I guai dell’egualitarismo culturale

La preoccupazione per il destino della democrazia liberale presente in molti degli interventi dei giorni scorsi è sicuramente giustificata. Sì, effettivamente social media e nuove tecnologie stanno sconvolgendo il funzionamento della politica. La mancanza di mediazioni rende più incerto che in passato il confine fra vero e falso. Immense praterie si aprono a quanti intendono sfruttare la credulità popolare per i propri fini.
Tutto questo è reale, ma è davvero una novità del presente?
La mia impressione è che le radici di quel che oggi inquieta tanti di noi siano antiche, e poco abbiano a che fare con l’irruzione dei social media nella vita politica. Prendiamo, ad esempio, l’evoluzione della leadership, ovvero la tendenza dei capi a saltare la mediazione degli apparati. La vera rottura è avvenuta fin dal 1994, con la discesa in campo di Berlusconi, ma è difficile non vedere che quella rottura avveniva su un terreno, quello della comunicazione diretta fra il leader e le masse, che era stato ampiamente arato da Sandro Pertini e Karol Wojtyla, assurti insieme l’uno al vertice della Repubblica l’altro a quello della Chiesa fin dal 1978, ossia 16 anni prima dell’ingresso in politica di Berlusconi. Noi oggi siamo impressionati da Salvini che posta su internet una foto mentre addenta pane e Nutella, ma forse dovremmo chiederci perché mai, se il Papa twitta, conversa con i giornalisti in aereo, e telefona a Uno mattina, i politici dovrebbero osservare un contegno più sobrio.
Un discorso analogo si potrebbe fare per la presunta democrazia diretta della piattaforma Rousseau, che affida a poche decine di migliaia di iscritti decisioni politiche cruciali. Sembra un modello nuovo, ma in realtà è la riedizione della democrazia assembleare di mezzo secolo fa, quando un manipolo di studenti politicizzati (circa 1 giovane su 10, secondo le ricostruzioni statistiche) pretendeva di parlare a nome di tutti, perché solo le avanguardie contano, e perché “gli assenti hanno sempre torto”.
Mi si potrebbe obiettare che il vero problema, oggi, è che il desiderio di contare, di essere qualcuno o “qualcunismo” (copyright Sebastiano Maffettone), si è trasformato nella credenza di essere alla pari con esperti, studiosi, tecnici e competenti in genere. L’utente della rete non riconosce alcuna gerarchia di conoscenza, pensa di poter esprimere opinioni su qualsiasi materia, senza complessi di inferiorità verso chicchessia. E’ vero, ma la mia domanda è: ve ne accorgete solo ora? E credete davvero che la colpa sia della Rete?
Anche qui a me pare che i processi che ci hanno portato dove ora siamo, ovvero al rigetto sistematico e generalizzato di qualsiasi autorità e gerarchia culturale, siano ben precedenti alla nascita di internet e alla sua invasione della sfera politica. E’ dalla fine degli anni ’60, in piena prima Repubblica, che le grandi istituzioni che mediavano fra il cittadino e la collettività nazionale hanno progressivamente abdicato ad ogni ruolo di guida, e proclamato quella sorta di egualitarismo culturale di cui ora la Rete si limita a raccogliere i frutti finali. La giusta esigenza di “ascolto” di chi si trova in qualche senso al di sotto, o al di fuori, o ai margini, si è trasformata progressivamente in una sorta di sdoganamento dell’ignoranza, della volgarità, della presunzione e della prepotenza dei singoli. Vale per la radio, in cui le opinioni più infondate o volgari sono assurte progressivamente a protagoniste legittime, alla pari di tutte le altre; vale per la televisione, quasi completamente trasformata in macchina di intrattenimento; vale per la scuola e l’università, mestamente acconciate ad abbassare drammaticamente gli standard; vale per la famiglia, con la rottura dell’alleanza con la scuola e la trasformazione dei genitori in sindacalisti dei figli.
Poteva non accadere lo stesso in politica? Oggi è facile vedere il disastro, perché l’ideologia secondo cui siamo tutti alla pari, e le competenze non contano, è proclamata ai quattro venti. Ma vogliamo vedere anche come ci siamo arrivati?
Fra la dottrina della rottamazione della classe dirigente, che per diversi anni ha imperato nel dibattito pubblico, e l’attuale credenza che chiunque possa fare il ministro, fra l’imbarbarimento dei media e l’irresponsabilità comunicativa dei politici, c’è un filo di continuità che faremmo bene a non nasconderci.
Il guaio dei social media e delle nuove tecnologie è di rendere ancora più facile, quasi più naturale, proseguire sulla strada che da mezzo secolo stiamo percorrendo. Ma è un guaio che, forse, ha il suo lato positivo: oggi i danni e i pericoli dell’egualitarismo culturale, proprio perché sono messi quotidianamente in scena da una politica del tutto priva di freni inibitori, sono più evidenti che mai. Sta a noi decidere se ci va bene così, o se è il caso di cambiare rotta. Sapendo una cosa, però: che se siamo arrivati a questo punto, non è colpa di Internet, ma della lunga stagione di irresponsabilità che ne ha preceduto e preparato il trionfo.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 13 giugno 2019



La “sindrome garibaldina”, quel nostro male oscuro a cui ha contribuito anche Garibaldi

Ho una passione per Giuseppe Garibaldi non inferiore – si licet magnis componere parva – a quella nutrita da Giovanni Spadolini e da Bettino Craxi, grandi collezionisti di libri e di cimeli di camicie rosse. Il nizzardo era uomo di gran cuore e tutt’altro che un incolto. La sua formazione intellettuale fu quella di un irregolare – come ce ne furono tanti nella storia, e non solo italiana – ma non estraneo ai grandi problemi sociali, culturali, politici del suo tempo. Dovette il suo apprendistato ad alcuni esuli sansimoniani che aveva conosciuto a bordo di una nave e furono essi che gli instillarono un socialismo “buonista” ma attento alle grandi trasformazioni indotte dalla scienza e dalla tecnica. Fu un impareggiabile “guerrigliero” ma, altresì, un “vero” generale come dimostrò la grande battaglia del Volturno, che segnò la fine irrimediabile del Regno delle Due Sicilie. Molto più realista del suo primo mentore Giuseppe Mazzini, mise da parte (ma non rinnegò mai) il suo istintivo repubblicanesimo, consapevole che l’Italia avrebbe potuto unificarsi solo se, se ne fosse fatto carico uno Stato moderno, con un esercito regolare, e con un monarca determinato e pronto a rischiare il trono per la buona causa.

 Da qualche tempo l’Eroe dei Due Mondi è diventato il bersaglio preferito di un revisionismo storiografico che con quello vero – mi riferisco a storici della statura intellettuale di Renzo De Felice e di François Furet – ha un rapporto, a essere blandi, solo di omonimia. A “sparare sulla croce rossa”, anzi sul poncho rosso, sono stati anche giornali divenuti poi organici al “luogocomunismo progressista” (espressione di Luca Ricolfi), a cominciare dal Foglio di Giuliano Ferrara. Sono passati i tempi – ricordati da Alessandro Barbero in una bella intervista televisiva di qualche tempo fa – in cui Garibaldi era il santo patrono sia dei fascisti (v. l’esaltazione fattane dalla Repubblica Sociale) sia degli antifascisti (v. le Brigate Garibaldi e il volto dell’eroe sul simbolo del Fronte popolare). Oggi quando non è rimosso dalla memoria collettiva viene ricordato, tutt’al più, come benemerito pacifista, generoso combattente per la libertà di tutti i popoli, e gran tribuno delle plebi italiche che voleva redimere da una condizione secolare di abbrutimento e di miseria materiale e morale. È un santino, lo ribadisco, che venero anch’io ma… E purtroppo c’è un “ma” grande come una montagna, che riguarda anche Garibaldi e la sua eredità spirituale, a riprova che nel “legno storto” siamo stati intagliati tutti anche i più fulgidi esempi di eroismo civile. Al male oscuro, dal quale il paese non riesce a guarire, ha contribuito, ahimè, pure il solitario di Caprera e in maniera decisiva.

Intendo riferirmi all’idea che al di sopra delle leggi e delle istituzioni c’è un paese morale che ha il diritto e persino il dovere di non tenerne conto quando i suoi valori son “calpesti e derisi” dall’applicazione letterale delle norme e al suo corollario, che custodi di questi ultimi siano famiglie o ceti o movimenti carismatici. Una sorta di ritorno (laicissimo beninteso) al Medio Evo e alla sua concezione dei due poteri, quello temporale, detentore della spada, e quello spirituale, erede della croce. Finché il primo – in Italia, lo stato sabaudo – si muove in conformità alle direttive spirituali che gli vengono dal secondo, nulla quaestio ma ogni volta che travalica sia pure appellandosi a leggi formali incompatibili con la sostanza etica della comunità nazionale, è compito dei Custodi dell’Ideale scendere in piazza e ricordare ai governanti i loro obblighi. In questa ottica, i diritti individuali e gli stessi pronunciamenti elettorali del “popolo sovrano” non hanno alcuna rilevanza: fanno parte del “paese legale” contrapposto al “paese morale” (la vecchia espressione “paese reale” è del tutto impropria: cosa c’è, infatti, di più “reale” del voto espresso dalla maggioranza degli elettori?).

Se ci si riflette bene, c’è uno spirito garibaldino, sia in Mussolini che portava a S. M. il Re “l’Italia di Vittorio Veneto”, sia nella pretesa della Cgil e dell’Anpi genovesi, che nei giorni scorsi avevano chiesto alle istituzioni di non autorizzare la manifestazione di Casa Pound – in cui, tra l’altro, era previsto l’intervento di una brava persona, il politico di lungo corso Gianni Plinio, passato dal MSI a Forza Italia. In entrambi i casi, la superiore legittimità di cui si sentivano portatori fascisti e antifascisti rendeva vana, ieri, la considerazione che la marcia su Roma era un autentico colpo di Stato e oggi che impedire la riunione di un partito legalmente riconosciuto e in competizione con gli altri partiti alle elezioni europee avrebbe costituito un vulnus per la democrazia, impensabile senza la più assoluta libertà di parola e di propaganda.

In un paese normale, non c’è nulla di male se si chiede al sindaco, al prefetto, al questore di non autorizzare il raduno di temuti avversari politici: chi lo fa mostra di non conoscere l’abc della democrazia liberale ma non si è obbligati ad avere sempre idee giuste e il controllo delle proprie emozioni. Da noi, però, è questo il punctum dolens, scatta la “sindrome garibaldina”: i Custodi dell’Ideale non si limitano a chiedere e a deprecare ma, se non vengono ascoltati, mettono in atto sanzioni severe, mobilitano i seguaci, provocano tafferugli con le forze dell’ordine, bloccano per ore il centro cittadino. Che ci siano chierici, giornalisti, opinion makers per i quali tutto questo è normale e non dipende affatto da una political culture che dovrebbe spaventarci bensì da una reazione eccessiva ma comprensibile all’Ur-faschismus di umbertechiana memoria, è qualcosa a cui non possono rassegnarsi gli amici, sempre meno numerosi in Occidente, della “società aperta”.

A scanso di equivoci, si può anche ritenere giusto e “costituzionale” lo scioglimento di Casa Pound – sempre ove si dimostri che la sua apologia del fascismo è un reato che prelude a una cospirazione reale progettata da adepti armati reali – ma è assurdo pensare che contro una decisione che il Governo e il Parlamento non hanno ancora preso né intendono prendere, si possa ricorrere all’Inquisizione della Cgil, dell’ANPI e finanche dei Centri sociali (antifascistissimi of course), intesi come supplenti (moralmente) autorizzati delle istituzioni carenti. Nessuno Stato di diritto può riconoscere sopra di se un pouvoir spirituel, una chiesa, che lo tenga sotto tutela.

Articolo pubblicato su Atlantico il 28 maggio 2019



Elezioni, partiti e analisi: intervista a Luca Ricolfi

Professore, andiamo verso le elezioni più incerte della Storia repubblicana?

No, i risultati elettorali sono sempre incerti. Quel che è nuovo è che questa volta, anche se sapessimo con precisione assoluta (all’ultimo seggio), quali saranno i numeri in Parlamento, nessuno potrebbe dedurne che governo avremo. Al momento ci sono ben cinque governi verosimili: Fi-Lega-FdI, Fi-Pd, Pd-Leu-Grillo, Leu-Grillo, Grillo-Lega.

L’ultima volta le previsioni non ci hanno preso, chi dice che a marzo vada proprio come tutti prevedono?

Questa volta i sondaggisti sbaglieranno di meno, per ragioni che ha spiegato in modo eccellente Paolo Natale in un articolo pubblicato sul sito della Fondazione David Hume. Si potrebbe parafrasare (ed estremizzare un po’) l’analisi di Paolo Natale così: più diventiamo un paese di disinibiti che non si vergognano di niente, più rendiamo facile il lavoro dei sondaggisti.

E secondo lei come andrà invece?

Penso che il centro-destra prenderà leggermente meno voti di quelli che gli assegneranno i sondaggi, e il Pd di Renzi qualche voto in più.

Oltre all’incertezza pesano una certa apatia generale e sondaggi negativi sul voto dei giovani…

Sì, ma il trend di distacco dalla politica non è nuovo. La novità è che il partito di Grillo ha perso di appeal, nessuno pensa seriamente che votare Raggi o Appendino sia uno sberleffo al sistema.

Secondo lei l’Italia è una vera democrazia compiuta?

No, ma non è l’unica. Quasi nessun paese occidentale è ormai più una vera democrazia, la differenza è solo che alcuni paesi in passato si sono avvicinati ad esserlo, noi ne siamo sempre rimasti lontani.

Ma perché nessun paese è più una democrazia compiuta?

Perché la spettacolarizzazione della politica, senza un sistema di partiti funzionante, crea un cortocircuito.

Mattarella ha invitato i politici ad un uso responsabile dei numeri. Lei cosa pensa delle proposte elettorali in formazione?

Penso quel che, immagino, ne pensa Mattarella, con la differenza che io posso dire quel che penso: i numeri dei partiti o non ci sono (vedi il silenzio sul debito pubblico), o non stanno in piedi.

In un recente editoriale lei ha criticato l’impostazione di fondo del M5s: dirigismo e tassazione.È il pericolo maggiore?

Secondo me sì, il programma e il personale politico dei Cinque Stelle sono il maggiore pericolo per la stabilità economica del Paese. Tuttavia anche Lega e Leu non scherzano…

Da dove viene secondo lei questa nouvelle vague anti-sistema, anti-scienza, anti-industria alimentare che pervade anche i grillini?

Non è nuova. I sociologi da almeno mezzo secolo descrivono l’Italia come un paese in cui la cultura anti-industriale ha radici profonde.

In questa situazione la sinistra è tornata a dividersi ed è in crisi d’identità e di leadership, come lei ha rilevato da tempo nel suo libro Sinistra e popolo (Longanesi). Come vede quel campo ora?

Lo vedo mal messo, e ostaggio di un incantesimo da cui non intende liberarsi. Il Pd, di fatto, è diventato un “partito radicale di massa” (copyright: Marcello Veneziani), che si occupa quasi esclusivamente di temi sovrastrutturali: unioni di fatto, fine vita, discriminazioni, fecondazione eterologa, tutela delle minoranze, diritti umani, eccetera. Niente di male: a Renzi è riuscito in 4 anni quello che a Pannella e Bonino non è riuscito in 40. Il punto, però, è che, pur essendo diventato il partito dei “ceti medi riflessivi”, che si credono la parte migliore del paese, anziché prendere coscienza di questa mutazione culturale e sociale, si ostina a proclamarsi di sinistra, difensore dei ceti popolari, eccetera. Qualcuno si può stupire che i ceti popolari dicano “no grazie” e si rivolgano altrove?

Renzi merita la sua decadenza?

Sì e no. Umanamente la merita tutta, perché quando si ha poca cultura è buona regola non alzare i toni e stare a sentire chi ha più cultura (e esperienza) di te. Politicamente sarei più indulgente: Renzi è uno dei pochi politici che non vedono la modernizzazione del Paese come una disgrazia. Ma così torniamo al punto di partenza di questa chiacchierata, la profondità dei sentimenti anti-industriali e anti-moderni degli italiani: a noi la modernizzazione piace solo come elargitrice di doni insperati, dai telefonini, al turismo, all’intrattenimento, mentre la detestiamo quando pretende di cambiare i nostri costumi, le nostre abitudini, i nostri privilegi.

Come giudica l’avventura di Liberi e uguali?

Interessante espressione di conservatorismo politico, in un paese in cui tutti vogliono presentarsi come innovatori.

Il campo liberale è ancora dominato da Berlusconi. Che ne pensa?

Non ho mai capito perché, in un quarto di secolo, in quel campo non si sia mai affermata una personalità comparabile a quella di Berlusconi, capace di sfidarlo o di raccogliere il testimone. È forse il segno che in Italia di cultura liberale ce n’è assai poca, anche a destra.

Quali sono le tre riforme urgenti che suggerirebbe al prossimo governo?

Potrei dire: fisco, giustizia civile, Pubblica Amministrazione. Ma preferisco dire: riformate quel che vi pare, ma che siano vere riforme, ben studiate e davvero modernizzatrici, non i modesti e pasticciati ritocchi cui ci avete abituati, sia a sinistra sia a destra.

Su immigrazione e cittadinanza quali le paiono i provvedimenti urgenti da prendere?

La questione della cittadinanza non è una battaglia di civiltà, ma una normalissima questione di tempi, condizioni, verifiche. Non sono sfavorevole a rendere più rapida l’acquisizione dei diritti di cittadinanza, ma penso che le condizioni per concederla dovrebbero essere più stringenti di quelle attuali. Ma il vero problema non sono i residenti regolari che vogliono la cittadinanza, il vero problema sono gli irregolari che alimentano la criminalità (anche su questo, rimando ai dossier della Fondazione David Hume)

Davvero si possono abbassare in qualche modo le tasse o col debito presente sarebbe una follia?

È inutile nasconderselo: se si vogliono abbassare le tasse l’unica strada seria è una la spending review permanente, “di legislatura” (ordine di grandezza: fra 5 e 10 miliardi l’anno, per 5 anni). Però la mia opinione, basata sulle analisi statistiche che ho condotto ne L’enigma della crescita (Longanesi 2014), è che il nodo vero sia quali tasse abbassare: con poche risorse meglio concentrare l’intervento su Ires e Irap. Se si vogliono aiutare le famiglie è molto più efficace accelerare la crescita del Pil e dell’occupazione, che concedere sgravi fiscali e contributivi a pioggia.

Da torinese come valuta l’operato della sindaca Appendino?

Senza infamia e senza lode. Torino è una città in declino, oppressa da un debito mostruoso, di cui nessuno vuole parlare.

Rifacendosi a Hume lei si definisce un liberale? E di sinistra?

No, io non mi considero un liberale, ma piuttosto un empirista, del resto è precisamente l’empirismo il contributo più importante di Hume alla storia delle idee. Quanto alla sinistra, che dire? la sinistra non è ancora di sinistra, aspetto che impari ad apprezzare il merito e la libertà.

Chi sono gli analisti, commentatori e giornalisti che ama leggere o consultare?

Purtroppo Natalia Ginzburg, Pasolini e Montanelli non ci sono più.

Al sito della Fondazione collabora anche sua moglie, la scrittrice Paola Mastrocola, come vi dividete il lavoro e che effetto le fa condividere vita personale e impegno pubblico con lei?

Lei si occupa della sezione Humanities, che raccoglie contributi letterari ed artistici, io mi occupo della ricerca empirica. Ma in realtà collaboriamo da sempre (da 30 anni!) in modo naturale, per affinità di vedute, specie per la comune insofferenza per il conformismo. Attualmente stiamo varando uno studio sugli effetti che l’abbassamento della qualità degli studi può aver esercitato sulla mobilità sociale. L’ipotesi è che 50 anni di scuola e università facile abbiano danneggiato i poveri e favorito i ricchi.

Da La Stampa al Sole 24 Ore, adesso al Messaggero, lei ha scritto per tanti giornali, come mai tutti questi passaggi?

Per ragioni ogni volta diverse, ma mai per dissensi sulla linea del giornale. Semplicemente ho ceduto al corteggiamento di alcuni direttori.

In definitiva, quando pensa al suo lavoro di analista si sente ancora speranzoso? Può fare qualche esempio pratico di quando ha avuto l’impressione di influire o cambiare in meglio qualche situazione?

Tutte le volte in cui ho prodotto informazioni o analisi che prima non esistevano: fra quelle recenti, il nostro indice VS, che misura la vulnerabilità strutturale dei conti pubblici di un paese.

Intervista di Francesco Rigatelli per Libero pubblicata l’8 gennaio 2018