La sinistra che non segue Letta

Non ho idea di che cosa abbia spinto Enrico Letta e il suo partito a rifiutare, fin da prima dell’estate, ogni compromesso sul Ddl Zan. Errore di calcolo? Voglia di inasprire lo scontro con il centro-destra? Manovre sull’elezione del presidente della Repubblica?

Chissà.

Ora che la frittata è fatta, e che l’approvazione di una legge conto l’omotransfobia è rimandata alle calende greche, forse varrebbe la pena che il Pd – esaurita la raffica di contumelie contro la destra retrograda, razzista e omofobica – si fermasse un attimo a riflettere. Tema della riflessione: come mai i dubbi sul Ddl Zan, anziché essere esclusivi della destra, sono così diffusi anche dentro il campo progressista?

Già, perché al segretario del Pd forse è sfuggito, ma la realtà è che le perplessità sul Ddl Zan sono piuttosto diffuse in diversi settori della sinistra. E in molti casi non sono di tipo tattico, come quelle espresse da Renzi e dai suoi, per cui sarebbe meglio una legge imperfetta che nessuna legge.

No, ci sono movimenti, associazioni, politici, studiosi di area progressista che sono convinti che si possa fare una legge a tutela delle minoranze migliore e non peggiore del Ddl Zan. Chi sono?

Diverse associazioni femministe, tanto per cominciare. Non solo italiane (Udi, Se non ora quando, Radfem, Arcilesbica) ma oltre 300 gruppi in più di 100 paesi, riuniti sotto la sigla Whrc (Women’s Human Rights Campaign). La rappresentante italiana nella Whrc è Marina Terragni, da decenni impegnata nelle battaglie per i diritti delle donne, degli omosessuali e dei transessuali. A queste associazioni non piace che le donne, che sono la metà dell’umanità, siano trattate come una minoranza; ma soprattutto non piace che il mondo femminile, con i suoi spazi e i suoi diritti, sia arbitrariamente colonizzato da maschi che si autodefiniscono donne, come è già capitato – ad esempio – in ambiti come le carceri e le competizioni sportive; per non parlare dei dubbi sui rischi di indottrinamento (e di cambiamenti di sesso precoci) dei minori.

Poi ci sono gli studiosi, e specialmente i giuristi, che hanno analizzato l’impianto della legge, e ne hanno individuato almeno tre criticità: rischi per la libertà di espressione, difetto di specificità e tassatività dei reati perseguiti con il carcere, conflitto con l’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 (“i genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere d’istruzione da impartire ai loro figli”). Fra i giuristi che hanno sollevato obiezioni, oltre a diversi costituzionalisti, c’è anche Giovanni Maria Flick, ex ministro della giustizia del primo Governo Prodi.

Ma forse il caso più interessante, e clamoroso, di disallineamento con l’integralismo LGBT di Letta e del Pd è quello dell’estrema sinistra, in Europa ma anche in Italia. Forse non tutti sanno che, non da ieri, in una parte della sinistra radicale le battaglie LGBT, e più in generale le battaglie per i diritti civili, sono guardate con ostilità come “campagne di distrazione di massa”, che la sinistra riformista – irrimediabilmente compromessa con il capitalismo e con le logiche del mercato – utilizzerebbe per spostare l’attenzione dal vero problema, ossia l’arretramento dei diritti sociali. Su questa linea, ad esempio, troviamo filosofi come Jean Claude Michéa e, in Italia, Diego Fusaro. Ma anche uomini politici di sicura fede progressista, come Mario Capanna (assolutamente contrario, perché “la legge aggiunge reati, non diritti”) o il sempre comunista Marco Rizzo, forse la voce più severa sui diritti LGBT e sulle celebrities che di quei diritti si servono per autopromuovere sé stesse (ma, è il caso di notare, osservazioni del medesimo tenore senso sono talora venute anche da un riformista doc come Federico Rampini).

E poi ci sono i (pochi) politici progressisti fuori dal coro, che hanno il coraggio di dire la loro anche se il partito non è d’accordo. Penso ad esempio a Paola Concia (Pd, sposata con una donna), che nello scorso aprile sollevò varie e argomentate obiezioni, chiedendo di modificare il testo della legge. O Valeria Fedeli (Pd), che nello scorso maggio sollevò perplessità analoghe, pure lei convinta che le modifiche avrebbero potuto migliorare la legge.

Ma forse il caso più interessante di posizionamento politico è quello di Stefano Fassina, ex parlamentare Pd, poi transitato in Sinistra italiana e approdato a LEU. In una conversazione con Il Foglio, giusto il giorno prima dell’affossamento del Ddl Zan, Fassina non solo osserva che l’articolo 4 (sui limiti alla libertà di espressione) andrebbe eliminato per “il suo portato di arbitrio giurisdizionale”, ma afferma che “sarebbe gravissimo per il nostro stato di diritto non intervenire sull’articolo 1” (quello che definisce l’identità di genere come scelta soggettiva). Quell’articolo, infatti, introduce “norme che si configurano come visione antropologica – legittima ma di parte”. Una visione che “non è stata esplicitata, condivisa e discussa, e quindi non può stare nel disegno di legge e diventare progetto educativo universale”.

Che dire?

Forse una cosa soltanto: una parte del mondo progressista, Letta o non Letta, continua a ragionare con la propria testa. Ed è un bene, perché certe battaglie, come quelle sul pluralismo e sulla libertà di espressione e di educazione, hanno più probabilità di essere vinte se non diventano proprietà esclusiva di una sola parte politica.

 Pubblicato su Il Messaggero del 29 ottobre 2021




Il Ddl Zan e i nuovi predicatori

Innanzitutto un sentito «grazie» a Silvia Bonino per il bell’articolo sul Ddl Zan e per la chiarezza con la quale ha illustrato le possibili ricadute che sulla psiche di bambini e adolescenti può avere una pedagogia al contempo moraleggiante e (nel caso specifico dei trans) priva di qualsiasi fondamento scientifico (sarebbe fra l’altro interessante sapere se gli insegnanti di scienze verranno invitati a partecipare alle iniziative cosiddette di sensibilizzazione anti-transfobia nelle scuole, e in caso affermativo, quali opinioni sarà loro consentito esprimere…). Mi venga qui consentito di aggiungere alcune considerazioni su un aspetto a mio giudizio cruciale della mentalità giovanile, aspetto che potrebbe pesare piuttosto negativamente rispetto alle finalità perseguite dal decreto.

Come ha modo di constatare non solo ogni genitore, ma anche ogni insegnante non accecato dai bagliori della sua ideologia preferita (nonché, più in generale, chiunque si ricordi di essere stato giovane), il periodo dell’adolescenza è molto spesso segnato dall’essere bastian contrario, dal rifiuto di accettare senza discussione le idee già bell’e fatte imposte da scuola e ambiente familiare. Se è vero, infatti, che in questi anni è rara la vera indipendenza di spirito ed è anzi spiccata la tendenza al «groupthink», o effetto gregge, tale conformismo si esplica soprattutto nei rapporti con il gruppo di coetanei, mentre allo stesso tempo ci si ribella contro gli adulti che predicano come se fossero in possesso della verità assoluta, contro chi approfitta di lezioni e pasti in famiglia per salire sul pulpito e infliggerti la sua visione del mondo senza possibilità di repliche. Una fase in cui, spesso e volentieri, si è convinti di saperne più delle generazioni che precedono e si prova così fastidio verso qualsiasi tentativo di indottrinamento.

Chi di noi, del resto, non ha conosciuto coetanei diventati ferocemente atei e mangiapreti dopo aver frequentato un scuola cattolica, in reazione alle messe e preghiere quotidiane loro imposte dal corpo insegnante? Quanti figli o allievi di persone dalle convinzioni dogmatiche e irremovibili hanno finito per abbracciare comportamenti e visioni del mondo diametralmente opposti a quelli degli adulti ?

Una proposta pedagogica come quella contenuta nel decreto, se attuata, rischia dunque a mio avviso di produrre, in molti casi, effetti esattamente contrari a quelli voluti : rendere le varie «fobie» una specie di frutto proibito, una forma di trasgressione rispetto alla cultura ufficiale, al limite un modo di sentirsi «cool». Questo magari in forma discreta e sotterranea: quando il docente parla di questo argomento secondo i canoni prestabiliti, è possibile che certi allievi poco convinti o addirittura ostili tacciano e facciano finta di assentire, o per non cacciarsi nei guai o perché pensano: «E’ inutile cercare di discutere, tanto non ci ascolta, vuol sempre avere ragione lui». In altri casi il messaggio non verrebbe in sé respinto, ma semplicemente accolto con indifferenza e noia e di fatto ignorato. Nella migliore delle ipotesi si sarebbe dunque ben lungi dall’ottenere l’agognata conversione di massa, e nella peggiore non è azzardato temere un’impennata delle aggressioni fisiche e verbali contro omosessuali e trans: tanto più che, come sottolinea giustamente Silvia Bonino, il bullismo è favorito proprio dal trattare gli esseri umani come appartenenti ad una categoria a parte anziché come persone simili a noi. Se poi alla categoria in questione viene attribuito lo status di vittima e ne viene così sottolineato il carattere sacro e intoccabile, i bulli non aspetteranno altro per cominciare a perseguitarla.

Già avversato da quanti lo ritengono contrario nella sua ispirazione ai principi di libertà di pensiero e di espressione, nonché di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, sanciti dalla Costituzione, il Ddl Zan rischia dunque, in più, di rivelarsi controproducente nella misura in cui insisterà a propinare ai giovani una nuova versione dei catechismi e delle feste comandate. Agli autori e sostenitori varrebbe forse la pena di ricordare che, fin troppo spesso, la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni.




Osservazioni sul ddl Zan alla luce delle scienze psicologiche

Premessa

Come contributo alla discussione ddl Disposizioni in materia di contrasto dell’omofobia e della transfobia, noto come ddl Zan, scrivo alcune osservazioni alla luce delle conoscenze provenienti dalle scienze psicologiche, in particolare dalla psicologia dello sviluppo e dell’età evolutiva.

Ciò che immediatamente colpisce lo studioso di scienze umane alla lettura del ddl, a partire dall’articolo 1 che dà le definizioni dei termini usati, è la totale mancanza di alcun fondamento delle affermazioni in esso contenute nelle conoscenze scientifiche di psicologia di cui oggi disponiamo.

Che le affermazioni e le proposte prescindano da qualunque conoscenza scientifica non stupisce, perché l’ideologia, non esplicitata, che sta alla base del ddl Zan considera la scienza un’espressione di potere della società occidentale cui viene attribuito lo stesso valore di qualsiasi altra soggettiva interpretazione della realtà, individuale o collettiva. Ma la conoscenza scientifica non è questo; essa è il risultato di una metodologia rigorosa, che sottopone a verifica le sue ipotesi, in modo da impedire il più possibile il prevalere di valutazioni soggettive e di ideologie, in un confronto continuo con la realtà (sia essa fisica, biologica, psicologica o sociale); quest’ultima viene studiata secondo precise regole e viene riconosciuta nella sua specificità, contrastando ogni tendenza a giudicarla in modo soggettivo e pregiudiziale. Inoltre, essa sottopone le sue acquisizioni alla valutazione e alla revisione da parte della comunità degli scienziati.

La ricerca di una conoscenza il più possibile obiettiva è particolarmente difficile ma anche particolarmente necessaria in psicologia, dal momento che tutti noi ogni giorno, nelle nostre interazioni, interpretiamo la realtà con inconsapevoli stereotipi e giudizi preconcetti, oltre che con forme di ragionamento spesso fallaci, inappropriate o tipiche delle prime fasi dello sviluppo cognitivo. Tutti noi adulti utilizziamo, infatti, diverse forme di pensiero, da quello logico-scientifico a quello narrativo, intuitivo e anche magico. Per arrivare a una conoscenza non episodica e non limitata al caso singolo è però indispensabile utilizzare il pensiero logico-scientifico, che permette di superare le nostre soggettive e fallaci interpretazioni, rendendo ragione della realtà che stiamo studiando.

Si può quindi affermare che la conoscenza scientifica è l’unica che permette di rispettare la realtà studiata – nel caso della psicologia dell’età evolutiva: i bambini – senza sovrapporvi valutazioni personali e modelli culturali precostituiti, ma cercando al contrario di tenerli sotto controllo. Questo controllo non è mai totale e assoluto, ma la scienza è l’unica che cerca di farlo in modo sistematico e continuativo. Ritengo quindi che sia indispensabile esaminare le affermazioni contenute nel ddl Zan alla luce delle conoscenze psicologiche, per evitare di introdurre nel nostro ordinamento giuridico e nella prassi educativa posizioni che non hanno alcuna base scientifica riconosciuta e che possono di conseguenza danneggiare i soggetti a cui verrebbero applicate. Lo richiede il rispetto dei bambini, ai quali purtroppo l’educazione ha spesso imposto modelli che solo le conoscenze scientifiche hanno scardinato; un esempio per tutti è la repressione del mancinismo, che in passato ha reso infelici e maldestri moltissimi bambini.

Le definizioni di genere e di identità di genere

Nell’articolo 1, viene riportata una definizione di genere (per genere si intende qualunque ma­nifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso) che non trova alcun riscontro nelle attuali conoscenze scientifiche. Queste ultime considerano il genere di una persona il frutto della complessa interazione tra variabili biologiche e variabili culturali, in un mammifero del tutto speciale – capace di pensiero, linguaggio e autocoscienza – qual è l’essere umano. Le modalità di interazione tra queste variabili sono in larga parte sconosciute, lungo gli anni non solo dell’età evolutiva canonica (dalla nascita fino all’adolescenza e giovinezza) ma anche negli anni seguenti, lungo l’intero ciclo di vita. Lo sforzo della ricerca è proprio quello di comprendere come queste variabili interagiscono nel tempo e con quali esiti, ben lontano da interpretazioni unilaterali sia di tipo unicamente biologico – inapplicabili all’essere umano che ha peculiari caratteristiche cognitive e sociali – sia di tipo unicamente culturale, che negano le influenze biologiche e le differenze tra i sessi. Vi è oggi la consapevolezza che le variabili biologiche e culturali vanno studiate nella loro continua e complessa interazione (Bonino, 2019).

Anche la definizione di identità di genere non trova riscontro nelle conoscenze scientifiche. Essa viene ricondotta a una percezione e rappresentazione puramente soggettiva (per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dal­l’aver concluso un percorso di transizione), escludendo qualunque relazione con il sesso biologico. Ma il riconoscimento di sé in un sesso diverso da quello biologico è definito dalla letteratura scientifica “disforia di genere”, e non certo identità di genere. Si tratta di una condizione che provoca grande sofferenza, ma che riguarda fortunatamente una piccola percentuale della popolazione mondiale, valutata intorno all’1% (Riggio, 2021).

Premesso che lo sforzo educativo degli adulti dovrebbe essere quello di garantire un ambiente che offra le migliori condizioni per lo sviluppo delle disposizioni biologiche dell’individuo in qualunque campo (è quello che viene definito “ambiente ottimale di sviluppo”), per l’identità di genere si tratta di favorire il riconoscimento di sé in un sesso corrispondente a quello biologico, per evitare l’aumento della disforia di genere e della conseguente sofferenza. Non approfondisco qui questo aspetto, la cui trattazione richiederebbe molto spazio. Mi limito a osservare che i periodi dell’infanzia e della fanciullezza sono stati da tempo individuati come importantissimi per lo sviluppo dell’identità sessuale e di genere. L’identificazione di sé come maschio o come femmina è molto precoce e compare già dalla fine del secondo anno di vita. Questa embrionale identificazione di sé, sui cui meccanismi non è ancora stata fatta piena luce, richiede di essere rafforzata e sostenuta dall’ambiente, in famiglia prima e a scuola poi. In concreto, questo significa che i bambini e le bambine devono trovare intorno a sé figure di adulti di entrambi i sessi (purtroppo in questo la nostra scuola è carente) e che l’ambiente deve aiutarli nel rafforzare l’iniziale identificazione che i piccoli fanno di sé. Questo va fatto senza rigidità, tenendo conto della specificità di ogni singolo bambino, senza dimenticare però che i bambini sono dominati, a livello cognitivo, dal realismo percettivo: di conseguenza hanno bisogno di segni concreti e visibili. Ne sono un esempio gli stereotipi culturali sul vestiario, spesso aborriti dagli adulti. In realtà, se usati con parsimonia e flessibilità, essi sono a quest’età dei marcatori utili per i bambini al fine di collocare se stessi in una certa categoria sessuale. L’importante è non dare messaggi svalutanti o rigidi, senza tenere conto delle preferenze individuali. All’adulto sono richieste grande sensibilità, attenzione e rispetto per le esigenze dei piccoli.

L’istituzione della Giornata nazionale all’articolo 7

Il testo recita: 1. La Repubblica riconosce il giorno 17 maggio quale Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la tran­sfobia, al fine di promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché di contra­stare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, in attuazione dei princìpi di eguaglianza e di pari dignità sociale sanciti dalla Costituzione. […] La proposta di istituire per tutte le scuole di ogni ordine e grado la giornata contro la discriminazione delle categorie minoritarie indicate ignora totalmente le conoscenze, ormai da tempo acquisite, sul comportamento aggressivo e sulla sua riduzione, così come quelle sullo sviluppo infantile.

Riguardo alle conoscenze sulla riduzione del comportamento aggressivo, l’errore di questa proposta è di fondare il rispetto degli altri non sulle persone ma su categorie. Una prima osservazione è che le categorie potenzialmente oggetto di discriminazione sono numerosissime, virtualmente infinite. Si dovrebbero quindi immaginare, lungo l’anno scolastico, innumerevoli giornate dedicate a molte altre categorie; si tratterebbe in ogni caso di gruppi sociali che sono già stati riconosciuti, e che sono capaci di imporsi all’attenzione per diventare gruppi di pressione; resterebbero esclusi tutti coloro che non fanno ancora parte di una categoria socialmente riconosciuta (da chi? con quali criteri?) come discriminata.

Un’ulteriore osservazione si fonda sugli studi sul bullismo; questi indicano che un bambino o una bambina possono essere discriminati e subire prepotenze per una qualunque singolarità che li rende diversi dagli altri, nel gruppo in cui vivono. Ne deriva che le ragioni per cui un bambino è oggetto di emarginazione e violenza sono potenzialmente infinite e mutevoli, dipendendo dalle circostanze e dagli ambienti. Può così accadere che un bambino venga discriminato per caratteristiche che, in altri contesti, sarebbero considerate delle qualità (come essere biondi e con gli occhi azzurri dove tutti gli altri sono scuri e con gli occhi neri). Ne deriva che la strada di istituire giornate contro le violenze nei confronti delle varie categorie oggetto di discriminazione è impraticabile perché ci sarebbe sempre qualcuno, discriminato per i più vari motivi, che non viene preso in considerazione.

C’è però una ragione sostanziale per cui istituire giornate contro la discriminazione di una categoria, qualunque essa sia, è profondamente errato e controproducente. La ragione risiede nel fatto che gli studi sulla socialità positiva, primi fra tutti quelli sulla condivisione emotiva e l’empatia, indicano unanimemente che gli esseri umani sono in grado di ridurre l’aggressione e la violenza solo quando riconoscono nell’altro una persona simile a sé, nonostante le diversità che questa può presentare: diversità di sesso, di colore di pelle, di salute, di prestazione, di orientamento sessuale, di peso, di bellezza, eccetera eccetera, in un elenco potenzialmente infinito e mutevole, a seconda delle culture e delle situazioni. Al contrario, la categoria impedisce il riconoscimento della comune umanità, che ha solide basi affettive ed emotive nonché radici biologiche, perché è un’astrazione che annulla la persona e la riduce a entità teorica. Ne deriva che è molto più facile aggredire l’altro quando questi è considerato come rappresentante di una categoria, qualunque essa sia, e non come una persona concreta con cui si entra in relazione.  Questo vale per l’adulto e ancor più vale per il bambino piccolo e il fanciullo; prima della maturazione della capacità di pensiero formale ipotetico-deduttivo in adolescenza, la categoria è qualcosa di non ancora pienamente concettualizzato e privo di rilevanza psicologica. Detto altrimenti, almeno fino alla prima adolescenza, per i bambini non esistono le categorie astratte citate, ma le singole persone che incontra.

Quali sono le conseguenze di queste acquisizioni della psicologia per la pratica educativa? Esse indicano che i bambini vanno educati a rispettare la persona che hanno di fronte, nella quotidianità della vita a scuola, insegnando loro a riconoscervi un essere umano simile a sé. Ciò comporta, in concreto, interagire faccia a faccia, imparare a riconoscere le emozioni, imparare a entrare in sintonia emotiva, sapersi rappresentare i vissuti emotivi di un’altra persona e condividerli, sapersi mettere nei suoi panni, saper comunicare (Bonino, 2012). Per fortuna sono tutte capacità per le quali siamo biologicamente predisposti e l’educazione non deve fare altro che incoraggiarle, contrastando quelle aggressive che non sono specificamente umane. Solo il riconoscimento dell’altro come simile a sé permette di superare il rifiuto per la sua eventuale diversità e permette di conseguenza di accettare l’altro nelle sue differenze, di qualunque tipo esse siano. Lo sforzo educativo deve concentrarsi sul favorire nel bambino il concreto riconoscimento della similarità dell’altro e della comune umanità, al di là delle infinite diversità che le persone possono avere. Quindi l’effetto paradossale della giornata nelle scuole è facilmente quello di non diminuire la discriminazione e la violenza, o addirittura di aumentarle.

Oltre a non ottenere il risultato desiderato, l’introduzione di questa giornata rischia di generare molta confusione nei destinatari. I temi della sessualità vanno affrontati tenendo conto sia delle capacità cognitive ed emotive dei bambini sia dell’esigenza di favorire, con un ambiente educativo adatto, lo sviluppo positivo, senza disforia di genere e senza sofferenza, della loro identità e del loro orientamento sessuale. In un sistema scolastico che non prevede l’educazione sessuale affettiva – di cui ci sarebbe urgentissimo bisogno – polarizzare l’attenzione solo su omosessualità, lesbismo, bisessualità e transessualità rischia di generare soltanto confusione nei bambini e nei ragazzini (cioè in chi frequenta la scuola dell’infanzia, la primaria e anche i primi anni della secondaria di primo grado). Queste categorie non solo sono difficili da concettualizzare, come appena detto, ma rappresentano realtà che sono ben lontane dagli interessi e dai vissuti emotivi dei bambini. Vi è quindi il rischio concreto di creare disorientamento e disagio confrontando i soggetti, in queste età, con realtà che possono essere emotivamente disturbanti. Il rischio è di aumentare la confusione e di rendere ansiogeno e travagliato il processo di identificazione di sé, con conseguente disagio e sofferenza.  Anche in adolescenza, dopo lo sviluppo puberale, la trattazione dovrebbe sempre avvenire nel quadro di un progetto globale di educazione sessuale sentimentale, realizzata da parte di persone esperte in psicologia dell’età evolutiva e non certo da attivisti, di qualunque orientamento essi siano. Appare paradossale accettare il rischio concreto di creare difficoltà alla grande maggioranza dei soggetti in età evolutiva in nome dell’illusoria speranza di aiutare delle minoranze, ancorché discriminate.


Riferimenti bibliografici

Bonino S. (2012). Altruisti per natura. Roma-Bari: Laterza.

Bonino S. (2019). Amori molesti. Natura e cultura nella violenza di coppia. Roma-Bari: Laterza.

Riggio H. R. (2021). Sex and gender. A biopsychological approach. New York-London: Routledge.




Ddl Zan, perché Renzi non dice la verità?

Credo che la stragrande maggioranza dei cittadini non abbiano letto un solo rigo del Ddl Zan sull’omotransfobia. Cionondimeno, i sondaggisti parlano degli orientamenti dell’opinione pubblica nei confronti della nuova legge, già approvata alla Camera e ora all’esame del Senato, come se tali orientamenti avessero qualcosa di reale.

E’ un grosso equivoco. Non perché – in generale – la gente non possa avere un’idea su una legge se non ne ha letto il testo, ma perché c’è legge e legge. Ci sono leggi su cui si può avere un’opinione fondata anche senza averle lette (le chiamerò leggi “sondaggiabili”), e leggi su cui non è possibile avere un’opinione fondata finché non se ne sono compresi bene i meccanismi interni (leggi “non sondaggiabili”).

Perché?

Perché ci sono leggi che, nel loro titolo, indicano anche i mezzi usati per raggiungere un dato fine, e ci sono leggi che indicano solo il fine, senza chiarire i mezzi usati per raggiungerlo. Una eventuale legge di semplificazione del sistema fiscale che introducesse una flat tax al 25%, ad esempio, è una legge sostanzialmente sondaggiabile, perché permette a ciascuno di farsi un’idea di quel che succederebbe se dovesse passare. La legge Zan per la “prevenzione e il contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità” è invece una legge sostanzialmente “non sondaggiabile”, perché i fini sono chiari (e difficilmente contestabili) ma nulla lasciano indovinare sui mezzi impiegati per raggiungerli.

La discussione sulla legge Zan è complicata per questo. Tutti ne conosciamo le finalità, quasi tutti le approviamo, ma non tutti siamo informati adeguatamente sui mezzi che la legge mette in campo per raggiungere i suoi fini. Su alcuni di questi mezzi (inasprimento delle pene per i crimini d’odio) c’è sostanziale accordo fra tutte le forze politiche, di destra, di centro e di sinistra. Ma su altri mezzi, invece, non tutti sono d’accordo. Le critiche più frequenti si appuntano su tre articoli.

L’articolo 1, che pretende di fissare il significato di termini come sesso, genere, identità di genere, orientamento sessuale, sancendo per legge la possibilità di scegliere il proprio genere in base alla percezione che ognuno ha di sé.

L’articolo 7, che – tra le altre cose – introduce una giornata nazionale “contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia”, senza prevedere alcuna esenzione per le scuole elementari, le scuole cattoliche, e più in generale gli allievi minorenni.

L’articolo 4, che limita la libertà di manifestazione del pensiero se le idee espresse appaiono (a un giudice) “idonee a de­terminare il concreto pericolo del compi­mento di atti discriminatori o violenti”.

La maggior parte delle proposte alternative al Ddl Zan, compresi gli emendamenti dei renziani, si concentrano su questi tre articoli, per sopprimerli o riformularli. Sull’articolo 1 si osserva, anche da parte di autorevoli esponenti del mondo femminista, che lasciare al singolo la libertà di definire il proprio genere può determinare conseguenze inique o pericolose per le donne, come quando detenuti maschi pretendono di trasferirsi nei reparti femminili asserendo di sentirsi femmine, o come quando, con la medesima motivazione soggettiva, atleti maschi pretendono di gareggiare con le donne. Per non parlare dell’accaparramento da parte dei maschi dei benefici del welfare riservati alle donne.

Sull’articolo 7 si osserva che, stante che le credenze del mondo LGBT in materia di stereotipi di genere riflettono solo una delle tante possibili visioni del mondo, nulla assicura che la giornata contro l’omotransfobia non si tramuti, in parte o in tutto, in un tentativo di diffondere tali idee, in aperto contrasto con il comma 3 dell’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 (“I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere d’istruzione da impartire ai loro figli”.).

Sull’articolo 4, infine, si osserva che l’articolo 21 della Costituzione prevede che l’unico limite alla libertà di espressione sia la contrarietà “al buon costume”, e che è estremamente pericoloso delegare a un giudice la valutazione della pericolosità di un’idea.

Conclusione. Tutte le principali proposte alternative al Ddl Zan, comprese alcune precedentemente formulate da Ivan Scalfarotto e dallo stesso on. Zan, sono altrettanto incisive nella loro capacità di reprimere i crimini d’odio, e molto superiori nella tutela della libertà di espressione e di insegnamento (oltreché nella protezione del mondo femminile).

Non capisco quindi come Renzi e gli esponenti di Italia Viva possano presentare le proposte alternative come “un compromesso” fra la perfezione immacolata del Ddl Zan e la rinuncia ad avere una legge contro l’omotransfobia. No, la realtà è che le proposte alternative, nella misura in cui meglio tutelano la libertà, sono migliori del ddl Zan da qualsiasi punto di vista ci si ponga, eccetto il particolarissimo punto di vista del mondo LGBT, che ha tutto il diritto di difendere e promuovere le sue idee e la sua visione del mondo, ma non ha alcun titolo per imporla a tutti.

Ecco perché mi auguro che, quando proporrà i suoi emendamenti, Renzi la smetta di nascondersi dietro i rischi del voto segreto, che potrebbe affossare “la migliore delle leggi possibili”, e trovi il coraggio per dire forte e chiaro che quel che Italia viva ed altre forze politiche propongono non è un compromesso al ribasso, ma un miglioramento sostanziale del Ddl Zan.

Pubblicato su Il Messaggero del 17 luglio 2021




Ddl Zan, cavallo di Troia del politicamente corretto

Ho cercato di capire come funziona il ddl Zan e, poiché non sono un giurista né sono dotato di un’intelligenza prodigiosa, ho impiegato circa una settimana per ricostruire la ragnatela di norme che esso introduce, spesso modificando leggi precedenti e articoli del codice penale. Sono quindi assai stupito che tante persone, negli studi tv e nelle piazze, siano convinte di possedere delle opinioni su un oggetto che – nella stragrande maggioranza dei casi – semplicemente non conoscono.

La ragione per cui ciò accade è abbastanza semplice: siamo abituati a giudicare le leggi dalle intenzioni dei proponenti, anziché dagli effetti che verosimilmente sono destinate a produrre. E’ un grave errore, perché non è raro che intenzioni ed effetti divergano, tanto è vero che lo studio degli “effetti perversi” e delle “conseguenze non attese” dell’azione è uno dei filoni di studio più fecondi delle scienze sociali.

Nel caso del ddl Zan le intenzioni paiono chiarissime, e sostanzialmente condivisibili: colmare una lacuna della legislazione esistente. La lacuna è che le leggi vigenti (e in particolare la legge Mancino) puniscono con particolare severità alcuni comportamenti motivati da ostilità nei confronti di razze, etnie, nazionalità, religioni, ma si dimenticano altri possibili moventi: sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere, disabilità.

Messa così, come non essere d’accordo? L’unica obiezione che mi sentirei di sollevare è di natura logica: siamo sicuri che allungare la lista delle categorie protette sia la strada giusta?

Si potrebbe osservare, ad esempio, che nella lista del ddl Zan mancano i barboni, spesso oggetto di cieca violenza. E, se uno dei fenomeni che si vogliono colpire è il bullismo giovanile, come non considerare che, nelle classi scolastiche, da sempre la crudeltà dei nostri amati bambini umilia i grassi, i secchioni, gli introversi?

Non mi stupirei che, in futuro, il “legislatore” – questa figura mitica del discorso politico – si decidesse a novellare periodicamente le norme esistenti, aggiungendo di volta in volta, alle categorie da proteggere, nuove e sempre diverse sensibilità offese.

Ma supponiamo, per un attimo, che la moltiplicazione delle categorie sovra-tutelate sia la strada giusta, e che la lista Zan sia completa. E torniamo alla domanda inziale: al di là dei fini dichiarati, sicuramente lodevoli, quali sono gli effetti prevedibili del ddl Zan?

E’ su questi effetti, infatti, che si concentrano le critiche che, non solo da destra, sono state sollevate nei confronti del disegno di legge.

Una prima classe di critiche riguarda il restringimento dell’area della libertà di espressione, determinato non tanto dall’ampliamento delle categorie protette, ma dal fatto che a decidere se la manifestazione di un’idea, di un sentimento, di un’opinione sia o non sia reato, non potrà che essere la sensibilità del singolo giudice. Questo è già un problema oggi, vigente la legge Mancino, ma viene aggravato dall’articolo 4 del ddl Zan (Pluralismo delle idee e libertà delle scelte), secondo cui le idee si possono esprimere “purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Qualcuno può credere che, sul giudizio di “idoneità” di un’idea a determinare il “concreto pericolo” di atti discriminatori, non influiranno pesantemente le idiosincrasie (e le idee politiche) del magistrato chiamato a giudicare?

Ma la classe di critiche più fondata, a mio parere, è quella che osserva che il ddl Zan non si limita ad allargare le tutele di determinate categorie, ma pretende di rieducare ideologicamente i reprobi (articolo 5), intervenire attivamente sui contenuti trasmessi dalla scuola (articolo 7), e persino di legiferare sul linguaggio (articolo 1), fissando e delimitando il significato di parole come sesso biologico, genere, identità di genere, ruolo di genere, orientamento sessuale.

Che simili pretese possano determinare effetti aberranti credo sia evidente a (quasi) tutti. Ne abbiamo avuto un assaggio nelle linee guida gender apparse sul sito dell’Ufficio Scolastico del Lazio, poi precipitosamente ritirate (il titolo esatto era: “Linee guida per le strategie di intervento e promozione del benessere dei bambini e degli adolescenti con varianza di genere).

Questa seconda classe di critiche mette a nudo il vero punto debole del ddl Zan. Che non è di voler assicurare una protezione speciale a determinate categorie finora trascurate (obiettivo sensato, e condiviso anche dal centro-destra) ma di voler imporre alla società nel suo insieme il linguaggio, la visione del mondo e gli obiettivi educativi di una élite politico-culturale. Questo progetto, in forme più innocenti e ridicole, era già in atto negli anni ’80, quando Natalia Ginzburg, dalle colonne della Stampa e dell’Unità – con un coraggio e un anticonformismo che agli intellettuali di oggi difetta – denunciava il velleitarismo e l’ipocrisia del politicamente corretto. Ma nel corso degli ultimi anni ha assunto forme sempre più pervasive, condizionando pesantemente il mondo dell’informazione, della cultura, dello spettacolo, persino dell’economia, con l’effetto – presumibilmente non voluto – di allargare sempre più la frattura fra le parole dell’establishment e il comune sentire dei ceti popolari.

Che sia questo il vero obiettivo del ddl Zan lo prova, in modo secondo me incontrovertibile, una comparazione filologicamente puntuale fra il testo finale (già approvato dalla Camera) e le proposte di legge che l’hanno preceduto, sempre a firma di Alessandro Zan. Se si ha la pazienza di leggere, ad esempio, il disegno di legge del 2013 (primi firmatari Scalfarotto e Zan) o la proposta di legge del 2018 (primi firmatari Zan e Annibali) si può notare, con enorme sorpresa, che tutto ciò che inquieta i critici attuali del ddl Zan semplicemente non c’è. Niente articolo 4 su “Pluralismo delle idee e libertà delle scelte”.  Nessuna pretesa di legiferare sul linguaggio. Nessuna pretesa di intervenire nelle scuole.

Ma c’è di più. Se andiamo alla sostanza, e lasciamo perdere la tecnica giuridica adottata (intervenire su leggi precedenti, o direttamente sul codice penale), scopriamo una cosa molto interessante: le due vecchie proposte Scalfarotto-Zan e soprattutto Zan-Annibali, sono del tutto esenti dalle critiche che oggi vengono rivolte al ddl Zan. E la proposta di legge del centro-destra (prima firmataria Licia Ronzulli) è decisamente più avanzata della proposta Zan-Annibali del 2018, che si era scordata dei disabili.

Dunque la situazione è abbastanza chiara. Fino a un certo punto le principali proposte di legge si sono mosse in una direzione ragionevole, o quantomeno circoscritta all’obiettivo di estendere a nuovi soggetti tutele finora previste per un insieme troppo ristretto di situazioni e di categorie. Poi, non saprei dire perché, i proponenti hanno deciso di strafare, finendo per snaturare gli obiettivi originari. Il ddl Zan, anziché limitarsi a proteggere i deboli, è diventato un cavallo di Troia per imporre a tutti una particolare concezione del bene comune, dell’educazione, e persino degli usi appropriati del linguaggio. Il tutto semplicemente riscrivendo in Commissione Giustizia i testi originari, e senza un dibattito pubblico, come invece è avvenuto in altri paesi.

Il minimo che si dovrebbe pretendere è che delle preoccupazioni dei cittadini (sulla libertà di espressione) e delle inquietudini delle famiglie (per l’educazione dei figli) si discuta apertamente, senza demonizzare nessuno. Perché la posta in gioco è alta, e nessuno ha il monopolio del bene comune.

Pubblicato su Il Messaggero del 22maggio 2021