che pare ontologicamente allergica ad accogliere punti di vista differenti e votata a squalificare e degradare chi non si sottomette ai suoi diktat culturali e dal sapore propagandista?

La destra si è trovata, quasi per caso, a difendere la libertà di pensiero semplicemente perché la sinistra, con l’adesione acritica al politicamente corretto, ha progressivamente assunto tratti sempre più intolleranti. Un’intolleranza che, a sua volta, deriva dalla convinzione di incarnare la civiltà contro la barbarie, la ragione contro l’oscurantismo dei conservatori.

Il reddito di cittadinanza è diventata la linea del Piave della sinistra, solo che è una bandiera grillina. E’ il simbolo dell’abdicazione del Pd in favore di M5S del ruolo di difensore dei poveri?

Sì, ma non è l’unica abdicazione a favore dei Cinque Stelle. Oltre alla difesa dei poveri, i Cinque Stelle stanno sottraendo alla sinistra ufficiale la bandiera della pace, l’ecologia, l’arcipelago dei bonus più o meno assistenziali.

Qual è la dottrina delle tre società, che lei ha elaborato?

La dottrina distingue fra tre segmenti sociali, distinti in base al rapporto con il mercato del lavoro. La prima società, o società delle garanzie, è costituita dai lavoratori dipendenti stabili delle imprese medie e grandi, per lo più tutelati dalle organizzazioni sindacali. La seconda società, o società del rischio, è costituita dai lavoratori più esposti alle turbolenze del mercato: partite Iva, piccoli imprenditori, dipendenti regolari delle piccole imprese, lavoratori a tempo determinato delle imprese medie e grandi. La terza società, o società degli esclusi, è costituita da tre gruppi principali, accomunati dalla loro marginalità: lavoratori in nero (compresi vari tipi di quasi-schiavi, che ho descritto ne La società signorile di massa), disoccupati veri e propri (alla ricerca di un lavoro), lavoratori potenziali scoraggiati (disponibili a a lavorare, ma non in cerca di lavoro).

E’ incredibile, ma ai tre tipi di società corrispondono nitidamente tre opzioni politiche: i garantiti guardano a sinistra, i membri della società del rischio a destra, gli esclusi al movimento Cinque Stelle.

Chi sono oggi i deboli che la sinistra non difende più, cosa vogliono e cosa si aspettano dalla politica?

I dati mostrano senza ombra di dubbio che i deboli sono sovrarappresentati nella società del rischio (che guarda a destra) e nella società degli esclusi (che guarda ai Cinque Stelle).

I progressisti si sono persi inseguendo il mito del progresso, e scambiandolo erroneamente con la globalizzazione, così come cent’anni fa la destra si perse dietro il mito dell’uomo forte?

Sì e no, per come la vedo io c’è una differenza: il mito del progresso è una forza verso qualcosa, tipo una società prospera e liberata, mentre il mito dell’uomo forte, almeno in Italia, si formò anche, se non soprattutto, come reazione ai processi di disgregazione del sistema sociale in atto dopo la fine della prima guerra mondiale.

Perché i ricchi e chi ha posizioni di rendita vota a sinistra?

Per due ragioni distinte. L’interesse, dal momento che la sinistra ha abbandonato la lotta di classe e si è fatta establishment, attentissima alle esigenze dei ceti alti. E l’autogratificazione, perché un ricco che vota a sinistra, difende i migranti, è sensibile alle istanze LGBT+, tende a sentirsi moralmente superiore, e al tempo stesso “lava” (a costo zero) la colpa di essere ricco.

Lei ha partecipato al convegno di Milano organizzato nella scorsa primavera dall’allora leader di Fdi. Qual è il modello sociale proposto dalla Meloni?

Per quel che riesco a capire è parecchio diverso da quello di Salvini e Berlusconi. Fratelli d’Italia non è un partito liberista, semmai è una evoluzione della destra sociale, con robuste tentazioni stataliste e welfariste. Sul piano giudiziario, poi, Fratelli d’Italia è meno garantista di Forza Italia, come del resto è emerso chiaramente con il decreto anti-rave. E poi c’è l’aspetto più interessante: la battaglia per il merito a scuola l’ha lanciata Fratelli d’Italia, mentre gli alleati sembrano avere una visione più aziendale del ruolo della scuola.

Se perfino la Meloni promuove concetti di sinistra, significa che la destra in Italia non esiste più, o che è rappresentata da Salvini e Berlusconi o da Calenda? Insomma, da zero a quattro, quante destre ci sono in Italia?

Direi quattro, cioè quelle che ha indicato lei, ma potrebbero ridursi presto a due soltanto: la destra sociale di Meloni, e la destra liberal-liberista di Salvini e Berlusconi, o dei leader che prenderanno il loro posto. Calenda e Renzi non li vedo benissimo, a meno che riescano a convincere il Pd ad assorbirli e a macronizzarsi.

E sempre da zero a quattro, considerate le mutazioni di Fdi, quante sinistre ci sono in Italia?

Apparentemente sei, ma in realtà solo due: la sinistra qualunquista dei Cinque Stelle, con cespugli annessi (Fratoianni e Bonelli) e la sinistra senza volto del Pd (anche lei con cespugli annessi: +Europa, qualche pezzo di “terzo polo”). La grande incognita è quale volto assumerà il Pd dopo il congresso, sempre che la lunga attesa non l’abbia nel frattempo fatto sparire.

C’è un idem sentire dell’elettore di destra, per esempio rappresentato dai valori dell’ordine, della sicurezza, della detassazione?

Forse un idem sentire c’è, ma credo che il cocktail sia più complesso e sfuggente. Fra gli ingredienti che lo definiscono includerei il pragmatismo, l’ostilità verso le discussioni astratte, l’insofferenza per le ossessioni del politicamente coretto, l’anti-intellettualismo, la diffidenza verso il progresso, l’ostilità alle procedure e alla burocazia. Insomma, una sorta di neo-tradizionalismo, che poggia sulla netta sensazione che la freccia del tempo non punti sempre nella direzione giusta.

Il concetti di difesa della nazione e dei suoi interessi e di patriottismo reggono in un Paese di anarchici qual è l’Italia?

Forse sì, perché il patriottismo oggi richiesto è veramente minimale, e un problema di difesa dell’interesse nazionale esiste effettivamente.

La sfida della Meloni in Europa ha possibilità di successo e in che modo differisce da quelle di Berlusconi e di Salvini, che si scontrarono con la Ue, che ne determinò l’inizio dei rispettivi tramonti?

Sono i tempi, più che i leader, ad essere cambiati. L’Europa ha dato così cattiva prova di sé nella gestione della crisi energetica, che l’idea di una ortodossia europea da onorare e rispettare ha perso gran parte dell’antica autorevolezza. Credo che, se ci sarà un tramonto della stella di Giorgia Meloni, sarà il risultato di vicende domestiche. Tipo estenuanti trattative e bracci di ferro con Salvini e Berlusconi sulla politica economica, errori nei tempi e nei modi di varare le misure più identitarie.

A quali misure pensa, in particolare?

Essenzialmente tre: diritti civili, specie in materia di aborto; gestione dei migranti; merito e riforma della scuola.

Che giudizio dà della prima missione della Meloni in Europa?

Immagino si sia trattato, più che altro, una utile e doverosa visita di cortesia. E’ a partire dalla seconda che, forse, potremo farci un’idea.

Quali possono essere gli argomenti divisivi all’interno di questo governo e secondo lei durerà?

Credo che gli argomenti divisivi saranno quelli economici: entità dello scostamento di bilancio, tempi di realizzazione del programma fiscale, superamento della legge Fornero, ponte sullo stretto di Messina.

Quanto alla durata, non ne ho la minima idea. Però non mi stupirei che, a un certo punto, Meloni si convinca di poter andare al voto e vincere da sola.

Lei ha affermato che questo governo rappresenta una svolta storica non perché Meloni è una donna ma perché è una persona eccezionale, diversa da tutti gli altri politici.  In che senso?

Nel senso che ha due caratteristiche che mancano agli altri leader, di destra e di sinistra: primo, crede fortemente nelle sue idee; secondo, è disposta a rischiare per non tradirle.

Resta da vedere se saprà essere all’altezza anche come premier, il silenzio sulle bollette e il pasticciatissimo decreto anti-rave non fanno ben sperare.

La crisi della sinistra non è dovuta all’incapacità di produrre leader? Il centrodestra ne ha tre, che pur con tutti i difetti, lo sono. La sinistra ha prodotto solo Renzi, che non è di sinistra: come mai, carenza di qualità o questioni ambientali e culturali che impediscono la nascita di un leader?

Domanda difficile. Forse il problema è l’eccesso di colonnelli. Sembra che nel Pd viga una sorta di principio di limitazione del potere, per cui si cerca di evitare che qualcuno ne assuma troppo. Se qualcuno ci prova, come ha fatto Renzi, il corpaccione del partito reagisce espellendo l’intruso. E’ come se il Pd fosse governato da un consesso di oligarchi, che temono l’emergere di un monarca.

Le prime mosse del governo Meloni – dal tetto al contante all’anticipazione di un mese del rientro al lavoro dei medici no vax fino al decreto anti-rave party – sono state molto contestate perché ritenute provocatorie o di marginale importanza: condivide la critica, perché Meloni ha deciso di partire da lì e quanto piacciono o non piacciono queste iniziative agli elettori?

Condivido la critica. Si poteva partire in modo più prudente, senza attirarsi le critiche tutt’altro che immotivate dei media ostili. Però non penso che le critiche dell’establishment politico-cultural-mediatico possano cambiare il giudizio (positivo) degli elettori di destra, poco inclini ad attardarsi sulle sottigliezze.

La destra produce il primo premier italiano, le donne del Pd protestano contro il loro partito sostenendo di essere discriminate dai colleghi capi maschi. Tra i valori trasmigrati da sinistra a destra c’è anche la promozione della donna, oppure questo è sempre stato un valore trasversale, se non addirittura di destra, visto che in tutto il mondo le donne capo arrivano da destra?

Non credo che la promozione della donna sia una nuova bandiera della destra, semplicemente non è mai stata una pratica di sinistra. Quel che colpisce, a sinistra, è la dissociazione fra la teoria e la pratica. I miei compagni sessantottini trasformavano le donne in “angeli del ciclostile”, i loro discendenti  maschi – da Renzi a Letta – praticano la cooptazione. D’altro canto, vien da dire: ma che dovrebbero fare, se le donne di sinistra sono acquiescenti? Dopotutto la Meloni il suo posto se lo è conquistato combattendo, non certo per gentile concessione dei maschi di destra.

Da innamorato deluso della sinistra e da eminente sociologo e politologo, che via si sente di indicare al Pd, che tra cinque mesi celebrerà un congresso fondamentale per le proprie sorti?

Io penso che fra cinque mesi, quando si degneranno di tenere un congresso, i buoi saranno già scappati nella stalla dei cinque Stelle. A quel punto al Pd resteranno solo due strade: o calendo-renzizzarsi, con grande smacco; o diventare esplicitamente quel che già è: un partito radicale di massa, che si occupa solo di diritti civili e immigrazione, ed è sinceramente convinto di rappresentare “la parte migliore del Paese”.

Perché l’argomento dell’antifascismo e della difesa strenua della Costituzione, cavalcato dalla sinistra, non ha fatto breccia nell’elettorato e perché la sinistra continua a cavalcarlo, se è sterile?

La sinistra cavalca l’anti-fascismo semplicemente perché i suoi dirigenti, rifiutando per decenni il dialogo con la parte avversa, hanno perso ogni capacità di comprendere i vissuti profondi della società italiana. Quanto agli elettori, secondo me l’argomento anti-fascista non funziona per due ragioni distinte. La prima è che la gente non ha perso del tutto il senso dell’umorismo, e trova ridicolo evocare il pericolo fascista.

Ma c’è forse anche una seconda ragione, più profonda. Contrariamente a quel che paiono pensare gli scrittori di libri antifascisti sul fascismo, l’ambivalenza degli italiani verso il fascismo non dipende da una segreta simpatia per il Ventennio, o da una incompiuta maturazione democratica, ma da una sorta di imbarazzo per la nostra storia. Quella pagina della storia d’Italia non è onorevole, e non bastano le gesta dei partigiani ad assolvere la maggioranza, che prima seguì il Duce, e solo alla fine passò dalla parte giusta. E’ possibile che una parte degli italiani, più o meno confusamente, quell’imbarazzo lo senta ancora.




La frattura tra ragione e realtà 1 / Su Mosca sventola bandiera rossa

Da quando è iniziata la guerra in Ucraina va di moda ripetere che Putin sarebbe un “fascista”. Eppure, sia la logica che i dati di fatto dicono il contrario: Putin è a tutti gli effetti un comunista e anche i suoi comportamenti che possono a prima vista apparire “di destra” in realtà si collocano tutti perfettamente nel solco della tradizione sovietica in cui si è formato. Perché allora questa idea si è diffusa al punto che oggi viene data praticamente per scontata non solo da tutta la sinistra, ma anche da gran parte dei moderati? In parte si tratta di opportunismo politico, ma la ragione più profonda è la perdurante assenza di un giudizio chiaro sulla natura totalitaria del comunismo.

Con questo articolo inizio una serie di interventi su problemi abbastanza diversi fra loro, ma unificati dal tema della frattura tra ragione e realtà, che aveva suscitato un certo dibattito anche fuori dal sito della Fondazione Hume e con il quale avevo concluso i miei contributi sul Covid (che, per la cronaca, usciranno fra poco raccolti in un libro, Covid, la lezione del Pacifico, scritto a sei mani con le mie dottorande Silvia Milone e Loredana Parolisi e con una prefazione di Luca Ricolfi, di cui siamo profondamente onorati e per la quale colgo l’occasione per ringraziarlo pubblicamente).

Anche se la maggior parte di tali interventi riguarderà temi legati alla scienza, che è il mio principale campo di ricerca, voglio dedicare i primi tre (che idealmente costituiscono un unico articolo in tre parti) a una grande questione culturale in cui la suddetta frattura tra ragione e realtà è particolarmente grave, non solo per la sua importanza intrinseca, ancor maggiore dopo le ultime elezioni, ma anche perché ha spesso conseguenze rilevanti per gli altri temi che toccherò in seguito.

Per farlo partirò da una delle cose più surreali che si siano sentite in questi mesi e di cui avevo già parlato in precedenza, ma solo brevemente (https://www.fondazionehume.it/politica/la-prevedibile-caporetto-di-putin-e-quella-inquietante-degli-esperti/): il fatto, cioè, che la sinistra italiana, dopo aver deciso di schierarsi (quasi) compattamente contro Putin, cosa di per sé lodevole, abbia sempre più accentuato le accuse di “populismo” e “sovranismo” che già da tempo gli rivolgeva, fino ad arrivare al paradosso di definirlo esplicitamente “fascista”.

Tale posizione è stata espressa nel modo più chiaro qualche mese fa da Giuseppe Provenzano (non proprio uno qualunque, visto che si tratta del vicesegretario del PD) nella seguente dichiarazione resa a Annalisa Cuzzocrea: «Il problema di filo-putinismo ce l’ha la destra, in particolare quella italiana. Il silenzio di Berlusconi i legami consolidati della lega di Salvini con il partito di Putin, ma anche Giorgia Meloni, che ancora guarda a Trump, l’altro polo del vento conservatore e reazionario, che non a caso definisce Putin “un genio”. Poi c’è qualche cretino di sinistra, avrebbe detto Leonardo Sciascia. Quelli che sono talmente “complessi” da ignorare anche la verità più banale: al Cremlino non sventola bandiera rossa, sventola bandiera nera» (Giuseppe Provenzano, “Giusti gli aiuti militari a Kiev, gli amici di Putin sono a destra”, su La Stampa del 27/03/2022).

Ma se questa è la formulazione più epslicita, non è certo l’unica. Si tratta infatti di una tesi molto comune, non solo tra i politici. Per limitarci agli ultimi giorni, l’hanno ripetuta, fra gli altri, il celebre storico britannico Timothy Garton Ash, il direttore del quotidiano La stampa Massimo Giannini e un opinionista in genere moderato ed equilibrato come Paolo Mieli, che a Porta a porta di domenica 2 ottobre è arrivato addirittura ad affermare che «a parte la Camera dei Fasci e delle Corporazioni» quello di Putin è a tutti gli effetti un regime fascista.

Ma perché Putin dovrebbe essere considerato fascista, questo nessuno lo sa dire. Forse perché è un dittatore? O perché fa una propaganda spudoratamente menzognera? O perché è imperialista? O perché è guerrafondaio? Ma tutte queste caratteristiche le aveva anche il regime sovietico, di cui Putin è figlio legittimo, dato che è stato per 16 anni un alto ufficiale del KGB, ha sempre giudicato una catastrofe la dissoluzione dell’URSS e da tempo, forse da sempre, sta dedicando tutte le sue forze a ricostruirla.

Inoltre, Putin ha l’esplicito sostegno del Partito Comunista Russo, giustifica l’intervento in Ucraina dicendo che bisogna liberarla dai nazisti, chiama i paesi del Terzo Mondo a unirsi a quella che presenta come una crociata contro l’Occidente capitalista che li opprime e segue pedissequamente in ogni dettaglio i metodi dell’Unione Sovietica degli anni Settanta, sia nella comunicazione che nella repressione del dissenso interno e perfino nel modo di fare la guerra, benché ciò rischi di fargliela perdere (cfr. Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/reality-check/e-se-sulla-no-fly-zone-avesse-ragione-zelensky/). E se ancora non bastasse, pochi giorni fa ha ulteriormente chiarito il concetto mettendo a capo della sua sporca guerra il generale Sergey Surovikin, uno dei protagonisti del fallito golpe contro Gorbaciov messo in atto nel 1991 dall’ala dura del Partito Comunista Sovietico in un estremo tentativo di restaurare il vecchio assetto dell’URSS.

È pertanto evidente che chiamare Putin “fascista” è semplicemente grottesco e ricorda molto i mitici servizi del TG3, da sempre monopolio della sinistra, che, quando ci fu la caduta del comunismo in Romania, parlava degli eroici insorti che combattevano «contro i fascisti di Ceausescu» o i discorsi di tanti intellettuali di sinistra di allora sulle «sedicenti Brigate Rosse» che “in realtà” sarebbero state anch’esse “fasciste”.

Ma non solo è falso che Putin sia fascista. È falso anche che lo siano i suoi amici. Per convincersene basta guardare i risultati del voto all’ONU sui referendum-farsa in Donbass.

I 4 paesi che hanno votato a favore della Russia sono tutti retti da dittature comuniste (Bielorussia, Nicaragua e Corea del Nord) o socialiste (Siria). Quanto ai paesi che si sono astenuti (35) o non hanno partecipato al voto (10), di essi 8 sono retti da dittature comuniste (Cina, Cuba, Eritrea, Laos, Tajikistan, Turkmenistan, Venezuela, Vietnam), 11 da governi di sinistra con forti tendenze autoritarie (Algeria, Bolivia, Repubblica Centrafricana, Congo, Mongolia, Mozambico, Namibia, Tanzania, Togo, Uganda, Zimbabwe) e 3 da regimi islamici integralisti apertamente antioccidentali (Iran, Pakistan, Sudan). L’unico regime comunista che abbia votato contro Putin è la Cambogia.

Al contrario, nessun regime di destra ha votato a favore (neanche l’Ungheria del “fascista” Orbán, che anzi ha votato contro, così come il Brasile di Bolsonaro) e soltanto 7 si sono astenuti (Burkina Faso, Burundi, Eswatini, Guinea, Guinea Equatoriale, Mali, Thailandia). Completano il quadro degli astenuti o non votanti 5 repubbliche ex sovietiche, democratiche ma fortemente condizionate da Mosca (Armenia, Azerbaijan, Kazakistan, Kyrghizistan, Uzbekistan) e 10 paesi del Terzo Mondo retti da governi moderati (Camerun, El Salvador, Etiopia, Honduras, Gibuti, Lesotho, São Tomé, Sudafrica, Sud Sudan, Sri Lanka), nessuno dei quali ha mai manifestato particolari simpatie per l’estrema destra, almeno in tempi recenti, a parte l’Honduras, che però attualmente ha un governo di centrosinistra. Infine c’è l’India, che gioca una partita tutta sua, retta com’è da un governo nazionalista, ma comunque democratico e con una politica estera spiccatamente terzomondista.

Insomma, non sono esattamente i paesi che ci si aspetterebbe di vedere schierati a sostegno di un regime fascista…

E anche se guardiamo a quanto sta accadendo in Europa, il quadro non cambia molto. L’unico politico occidentale che sia finito sul libro paga di Putin alla luce del sole è il socialdemocratico tedesco Gerhard Schröder, assunto come dirigente (strapagato) di Gazprom non appena terminato il suo mandato di Cancelliere. A rompere la ritrovata solidarietà europea è stato un altro Cancelliere tedesco socialdemocratico, quello attualmente in carica, Olaf Scholz, con il suo sciagurato ostruzionismo all’introduzione di un tetto al prezzo del gas. Il pacifismo di sinistra, dopo un breve periodo di eclissi, sta tornando a riempire le piazze con manifestazioni che, pretendendosi equidistanti tra l’aggredito e l’aggressore, finiscono oggettivamente per essere a favore di quest’ultimo.

Infine, per quanto riguarda l’Italia, il partito più filo-russo attualmente è quello dei 5 Stelle, che ormai da tempo è un partito di sinistra a tutti gli effetti e il cui già annunciato voto contrario alla prossima fornitura di armi all’Ucraina pesa molto più delle parole in libertà di Berlusconi. Queste ultime, infatti, per quanto censurabili, non sono dettate da una strategia politica, bensì dal suo narcisismo e dalla sua incapacità di accettare di non essere più lui il capo, ma non hanno prodotto nessuna conseguenza pratica rilevante e verosimilmente non ne produrranno neanche in futuro.

Poi, certo, è vero che Putin in patria è sostenuto anche dai nazionalisti di destra e dai vertici della Chiesa ortodossa; che si richiama a simbologie che spesso hanno a che fare più con la tradizione zarista e, appunto, ortodossa che con quella comunista; e che, in generale, si presenta come garante dei “veri” valori tradizionali contro la corruzione morale dell’Occidente. Ed è altrettanto vero che è visto con simpatia anche da diversi partiti occidentali di destra, che ha certamente condizionato e  probabilmente pure finanziato (anche se prima di darlo per scontato sarebbe meglio aspettare di vedere le prove promesse dagli USA).

Tuttavia, il fatto che Putin collabori (anche) con forze di destra non significa che sia egli stesso di destra. Anzi, è vero esattamente il contrario: questi, infatti, sono tutti comportamenti da perfetto manuale del KGB, tanto che erano già stati tutti messi in atto da Stalin in persona.

Anzitutto, l’alleanza con forze politiche di qualsiasi orientamento, purché utili alla causa, è sempre stata praticata dall’URSS, che da questo punto di vista era di un pragmatismo, o, più esattamente, di un cinismo totale. Inoltre, ai sovietici trattare con le forze di estrema destra è sempre riuscito più naturale che avere a che fare con quelle democratiche, per via di un’affinità culturale di fondo, dato che marxismo, fascismo e nazismo hanno tutti le loro comuni radici nell’idealismo tedesco, in particolare nella dottrina hegeliana dello Stato etico, anche se dirlo è gravemente politically incorrect e può causare seri problemi (vedi il linciaggio subito per anni da Nolte e De Felice).

Oggi tutti fanno finta di dimenticarsene, ma l’Unione Sovietica è stata per ben due anni alleata della Germania nazista, in virtù dello sciagurato patto Ribbentrop-Molotov che fu all’origine della Seconda Guerra Mondiale, giacché permise a Hitler di rivolgersi contro l’Occidente sapendo di avere le spalle coperte sul fronte orientale. E se Hitler stesso non l’avesse violato, invadendo l’URSS a tradimento (con una decisione che non ha spiegazioni strategiche, ma esclusivamente psichiatriche), quest’ultima non sarebbe mai entrata in guerra al nostro fianco contro i nazisti.

D’altra parte, quando ciò accadde e la sua stessa sopravvivenza fu messa in discussione, Stalin proclamò la mobilitazione generale non in nome del comunismo o della dittatura del proletariato, ma della “Grande Madre Russia”, che (a parte la parola “Madre” al posto di “Santa”, il che obiettivamente per lui sarebbe stato un po’ troppo) si richiamava all’immaginario collettivo della Chiesa ortodossa e non certo a quello dell’Internazionale Socialista.

Ma non si trattò di un fatto episodico e strumentale. A differenza del comunismo europeo, più marcatamente laicista e scientista, quello sovietico ha sempre avuto una forte componente messianica, ascetica e quasi mistica, derivante anch’essa dalla mitologia ortodossa e, in particolare, dall’idea della “missione” unica che Dio avrebbe assegnato alla Russia.

È stato anche grazie a questa idea, sia pure opportunamente “laicizzata”, che Stalin ha potuto giustificare il suo tentativo di realizzare “il socialismo in un solo paese”, che da un punto di vista marxista è una vera e propria eresia. Ed è sempre a causa di questa idea che l’URSS, esattamente come la neo-URSS putiniana di oggi, non ha mai escluso l’uso delle armi nucleari in una guerra contro l’Occidente, anche a costo di rischiare un olocausto atomico su scala globale. In questa prospettiva, infatti, un mondo senza la Russia è letteralmente privo di senso e quindi non vale la pena che continui ad esistere, come Putin ha più volte esplicitamente affermato, benché, di nuovo, da un punto di vista marxista ciò non abbia invece alcun senso.

Eppure, non è solo Putin a dirlo: anche i sovietici ragionavano così. Chi non ci crede vada a leggersi La terza guerra mondiale di Sir John Hackett, generale inglese che per cinque anni fu a capo delle armate NATO dell’Europa Settentrionale (anche se è del 1978 si trova facilmente su Internet). Si tratta di un saggio camuffato da romanzo che a suo tempo fece scalpore e probabilmente ci evitò la terza guerra mondiale di cui parla. Hackett, infatti, riuscì a convincere i paesi europei a tornare a curare le proprie difese convenzionali, mostrando attraverso documenti originali trafugati ai sovietici che questi ultimi se si fossero convinti di poter vincere avrebbero attaccato, anche a costo di rischiare un conflitto nucleare.

Anche il sostegno del Patriarca Kirill, che è arrivato a usare toni degni degli integralisti islamici, promettendo il Paradiso a tutti quelli che moriranno in guerra (mancavano solo le 72 vergini…), è certamente scellerato, ma per niente affatto sorprendente, né tantomeno nuovo. È vero infatti che molti sacerdoti ortodossi si sono opposti eroicamente al regime sovietico e per questo hanno subito dure persecuzioni e spesso perfino il martirio. Tuttavia, storicamente i vertici della Chiesa ortodossa sono sempre stati conniventi con il potere di turno, compreso quello sovietico. E questo non solo per paura o per comodo, ma per una ragione molto più profonda.

Infatti, a differenza di quella cattolica (parola che significa “universale”), la Chiesa ortodossa ha sempre concepito sé stessa come una Chiesa intrinsecamente nazionale. E se è vero che l’amore per la patria è un valore importante, che ha prodotto frutti meravigliosi di arte, di letteratura e di santità, è altrettanto vero che questo particolare modo di concepirlo porta troppo spesso a una sua indebita sacralizzazione. Molti aspetti della cosmovisione ortodossa, pur esposti con linguaggio cristiano, sono di fatto assai più affini ai miti pagani della terra e del sangue che non al cristianesimo. E purtroppo gli dei della terra e del sangue prima o poi pretendono sempre tributi di terra e di sangue.

Su questo aveva detto parole chiarissime la grande poetessa russa Olga Sedakova (collaboratrice dell’associazione Memorial che ha appena vinto il Nobel per la pace) già nel 2014, dopo l’invasione della Crimea, che è all’origine di ciò che sta accadendo oggi e che era stata giustificata da Putin esattamente con le stesse menzogne: «Putin dice di essere il difensore dei valori tradizionali. È qualcosa di abbastanza comico, perché da noi i valori tradizionali sono stati distrutti ormai molti anni fa. […] Oggi si pensa soltanto al valore della famiglia. Si tratta, in realtà, di una polemica nei confronti della richiesta, in Occidente, di leggi per i matrimoni tra omosessuali. Ma non si parla mai di lavoro, né di persona, né di libertà. L’unica cosa che si accosta alla famiglia è il patriottismo: ognuno deve essere pronto a dare la vita per la patria. Il valore ultimo non è la persona, ma la patria. E non mi pare sia una posizione molto cristiana. […] Ai tempi di Stalin l’aborto era proibito, e le donne morivano perché abortivano clandestinamente senza medici. Esisteva il divieto, non la ragione per cui era sbagliato abortire. Così non ci si faceva problemi ad abortire clandestinamente. Trovo curioso che Stalin sia diventato il nuovo modello di moralità. La società tardo-staliniana era, potremmo dire, vittoriana. Il divorzio, ad esempio, era molto difficile da ottenere, in alcuni casi era addirittura proibito. Ma più che una difesa della famiglia, era un modo per limitare la libertà» (Olga Sedakova, L’infinito contro la noia, in Tracce n. 7, 2014, pp. 40-44).

D’altronde, anche il comunismo occidentale, pur essendo più laico di quello sovietico, in passato era piuttosto “vittoriano” (si pensi solo ai problemi che ebbe Togliatti, che pure era il capo indiscusso del PCI, quando lasciò la moglie per mettersi con Nilde Jotti). Anche da questo punto di vista, pertanto, Putin continua ad agire come un comunista sovietico degli anni Settanta, il periodo in cui si è formato e in cui, come sostengo da tempo, è rimasto mentalmente “imprigionato” (cfr. Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/reality-check/e-se-sulla-no-fly-zone-avesse-ragione-zelensky/ e https://www.fondazionehume.it/politica/la-prevedibile-caporetto-di-putin-e-quella-inquietante-degli-esperti/).

Ma se così stanno le cose, perché allora la sinistra, non solo in Italia, ma in tutto l’Occidente, continua a ripetere che Putin è fascista?

Certamente vi è un aspetto di opportunismo politico, perché ciò da un lato la aiuta a far “digerire” più facilmente la guerra ai suoi elettori, tra i quali il pacifismo è ancora molto forte, mentre dall’altro le permette di tacciare di “fascisti” tutti i partiti di destra che hanno simpatie per Putin. Tuttavia, la vera ragione, che in fondo ricomprende anche questa, è molto più profonda.

A metterci sulla strada giusta è lo stesso Provenzano nella parte finale della sua dichiarazione, laddove dice che i “cretini di sinistra” non sono disposti a condannare Putin perché non capiscono che la sua bandiera non è rossa, ma nera, cioè che non è comunista, ma, appunto, fascista. Ciò, infatti, equivale ad affermare che Putin non va condannato in quanto criminale, bensì in quanto fascista. E da questo, secondo logica, seguirebbe che se invece Putin fosse davvero comunista, allora i suddetti “cretini di sinistra” non sarebbero più tali e farebbero bene a non condannarlo anche se lui commettesse esattamente le stesse azioni criminali.

Attenzione! Non sto dicendo che Provenzano pensi realmente questo. Anzi, sono certo che non lo pensa affatto, per la semplice ragione che, come tutti i suoi colleghi, non è nemmeno in grado di concepire un pensiero simile. Infatti, per la sinistra italiana (e non solo italiana) il Male è sempre per definizione di destra e la destra è sempre per definizione il Male, mentre il Bene è sempre per definizione di sinistra e la sinistra è sempre per definizione il Bene. Ne segue che il dilemma su cosa fare se Putin fosse comunista e ciononostante commettesse ugualmente queste nefandezze semplicemente non si pone perché è logicamente impossibile: se Putin fosse comunista, infatti, non potrebbe per definizione commetterle, mentre se le commette non è per definizione comunista.

Ora, questo atteggiamento nasce dal fatto che la sinistra non ha mai fatto realmente i conti con il comunismo (intendo dire con il comunismo in quanto tale e non con questa o quella sua concreta realizzazione storica), rifiutandosi ostinatamente di riconoscerne la natura intrinsecamente totalitaria e perciò irrimediabilmente oppressiva e violenta, attribuendo tali caratteristiche solo ed esclusivamente al totalitarismo di destra. E ciò ha avuto e ha tuttora conseguenze profonde, non solo quanto al giudizio su Putin, ma anche quanto alla questione di fondo della crisi di identità della sinistra e del suo possibile (o impossibile) rinnovamento.

Ne parlerò nel prossimo articolo.

 

Paola Musso




Oggi la destra dice cose di sinistra

Intervista di Luca Telese a Luca Ricolfi (pubblicata su TPI, 30 settembre 2022)

Professor Ricolfi, lei nel 2005 fece discutere con un provocatorio saggio sulla sinistra: ”Perché siamo antipatici?”. Alla luce di questo voto si sente un po’ profeta? 

Non più di prima, ormai il problema base non è l’antipatia della sinistra ufficiale ma la sua mancanza di idee, e di rispetto per l’avversario politico. Spiace dirlo, ma la sinistra ufficiale (Pd e dintorni), ha un deficit di maturità democratica. Tollera le ingerenze straniere, e non rispetta le scelte della maggioranza. Non sono pronti per la democrazia.

Sono passati 17 anni da quel libro, si evoca ancora la categoria relazione che lei ha definito come politica, “l’antipatia”, per spiegare questo risultato.  É così anche per lei? 

No, il risultato è dovuto al vuoto di idee, al disprezzo per la sensibilità popolare, e alla mancanza di capacità strategica di tutti i leader, non solo del povero Letta.

La situazione é migliorata o peggiorata per via delle leadership o delle alleanze?

Per tutte e due, leadership e alleanze sono strettamente connesse: con questi leader, non si riescono a fare alleanze.

Cos’è diventata oggi questa “antipatia”? 

E’ diventata distanza: chiunque vede a occhio nudo che i politici di sinistra, con alcune importanti eccezioni (Pierluigi Bersani, Tommaso Cerno, ad esempio), non vivono nella realtà.

Secondo le indagini gli elettori del Pd sono statisticamente quelli con un titolo scolare migliore, e quelli con un reddito più alto. Si è ribaltata la composizione storica della sinistra italiana, secondo lei perché? 

Ho scritto un libro per spiegarlo (Sinistra e popolo), e ne sto per pubblicare un altro (La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra). Purtroppo non c’è una spiegazione semplice, perché lo swap fra gli elettorati della destra e della sinistra è avvenuto gradualmente, a partire dal 1965, con due accelerazioni: la caduta del Muro di Berlino, la crisi finanziaria 2007-2012.

Lei dice che il centrosinistra negli ultimi anni è stato il motore della disuguaglianza, non il suo nemico.

Nella scuola e nell’università è così, ho provato a dimostrarlo in termini matematico-statistici rigorosi nel libro Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguglianza, scritto con mia moglie Paola Mastrocola.

Cosa pensa del cosiddetto terzo polo? 

Tutto il bene e tutto il male del mondo. Tutto il bene perché rappresentano (molto imperfettamente) la sinistra liberale, che è quella che piacerebbe a me, se esistesse. Tutto il male perché non credo – come Renzi e Calenda – nelle virtù dei governi tecnici, e trovo anti-democratica la previsione/minaccia di far cadere il governo Meloni entro sei mesi.

Come valuta Il risultato di Renzi e Calenda, e perché non la convincono (se è così)? 

Il risultato non è malaccio, spero che facciano un’opposizione costruttiva.

Lei è un allievo di due dei più prestigiosi padri nobili della sinistra intellettuale: Luciano Gallino Claudio Napoleoni, ma adesso viene considerato un pensatore vicino alla nuova destra: come spiegherebbe la sua evoluzione politica?

E’ la nuova destra (ma mi riferisco solo a quella della Meloni) ad avere assunto tratti di sinistra: difesa della libertà di espressione, protezione dei ceti deboli e dei perdenti della globalizzazione, anti-assistenzialismo, politiche fiscali keynesiane. Che cosa può volere di più un uomo di sinistra?

Lei dice: “sono e rimango di sinistra”. Quanto ci ha pensato prima di intervenire al convention di Fratelli d’Italia?

Nemmeno un secondo. Se mi invitano a parlare dei temi che mi stanno a cuore io ci vado. Il problema è che, negli ultimi 30 anni, ho ricevuto inviti (peratro rari) solo da destra. E poi c’è la stima per Giorgia Meloni, che dura da quando l’ho conosciuta personalmente, otto anni fa.

Cosa pensa di Giorgia Meloni, come leader? 

E’ “la migliore”, come Togliatti.

Ha un rapporto personale con lei? 

Ogni tanto ci scriviamo o facciamo una video-call.

Chi rappresenta oggi – dal punto di vista sociale e politico –  il primo partito italiano, Fratelli d’Italia? 

I dati dicono che è’ abbastanza interclassista, con prevalenza dei ceti bassi.

Considera  Giuseppe Conte un leader di sinistra? 

No, per me l’assistenzialismo non è di sinistra. Però devo ammettere che i Cinque Stelle la questione sociale la prendono sul serio, non come il Pd che pensa solo agli immigrati e alle istanze LGBT.

Ritiene giusto abolire il reddito di cittadinanza?  

Come tutte le persone non ideologizzate penso che vada corretto, separando (anche giuridicamente) il sostegno ai poveri che non possono lavorare dal sostegno a coloro che possono lavorare.

Il Sole 24 ha pubblicato un diagramma per dimostrare un rapporto diretto tra il voto al M5S e i percettori del reddito, crede a questa relazione? 

Non c’era bisogno del diagramma per capire che il nesso c’è, ed è parecchio stretto.

Era davvero possibile un campo largo che tenesse insieme tutte le attuali opposizioni?

Non lo so, Letta non lo voleva, Conte non so se lo avrebbe accettato.

La preoccupa o la diverte il fatto che si faccia il suo nome come possibile ministro della Pubblica Istruzione? 

Non mi preoccupa e non mi diverte. E’ la solita costruzione giornalistica: non è un mestiere che saprei fare. Ma se ne fossi capace, non esiterei a dare una mano a Giorgia Meloni.