Elezioni in Romania e corruzione

Il caso delle elezioni in Romania ha suscitato molte discussioni nel resto d’Europa, Italia compresa. La lente con cui se ne è parlato è sostanzialmente questa: da una parte c’è un pericoloso candidato di estrema destra, sovranista, populista, trumpiano e anti- europeo, George Simion; dall’altra c’è il sindaco di Bucarest, colto (è un matematico), democratico, progressista, europeista, Nicușor Dan. La speranza degli europeisti è che l’annullamento dei risultati del primo turno delle elezioni presidenziali (dicembre 2024), in cui aveva vinto un candidato vicino a Simion (Călin Georgescu), non si riveli un boomerang, finendo per consegnare la vittoria proprio a Simion, ossia al candidato che di Georgescu aveva preso il posto.

Ora sappiamo come è andata. I timori di una vittoria dell’estrema destra euroscettica si sono dissipati (forse anche grazie a una mobilitazione anti-Simion di tanti astensionisti abituali), il nuovo presidente Dan assicurerà la lealtà all’Unione Europea e alla Nato.

Fin qui il racconto dominante. Un racconto che, ai miei occhi, appare alquanto riduttivo. O meglio troppo “UE-centrico”. Sembra quasi che quel che è andato in scena in Romania domenica scorsa sia solo un referendum pro o contro l’Unione Europea. O, peggio, uno scontro fra democrazia e tentazioni neo-fasciste.

Due sono le fonti della mia perplessità. La prima è, per così dire, puramente politologica: credo sia estremamente riduttivo leggere l’avanzata della destra in Europa come risultato di tentazioni neo-fasciste. Troppe cose dividono i programmi dei moderni partiti etichettati come “di estrema destra”, dai programmi dei partiti fascisti e nazisti del passato. Prima fra tali cose l’atteggiamento verso la guerra, che oggi è pacifista e anti-militarista, mentre ieri era espansionista e guerrafondaio. Dare del fascista a un candidato atipico e decisamente discutibile come Simion, mi pare una forzatura.

Ma la fonte di perplessità maggiore è un’altra: mi capita spesso di ascoltare i racconti di rumeni che da anni vivono in Italia (talora indicati come “diaspora romena”), e di constatare che le priorità dei loro discorsi sono diverse, talora molto diverse, da quelle che vediamo riferite sui grandi media italiani. Per i “rumeni d’Italia” il problema fondamentale della Romania è la corruzione, che viene raccontata in termini molto più drammatici di quelli che capita di leggere sui media italiani. Non c’è solo la corruzione nel sistema sanitario, che costringe i cittadini a pagare con mance, mazzette e regalie il diritto a essere curati. Ci sono anche due altri importantissimi meccanismi corruttivi, di cui in Europa occidentale si parla poco. Il primo è che, spesso, occorre pagare per essere assunti nella pubblica amministrazione: il posto non si ottiene per merito, ma si compra. Il secondo è l’uso distorto dei copiosi fondi europei che, secondo molti rumeni, troppe volte sono stati distribuiti in modo clientelare e hanno permesso arricchimenti personali illeciti. Per non parlare dello stato del sistema scolastico, che colloca la Romania all’ultimo posto in Europa e che alcuni – forse esagerando – considerano (per alcuni specifici aspetti) peggiore di quello vigente ai tempi della dittatura comunista di Ceaușescu.

Detto in termini semplici: molti rumeni all’estero, proprio perché vedono con i loro occhi come si vive nei paesi dell’Europa occidentale, sono estremamente critici con l’establishment che ha governato il paese negli ultimi 35 anni, e aspirano a un cambiamento radicale (meno corruzione, più istruzione), senza il quale – anche quando lo desidererebbero – sono ben poco disposti rientrare in Romania.

La cosa interessante è che la lotta alla corruzione è in cima ai programmi di entrambi i candidati, il vincitore europeista Nicusor Dan e il perdente euroscettico George Simion. Quel che ha spinto tanti elettori a scegliere Dan e tanti altri a scegliere invece Simion non è solo il grado di fiducia nell’Unione Europea, ma anche il grado di fiducia nella capacità dei due candidati di risolvere davvero il problema numero 1 della Romania, ossia di smantellare l’enorme macchina della corruzione che da tanti decenni attanaglia il paese. C’è chi ha creduto che Dan fosse più adatto di Simion, e chi ha creduto che il più adatto fosse Simion e non Dan. E ci sono pure quanti, pur avendo scelto uno dei due, restano scettici perché temono che nessuno sarà veramente capace di cambiare la Romania.

Viste da questa angolatura, le accuse a Simion di nostalgie fasciste appaiono alquanto fuori bersaglio. Più ragionevole, forse, è pensare che fra quanti lo hanno votato molti l’abbiano fatto semplicemente perché hanno ritenuto che, proprio in quanto più anti-sistema e meno compromesso con la burocrazia di Bruxelles, avesse maggiori possibilità di estirpare la corruzione.

[articolo uscito sulla Ragione il 20 maggio 2025]




Le democrazie limitate

Che cos’è una democrazia? Che cos’è una dittatura? Fino a qualche decennio fa questo genere di interrogativi non sollevava grandi difficoltà concettuali. È vero, accanto alle democrazie e alle dittature vere e proprie si affiancavano regimi intermedi o ibridi, non direttamente incasellabili nei due idealtipi di regime politico. Gli enti che si occupano di monitorare lo stato della democrazia hanno spesso previsto casi intermedi, misti o ibridi. Gli studiosi di politica sono spesso ricorsi a neologismi e termini composti per individuare i regimi che, in quanto miscele dei due tipi puri, non possono essere considerati né pienamente democratici né pienamente dittatoriali. Per i regimi come la Russia dopo la caduta del muro di Berlino, ad esempio, è stato talora usato il termine democratura, che evidenzia la coesistenza fra dittatorialità (pieni poteri dell’esecutivo) ed elezioni periodiche del parlamento e del capo di governo. Qualcuno, in passato, si è anche spinto a coniare il termine speculare, dictablanda, per evidenziare che un governo autocratico, senza alternanza al potere, può nondimeno ammettere alcune libertà civili di base (l’archetipo di questo regime è il Messico dopo la crisi del ’29, dove il Partito Rivoluzionario Istituzionale governò per ben 71 anni, senza sopprimere tutte le libertà civili).

Ma il caso che, come europei, ci riguarda più da vicino è quello delle democrazie illiberali, contrapposte alle democrazie vere e proprie, o liberal-democrazie. Con l’espressione democrazie illiberali, usata quasi sempre con connotazione negativa, si intendono quei regimi in cui la sovranità popolare, attuata mediante periodiche e libere elezioni, dà luogo a governi dotati di un potere eccessivo e/o mal esercitato. Dove il deficit di liberalismo può manifestarsi in modi alquanto diversi: subordinazione della magistratura al potere politico, assenza o debolezza dei contropoteri, leggi restrittive in materia di libertà di stampa, associazione, manifestazione del pensiero, mancato riconoscimento dei diritti delle minoranze, eccetera. Sotto questa critica sono caduti, in Europa, soprattutto tre paesi: l’Ungheria di Viktor Orbán, la Polonia di Mateusz Morawiecki, l’Austria di Jörg Haider. In tutti e tre i casi, secondo le autorità europee, il potere politico – a dispetto della sua investitura democratica – sarebbe andato al di là delle sue legittime prerogative, sottraendosi ai limiti imposti dallo stato di diritto.

Questa, per grandissime linee, era la situazione fino a qualche mese fa. Ora non più. Oggi, se vogliamo dare una descrizione minimamente accurata dei regimi politici e istituzionali possibili, dobbiamo tenere conto di una nuova possibilità. In ben tre paesi europei – Germania, Francia, Romania – si sta profilando una eventualità che, in certo senso, capovolge il caso delle democrazie illiberali: quella di una democrazia in cui il rispetto (vero o presunto) dello stato di diritto comporta una drammatica limitazione della democrazia.

Questa possibilità si è presentata in Francia, con una sentenza della magistratura che ha sancito l’ineleggibilità di Marine Le Pen, ossia della leader del principale partito francese, candidata favorita alla presidenza della Repubblica. Si è presentata in Germania, con un’indagine dei servizi segreti sul maggiore partito tedesco (la AfD, Alternative für Deutschland), che ne ha messo in dubbio il diritto a ricevere fondi pubblici e, forse, persino a concorrere nella competizione elettorale. E si è presentata pure in Romania, dove un’elezione presidenziale è stata annullata perché la Corte costituzionale ha ritenuto che i consensi a un candidato fossero stati gonfiati dalla propaganda russa (le elezioni che si svolgono oggi in Romania sono la ripetizione di quell’elezione annullata). In tutti e tre i casi le forze politiche penalizzate sono di destra, più o meno estrema e più o meno nostalgica, e in tutti e tre i casi a interferire con il voto sono stati organismi preposti a tutela della legge (Magistratura, Corte costituzionale, Servizi di intelligence interni).

Qui non voglio discutere della opportunità di escludere dalla competizione elettorale determinati partiti o candidati in quanto giudicati antidemocratici. Questione complicatissima, che inevitabilmente scalda gli animi. Quel che vorrei far notare, però, è che – sul piano logico – questa eventualità è l’esatto opposto di quello delle democrazie illiberali. In quel caso si trattava di democrazie imperfette in quanto sacrificavano lo stato diritto. Qui, se certe forze politiche vengono messe al bando, è lo stato di diritto che prevarica la democrazia.

Come chiamare questo nuovo tipo di democrazie?

A me il termine appropriato pare “democrazie limitate”, perché – nel momento in cui si esclude la forza politica che ha i maggiori consensi, è precisamente l’essenza della democrazia, ovvero il principio della sovranità popolare, che viene intaccato alla radice.

Su quale sia il male maggiore, la democrazia illiberale o la democrazia limitata, ognuno la pensa a modo proprio. Quel che vorrei far notare è soltanto un punto: ove il principio di escludere le forze politiche giudicate come “antidemocratiche” dovesse affermarsi dove già si è affacciato (in Germania, Francia, Romania), in paesi “a democrazia limitata” si verrebbero a trovare quasi 200 milioni di cittadini, poco meno della metà di quelli dell’intera Unione Europea. Non proprio un bel biglietto da visita per un’istituzione che ama sentirsi faro di libertà e democrazia.

[Articolo uscito sul Messaggero il 18 maggio 2025]




Estrema destra?

L’ufficio tedesco per la protezione della Costituzione, alla fine di un’indagine durata ben quattro anni, ha stabilito che Alternative für Deutschland (AfD), primo partito tedesco (alla pari con la CDU/CSU secondo gli ultimi sondaggi), è un’organizzazione “di estrema destra acclarata” e non è “compatibile con l’ordinamento liberale e democratico” della Germania. La decisione, potenzialmente, apre la strada a decisioni drastiche, come la sospensione dei finanziamenti pubblici e lo scioglimento. Intanto autorizza i servizi segreti a infiltrare l’AfD per indagarne il funzionamento interno e scoprirne eventuali piani eversivi.

Non è la prima volta che, in Germania, si tenta di eliminare dalla competizione un partito considerato di estrema destra. Per l’esattezza, è la quarta volta. Nel 2001 e nel 2013 il tentativo fallì perché la Corte Costituzionale, pur ravvisando le ascendenze neonaziste del partito NPD, non ravvisò il concreto pericolo di un sovvertimento dell’ordine costituzionale da parte del partito incriminato. Nel 2024, grazie a una modifica costituzionale introdotta proprio per rendere sanzionabili i partiti giudicati anti-democratici, al partito di estrema destra Die Heimat (La Patria), erede dello NPD, è stato tolto il finanziamento pubblico per 6 anni. Il tentativo, a questo punto, è di ripetere l’operazione con la AfD, che con il suo 20-25% di consensi è giudicato molto più temibile di un partitino come NPD o come Die Heimat.

Ma la Germania non è l’unico paese europeo in cui si cerca di eliminare una formazione politica dalla competizione elettorale. La stessa cosa è successa pochi mesi fa con la dichiarazione di ineleggibilità di Marine Le Pen, a capo del maggiore partito francese (il Rassemblement National) e candidata favorita per la presidenza della Repubblica. E sulla medesima lunghezza d’onda si sono mosse la Corte Costituzionale della Romania, che per neutralizzare Georgescu, considerato troppo di destra e troppo antieuropeo, è arrivata ad annullare il risultato elettorale (giudicato falsato da interferenze straniere).

Apparentemente, tutti questi atti sono volti a preservare la democrazia, minacciata dalla destra anti-europea. Ma basta rivolgere lo sguardo appena più in là, in uno stato a cavallo fra Asia e Europa come la Turchia, per scoprire che il medesimo metodo viene usato non per proteggere la democrazia ma, tutto al contrario, per impedirne l’affermazione: è il caso dell’arresto preventivo di Ekrem İmamoğlu, sindaco di Istanbul e principale avversario di Erdoğan alle prossime elezioni presidenziali.

Di tutti questi casi, però, forse il più interessante è proprio quello tedesco. Qui, infatti, accade una cosa abbastanza sorprendente. Da un lato, quasi la metà dei tedeschi è a favore dello scioglimento dell’AfD, primo partito del paese, in quanto lo giudica di estrema destra. Dall’altro, i sondaggi rivelano che la stragrande maggioranza degli elettori di tale partito, giudicato (dagli altri) “di estrema destra”, non si considera affatto tale, ma si sente di centro o di destra.

Di qui un paradosso: in un mondo in cui la gente esige di essere giudicata, classificata e percepita sulla base del proprio sentiment, il diritto di autodefinirsi viene negato agli elettori del partito che riscuote i maggiori consensi.

Ma forse non è semplicemente un paradosso. Dietro l’uso dell’etichetta estrema destra, o far-right, si nasconde l’incapacità – non solo dei media, ma degli stessi scienziati politici – di concettualizzare e nominare un cluster di credenze che sono intrinsecamente non riducibili a un posizionamento sull’asse destra-sinistra: ostilità all’immigrazione irregolare, scetticismo sulla transizione green, rifiuto del follemente corretto, sfiducia nell’Europa, pacifismo anti-interventista. Tutte idee che, considerate nel loro complesso, non sono né di destra né di sinistra, tanto è vero che – in Germania – accomunano partiti etichettati di estrema destra (AfD) e partiti etichettati di estrema sinistra (BSW).

È con questo cluster di idee, non con la “marea nera” neo-nazista montante in Europa, che bisognerà prima o poi fare i conti.

[articolo uscito sulla Ragione il 6 maggio 2025]




Il Manifesto di Ventotene. Qualche considerazione di metodo

Giuseppe Ieraci sul post di Paradoxa-Forum, del 28 marzo, Sovversivi e comunisti a Ventotene, analizzando criticamente Il Manifesto di Ventotene ha parlato di «un apparato concettuale che oggi desta perplessità: lotta e coscienza di classe, rivoluzione, collettivizzazione, proletariato, sfruttamento capitalistico, imperialismo, si tratta di un linguaggio tardo ottocentesco che era tipico dell’humus culturale dei nostri ‘resistenti’». Gli ho fatto rilevare che proprio quell’apparato concettuale avreb-be dovuto sconsigliare dal farne un testo di battaglia ancora attuale da sbattere in faccia al governo. Sennonché, con grande meraviglia, leggo su ‘Critica Liberale’ un articolo di Giuseppe Civati, All’armi son fascisti del 19 marzo u.s., – un politico che si dichiara alla sinistra della sinistra parlamentare – che sembra non condividere affatto le ‘perplessità’ di Ieraci.. A Giorgia Meloni – che aveva citato, a riprova del sostanziale illiberalismo del Manifesto, il passaggio: «Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato, e intorno ad esso la nuova vera democrazia» – Civati obietta che avrebbe dovuto proseguire nella citazione e leggere il seguito del discorso: «Non è da temere che un tale regime rivoluzionario debba necessariamente sboccare in un rinnovato dispotismo. Vi sbocca se è venuto modellando un tipo di società servile. Ma se il partito rivoluzionario andrà creando con polso fermo, fin dai primissimi passi, le condizioni per una vita libera, in cui tutti i cittadini possano partecipare veramente alla vita dello stato, la sua evoluzione sarà, anche se attraverso eventuali secondarie crisi politiche, nel senso di una progressiva comprensione ed accettazione da parte di tutti del nuovo ordine, e perciò nel senso di una crescente possibilità di funzionamento, di istituzioni politiche libere».

 È difficile capire se Civati si limita a riportare ciò che passava nella mente di Spinelli, Rossi e Colorni o se crede davvero alla plausibilità di un partito rivoluzionario che avrebbe potuto riformare una comunità politica (nella fattispecie, vasta come un continente) senza tramutarsi in un apparato dispotico. In realtà, se la premier avesse proseguito nella sua citazione avrebbe ulteriormente giustificato la denuncia del carattere illiberale del Manifesto. Quando mai, infatti, si è avuto nella storia un partito rivoluzionario demiurgico in grado di realizzare grandi riforme, di far trionfare libertà, eguaglianza e giustizia sociale e disposto poi a ritirarsi in buon ordine per dare la voce al popolo redento? Sembra essere ritornati ai tempi in cui la sinistra (oggi atlantista) inneggiava a Fidel Castro e ai barbudos ritenendo che avrebbero riportato la democrazia a Cuba. Si è tenuti a contestualizzare un documento storico – e certo è doveroso farlo – ma non si può far passare un progetto rivoluzionario come espressione di vera democrazia.

Ma c’è un altro punto sul quale vorrei richiamare l’attenzione. Nel suo post, Ieraci rimprovera alla premier di aver «attribuito un metodo (la lotta rivoluzionaria) e dei fini (il socialismo) ai protagonisti di oggi, che con quella temperie politica e culturale non hanno nulla a che fare, insomma ha fatto cadere presunte colpe dei padri sui figli». Difficile non essere d’accordo però questo deprecabile vizietto di far ricadere le colpe dei padri sui figli è diffuso sia a destra che a sinistra. Sui più grandi organi di informazione non si ritiene Giorgia Meloni l’erede del fascismo? Lo stesso Ieraci, a chiusura di articolo, rileva che la premier «quando dice che la sinistra ‘mostra un’anima illiberale e nostalgica’ dovrebbe – credo – anche interrogarsi sulle sue nostalgie». E va già bene che non abbia scritto che, appartenendo alla razza di quelli che confinarono Spinelli, Rossi e Colorni a Ventotene, non ha titoli per criticarli.

A mio avviso, qui va fatta chiarezza una volta per tutte. Ci sono formazioni politiche in Italia, a destra e a sinistra, che si richiamano a idealità che ispirarono regimi poli-tici illiberali degenerati in regimi totalitari. Ancora negli anni 60 persino nella tessera del PSI veniva dichiarata l’adesione ai principi del marx-leninismo, ovvero ai principi che oggi evocano la dittatura, la polizia segreta, l’eliminazione degli oppositori. Era ovvio che quanti si dicevano comunisti prendessero le distanze non solo dallo stalinismo ma anche dalle forme meno totalitarie del socialismo reale: in fondo, avevano contribuito a riportare, con la Resistenza, la libertà politica in Italia. A loro stavano a cuore la giustizia sociale e uno stato sociale in grado di assicurarla non l’eliminazione dei kulaki e il KGB.

Ma perché non deve valere lo stesso discorso per i pretesi nostalgici del fascismo? Tutti gli intellettuali di destra che ho avuto l’occasione di conoscere deprecavano le leggi razziali e molti consideravano l’asse Roma-Berlino l’errore imperdonabile del duce. Ma il loro pensiero andava alle bonifiche, agli enti assistenziali, alle riforme scolastiche, ai treni in orario, a Giovanni Gentile e ai grandi esponenti della cultura italiana che avevano creduto in Mussolini. Perché non dovrebbero essere ritenuti in buona fede come vengono (giustamente) ritenuti i postcomunisti? Che senso ha ricordare a questi ultimi i Gulag e agli altri il Tribunale della Razza?

Certo si può ritenere che già nel marxismo ci fossero i germi della popperiana ‘società chiusa’ e che nell’ideologia fascista ci fossero il confino e la ‘difesa della razza’. Ma queste sono conclusioni alle quali arrivano lo storico, lo studioso delle ideologie, lo scienziato politico – conclusioni fondate su congetture ragionevoli ma non infallibili: ciò che dovremmo criticare nei postfascisti e nei post-comunisti non è la famiglia di appartenenza ma comportamenti e programmi politici determinati.

In un articolo molto pacato pubblicato sul ‘Giornale’ il 26 marzo u.s., La coperta troppo corta del mito di Ventotene, Gaetano Quagliariello si è chiesto, parlando della Meloni, «perché tanto scandalo? Perché affermazioni come ‘Credo nell’Europa di De Gasperi e non in quella di Ventotene’; oppure ’Condivido la visione liberale di Einaudi e non mi ritrovo in quella giacobina di Ernesto Rossi’; o persino ‘Nel mio Dna ho l’Europa delle nazioni e non posso perciò riconoscermi in una visione federalista’, vengono ritenute alla stregua di inaccettabili profanazioni?» Forse perché nei periodi invernali della vita di una nazione, sono le tempeste in un bicchier d’acqua a scaldare gli animi.

 

[articolo pubblicato su PARADOXA-FORUM il 31 marzo 2025]




Sulla manifestazione del 15 marzo – Il manifesto di Ventotene, contro il pluralismo e la democrazia

Di una cosa sono certo: la maggior parte di coloro che parlano del Manifesto di Ventotene non l’hanno letto. Lo dico a loro discolpa, perché se – anziché lodarlo acriticamente – l’avessero letto con la dovuta attenzione sarebbero da tempo impegnati in un difficile lavoro di reinterpretazione o, come si dice oggi, di “contestualizzazione”. In breve: si sforzerebbero di dimostrare che, nonostante le cose inquietanti che il manifesto indubbiamente dice, possiamo condividerne lo spirito, le finalità, le buone intenzioni (lo Stato federale europeo), e scordarci sia i fini concreti proclamati in quel manifesto sia i metodi invocati per imporre quei fini. E, venendo alla manifestazione di sabato scorso, anziché far circolare il sacro libretto preceduto da un’introduzione del tutto acritica, avrebbero avvertito i convenuti che – per non essere presi in castagna, come Giorgia Meloni ha provveduto a fare ieri – sarebbe stato bene non prendere troppo sul serio quel manifesto, in quanto molto datato e scritto in condizioni di isolamento.

Io invece lascio volentieri l’opera di contestualizzazione, depurazione, rilettura del Manifesto e vado dritto ai fini e ai mezzi esplicitamente dichiarati, perché prima di rileggere occorre leggere.

Ebbene, sui fini, il Manifesto dice chiaramente che l’assetto sociale da promuovere è di tipo socialista (anche se non comunista), con ampi espropri e severe limitazioni alla proprietà privata. Nessuna considerazione riceve l’eventualità che l’assetto possa essere liberale, o non socialista.

Quanto ai mezzi, il Manifesto immagina che il nuovo assetto possa essere instaurato attraverso la “dittatura del partito rivoluzionario”, che imporrà la sua volontà alle masse, ancora incapaci di riconoscere i propri interessi, semplice “materia fusa, ardente, suscettibile di essere colata in forme nuove, capace di accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti”. In una situazione di “ancora inesistente volontà popolare” il partito rivoluzionario, guidato da una élite illuminata, “attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto” non già dal consenso popolare ma “dalla coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna”.

E non è tutto. Chi avesse dei dubbi sulla visione politica del Manifesto dovrebbe riflettere sulle parole, sprezzanti e beffarde, rivolte ai “democratici”, ovvero a quanti pensano che il potere del governo debba poggiare su libere elezioni. I democratici sono gente che sogna “un’assemblea costituente, eletta col più esteso suffragio e col più scrupoloso rispetto del diritto degli elettori, la quale decida che costituzione debba darsi”. Illusi, che non comprendono che nella crisi rivoluzionaria “la metodologia politica democratica sarà un peso morto”. Pavidi, che sono disposti a usare la violenza “solo quando la maggioranza sia convinta della sua indispensabilità”.

Insomma, spiace dirlo ma il Manifesto di Ventotene è il più esplicito e conturbante ripudio del pluralismo, la più clamorosa deviazione dal percorso democratico e costituzionale (libere elezioni + Assemblea Costituente) che, molto saggiamente, l’Italia seguirà dopo la fine della seconda guerra mondale.

Possiamo almeno dire che una cosa buona – l’idea degli Stati Uniti d’Europa – il Manifesto di Ventotene l’ha partorita?

Per certi versi sì, perché effettivamente è nel Manifesto del 1941 che per la prima volta viene compiutamente formulata quell’idea. Ma per certi versi invece no, perché il modo di formularla fu elitario, giacobino e anti-democratico. Da questo punto di vista, forse, anziché ripetere meccanicamente che il meraviglioso ideale di Ventotene è stato tradito dalle classi dirigenti che ci hanno condotti all’Europa attuale, forse dovremmo domandarci se il progetto europeo non è fallito proprio perché a quell’ideale si è conformato fin troppo. L’Europa di oggi, governata da una élite burocratica e autoreferenziale, soffre del medesimo male – la costruzione dall’alto, senza coinvolgimento popolare – che affligge il Manifesto di Ventotene.

Si può essere euro-scettici o europeisti convinti, ma chi davvero sogna gli Stati Uniti d’Europa, s crede nel metodo democratico non può prendere a modello il Manifesto di Ventotene. Idolatrare quel modello è stata un’ingenuità, dettata dall’ideologia e dalla scarsa conoscenza. Possiamo fare molto di meglio, e dobbiamo provarci senza rinunciare al pluralismo e alla democrazia.

[articolo uscito sul Messaggero il 20 marzo 2025]