Faziosità a sinistra, incultura a destra

Come sia finito Tommaso Cerno alla direzione del ‘Tempo’, il quotidiano di Renato Angiolillo e di Vittorio Zincone, resta per me un mistero. Certo un editore  può imporre al foglio di cui è proprietario una nuova linea politica ma la rottura con la tradizione non ha nulla di esaltante per quanti hanno a cuore la continuità col passato e con i valori ai quali per tanti anni si è rimasti fedeli, pur nella consapevolezza che, col mutar dei tempi, le strategie per preservarli e consegnarli alle generazioni future possono e debbono variare. E’ superfluo aggiungere che la continuità che si è apprezza è quella che si accompagna allo ‘stile’, al rispetto degli avversari, alla misura.

 Non voglio essere equivocato,   Tommaso Cerno è un giornalista di sinistra e rimasto tale, che spesso, tuttavia, nei talk show televisivi, ha assunto apprezzabili atteggiamenti anticonformisti e contro-corrente. In un primo momento, avevo pensato, ingenuamente, che forse la sua nomina fosse dovuta alla definitiva entrata dell’ex direttore dell’Espresso nella area politica liberale. Mi ha stupito, pertanto, nel vederlo, la sera del 15 marzo su un canale di Mediaset–il 35–raccontare la marcia su Roma con un linguaggio che sarebbe piaciuto all’Anpi. Il commento al documentario storico, infatti, era scandito da frasi come ‘la marcia dei malfattori’,’i malfattori sfilano..’,i malfattori tornano nelle loro tane provinciali etc.

 Mi sono venute in mente due considerazioni: ma com’è possibile che, a più di un secolo dalla marcia su Roma e dopo le ricerche di Renzo De Felice, “che tanta ala vi stese”, si riguardino le camicie nere come una banda di mascalzoni, violenti e ubriachi? Che Mussolini e i quadrumviri abbiano affossato–ma non nel 1922 bensì nel 1924– l’Italia liberale non ci piove ma ancora adesso ci è così difficile  riconoscere che avevano in mente un progetto politico, un’etica, dei valori, che non sono certo i miei ma che, non pertanto, vanno compresi (anche per evitare il pericolo che la dimenticanza del passato comporti la sua ricomparsa) e analizzati sine ira ac studio? Viviamo ancora nel clima della guerra civile in cui quanti hanno in odio la democrazia liberale —siano rossi o neri—sono da riguardare alla stregua dei delinquenti comuni? Brutto segno questo sprofondare politica e diritto, etica e religione nell’abisso dell’indistinzione indotta dal fanatismo moralistico più ottuso! Quando il nemico diventa un criminale tout court e la sua neutralizzazione una faccenda che riguarda non l’esercito ma la polizia, ci si pone al di fuori  della civiltà liberale, che distingue Al Capone da Adolf Hitler.

La seconda considerazione rinvia alle dolenti note sulla cultura della destra liberale. L’antifascismo ‘senza se e senza ma’ di Cerno non è inferiore a quello di Aldo Cazzullo, per il quale Mussolini è stato solo un delinquente–Mussolini il capobanda. Perché dovremmo vergognarci del fascismo Ed. Mondadori (sic!) s’intitola un suo libro recente—ma colpisce che abbia trovato spazio in una TV come Mediaset nata (anche) all’insegna della lotta al pensiero unico. E’ forse il segno inequivocabile che anche per i dirigenti dell’emittente televisiva creata da Berlusconi a stabilire chi sono gli storici che contano è il circolo mediatico Espresso/Repubblica/Stampa etc.

 In realtà, se a sinistra troviamo, da sempre, una faziosità ideologica degna della Russia stalinista, a destra, trionfa  un’incultura non riscattata da quel pragmatismo che fu una delle grandi virtù del liberalismo di governo. In una Regione di centro-destra come la Liguria, la commemorazione del 25 aprile venne affidata ,l’anno scorso, pensate un po’, a Maurizio Viroli, uno degli storici più settari e dogmatici che abbiano calcato le scene delle patrie lettere, autore di libri che presentano Silvio Berlusconi  come il più grande corrotto e corruttore della Prima Repubblica. Ma c’è di peggio: l’amministrazione di centro-destra del Comune di Genova, ripetutamente sollecitata, ha fatto orecchie da mercante alla proposta di dedicare una strada, un giardino, una piazza, una scuola al più grande sociologo del suo secolo, il genovese Vilfredo Pareto, al più grande giornalista del Novecento, Giovanni Ansaldo, nato all’ombra della Lanterna, a uno dei più importanti registi del Novecento Pietro Germi, nato nella genovesissima Via Ponte Calvi e figlio di un portiere d’albergo. Che le amministrazioni di centro-sinistra non l’abbiano fatto si può capire: Vilfredo Pareto, di cui Mussolini aveva il culto, fu proposto nel 1923 come rappresentante italiano in una importante Commissione della Società delle Nazioni a Ginevra e quindi nominato senatore del Regno; Giovanni Ansaldo, dopo la sua adesione al fascismo, aveva diretto ‘Il Telegrafo’ su designazione dell’amico Galeazzo Ciano e, nel secondo dopoguerra, il liberalconservatore ‘Mattino’ di Napoli; Pietro Germi era ritenuto dagli intellettuali e cineasti del PCI un socialdemocratico, quindi un criptofascista. Figli simili, per la Genova antifascista, erano da dimenticare ma la Genova civile, non dovrebbe rendere omaggio a pensatori, giornalisti e artisti che hanno segnato la storia culturale italiana, pur non dimenticando colpe ed errori che possono aver commesso (non Germi naturalmente)?




Aiuta il progetto ARTICOLO 34 – MERITO E PARI OPPORTUNITA’

L’articolo 34 della Costituzione recita:

La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.

Purtroppo, il sistema di sussidi che enti pubblici e privati erogano agli studenti è ancora ben lungi dal garantire il rispetto dell’articolo 34.

Le borse destinate ai “capaci e meritevoli” ma “privi di mezzi” sono ancora troppo poche (specie nella scuola secondaria superiore), di importo insufficiente, e non sempre in grado di individuare i più capaci e meritevoli.

La Fondazione David Hume sta elaborando un progetto per far sì che, nel giro di alcuni anni, il dettato costituzionale venga pienamente rispettato attraverso un sistema di borse di studio ampio, generoso, e in grado di assicurare anche ai meno abbienti il proseguimento degli studi fino ai gradi più alti.

La promozione del merito, a partire dalla scuola, è uno degli strumenti fondamentali per contrastare le diseguaglianze e favorire le pari opportunità. Ma è anche una via per alzare il livello medio di preparazione degli studenti, con benefici in tutti i campi, dalla cultura alla sanità, dall’economia alla qualità della vita democratica.

Il nostro progetto prevede innanzitutto l’istituzione di un FONDO NAZIONALE DEL MERITO, che permetta ad ogni singola scuola di:

  • Premiare, con un riconoscimento simbolico e una piccola somma in denaro (per esempio 100 euro), le allieve e gli allievi che hanno ottenuto i risultati migliori, indipendentemente dalla condizione economico-sociale della famiglia: le ragazze e i ragazzi che ottengono buoni risultati vanno tutti riconosciuti e valorizzati, perché – con il loro impegno e il loro talento – contribuiscono al benessere e al buon funzionamento dell’intera comunità;
  • Dotare di una significativa borsa di studio (per esempio 12 mila euro l’anno) le premiate e i premiati che provengono da famiglie svantaggiate, e rischiano quindi di interrompere prematuramente gli studi, o intraprendere percorsi inferiori alle loro possibilità, dover lavorare per mantenersi agli studi, con grave perdita per loro stessi e per la collettività.

Il FONDO NAZIONALE DEL MERITO, provvisto di una dotazione iniziale dello Stato centrale, dovrebbe essere aperto ai contributi degli altri enti pubblici e dei privati, in particolare famiglie, imprese, fondazioni bancarie, istituzioni e organizzazioni del terzo settore.

L’ipotesi da cui muoviamo è di iniziare dai ragazzi di 3a media e, ogni anno, estendere il sistema ad una o più leve successive, anche in funzione dell’apporto dei soggetti che vorranno contribuire al “Fondo nazionale del merito”. Più generosi saranno i contributi al Fondo, più rapidamente sarà raggiunto l’obiettivo di assicurare un adeguato sostegno a tutti i “capaci e meritevoli”, come avevano previsto i Padri Costituenti.




Elezioni del 25 settembre: LIBERI DI SCEGLIERE

Elezioni. Manifesto di giuristi e altre personalità della cultura : “Liberi di scegliere. Per una campagna elettorale all’insegna del pluralismo, della pari dignità, della solidarietà politica e della responsabilità”

“Liberi di scegliere”. E’ il titolo del manifesto lanciato da costituzionalisti di diverso orientamento politico per una campagna elettorale all’insegna del pluralismo, della pari dignità, della solidarietà politica e della responsabilità. Un’iniziativa contro la delegittimazione e le campagne denigratorie che purtroppo hanno contraddistinto questa prima fase del confronto elettorale, aperto anche alla adesione di altri accademici e già sottoscritto in poche ore da oltre cento costituzionalisti, giuristi, politologi, sociologi, diplomatici, docenti di diritto e scienza della politica ed altri accademici.

Di seguito il testo dell’appello:

Nei momenti più delicati nella vita di una nazione grava in capo a ciascun componente della comunità il dovere di agire senza mettere in discussione quel minimo comune denominatore, fondato sulla pari dignità sociale dei cittadini, su cui si regge la convivenza politicamente organizzata. La Costituzione italiana evoca questo essenziale principio di condotta già nelle sue prime battute, allorché nell’art. 2 richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, accanto a quelli di solidarietà sociale ed economica. La Carta, inoltre, agli art. 3 e 21, richiama all’osservanza della pari dignità sociale anche nelle manifestazioni del pensiero e delle opinioni e all’art. 49  impone il rispetto del metodo democratico nella competizione tra i partiti.

Tra i fondamenti dell’ordinamento repubblicano vi è certamente il diritto-dovere dei cittadini di scegliere liberamente i propri rappresentanti in Parlamento e il correlato diritto di tutti i partiti politici e dei loro esponenti di competere democraticamente per l’acquisizione del consenso, aspirando al governo del Paese secondo la propria visione dell’interesse generale.

La dialettica democratica, i principi di libertà e rispetto, insieme al richiamato dovere inderogabile di solidarietà politica postulano la reciproca legittimazione dei concorrenti, il ripudio di ogni atteggiamento di contrapposizione radicale, teso a mettere in discussione il diritto di ciascuna forza politica ad aspirare alla guida del Paese con il consenso degli elettori, così come, ancor di più, forme di discriminazione o di screditamento, da qualsiasi parte provengano, fondate sulle caratteristiche fisiche o sulle posture di chi è considerato avversario e, talvolta, addirittura “nemico” politico.

Il dovere di accettare la fisiologia della competizione politica e gli esiti che gli elettori determineranno non grava soltanto sui partiti e sui loro esponenti, ma su tutti i soggetti e le componenti della comunità, che, in ogni democrazia pluralista, contribuiscono ad alimentare il dibattito e ad orientare l’opinione pubblica (stampa, accademia, istituzioni economiche e sociali, etc.)

A maggior ragione nei momenti di grande instabilità economica, sociale e geopolitica come quello che stiamo attraversando – con la necessità di mantenere un saldo impegno corale, insieme agli alleati europei e occidentali, contro gravi minacce da ultimo concretizzatesi con l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia – elementari istanze di responsabilità e di “correttezza costituzionale” impongono il ripudio di ogni atteggiamento discriminatorio o delegittimante, che, prescindendo dalla volontà degli elettori e dal rispetto delle normali dinamiche istituzionali e costituzionali, alimenti contrapposizioni radicali, forme di delegittimazione morale, condizioni di sospetto e inquietudine sociale fondate su congetture, narrazioni prive di riscontri o addirittura vere e proprie “fake news”.

Nell’architettura democratica e pluralista della Carta repubblicana ogni diritto e ogni libertà – compresa la libertà di manifestazione del pensiero e quella di stampa – si declinano in parallelo ai doveri di solidarietà, al principio di responsabilità, di osservanza del metodo democratico e all’esigenza di rispetto della dignità della persona.

Auspichiamo, dunque, che tutti i soggetti convolti nella campagna elettorale appena iniziata, ma anche nel dibattito pubblico a questa connesso, rispettino le istanze del pluralismo e del reciproco rispetto, pur nella legittima e necessaria dialettica tra differenti visioni politiche e culturali, affinché possa svolgersi un confronto chiaro e netto tra idee, programmi, progetti alternativi sui quali gli elettori potranno liberamente esprimersi.

Per sottoscrivere il manifesto: liberidiscegliere2022@gmail.com




Cultura e politica

Una delle cose che più mi stupiscono, quando si approssima una scadenza elettorale (e noi ne abbiamo giusto una in arrivo: le Europee di maggio 2019), è come le solenni promesse dei partiti si concentrino su pochissimi argomenti-chiave, lasciando in ombra tutto il resto. Nelle elezioni del 4 marzo, ad esempio, il 90% del dibattitto politico ha ruotato intorno a quattro soli temi: immigrazione, flat tax, riforma Fornero, sussidi ai poveri variamente denominati (reddito di cittadinanza, di inserimento, di dignità ecc.).

Ma ancor più che la concentrazione su pochi temi, quel che mi stupisce è la completa espulsione dal dibattito politico di determinati temi, che pure in teoria o in altri contesti tutti riconoscono come importantissimi. Uno di questi è l’ambiente, ma meglio sarebbe dire il futuro del pianeta, messo a rischio dai nostri comportamenti quotidiani ma soprattutto dalla latitanza delle istituzioni, ben poco attente a problemi come il riscaldamento globale, i rifiuti, l’inquinamento delle falde acquifere. Un altro è il futuro dei giovani, compromesso dall’aumento del debito pubblico e dalla controriforma delle pensioni. Un altro ancora è la cultura, ovvero il funzionamento di istituzioni e organizzazioni fondamentali come la scuola, l’università, le case editrici, i giornali, la radio, la televisione, i teatri, i musei.

Su questo genere di argomenti il silenzio dei partiti e degli uomini politici è assordante, come se ritenessero che ai cittadini queste cose non importino, e dunque possano essere espulse dal dibattito politico. C’è una differenza, però, fra i primi due temi che ho citato (ambiente e giovani) e il terzo (la cultura). Ed è che, pur stupendomi del disinteresse del mondo politico per questo genere di temi, per i primi due riesco a darmi una spiegazione, per il terzo no. La spiegazione è molto semplice: ambiente e giovani sono problemi del futuro, non dell’oggi, e quindi è normale che la politica, divenuta miope e irresponsabile, non li affronti, o lo faccia in modo puramente ideologico, senza prendere il toro per le corna. Per il terzo tema, l’istruzione e la cultura, la spiegazione invece non c’è. Quel che si fa o non si fa in questo ambito ha conseguenze molto importanti fin da subito, ed è dunque strano che ai politici interessi così poco.

A quali conseguenze mi riferisco?

Se ne potrebbero citare molte, ad esempio si potrebbe ricordare che, secondo diversi studi di tipo empirico, il più importante fattore di crescita del benessere, in occidente, è il capitale culturale, ossia il livello di competenza della forza lavoro. Insieme alle tasse troppo alte e alle pastoie burocratico-giudiziarie, è proprio il basso livello di istruzione il freno fondamentale alla crescita del Pil.

Ma la ragione più importante per cui la politica fa male a non occuparsi della cultura è che la rinuncia a elevare il livello culturale effettivo della popolazione, a partire dalla scuola e dall’università, è un formidabile fattore di diseguaglianza. Si può capire che il tema non appassioni la destra, per cui la diseguaglianza non è il problema fondamentale della nostra società, ma la sinistra? Che cosa fa la sinistra per elevare il livello culturale della popolazione?

Se guardiamo agli ultimi 50 anni di storia, quel che dobbiamo registrare è, purtroppo, che la politica del mondo progressista nei confronti della cultura ha quasi sempre e quasi ovunque avuto due pilastri. Uno è lo sforzo, benemerito, di allargare la platea degli utenti di ogni forma di consumo culturale, dalla lettura dei quotidiani a quella dei libri, dalle notti bianche ai festival. L’altro è l’accettazione, e in alcuni casi la promozione intenzionale e consapevole, di un generale abbassamento degli standard, visto come precondizione per un allargamento della platea degli studenti, nella scuola come nell’Università. E questo abbassamento, se da un lato ha allargato l’utenza (termine orribile, ma che rende bene l’idea di che cosa siano diventate oggi la scuola e l’università), dall’altro ha disarmato completamente i ceti popolari, che avevano nella conquista di una cultura elevata l’unica strada, e l’unica arma, per bilanciare i privilegi dei figli di papà.

Questo fino a ieri. Oggi non c’è neppure questo, perché l’istruzione è uscita dal radar della sinistra, divenuta completamente indifferente ai contenuti culturali, e tutt’al più sensibile ai problemi occupazionali del ceto insegnante (vedi le assunzioni della “buona scuola”, che nulla ha fatto per alzare gli standard).

Da sempre poco interessante per la destra, trattata nel modo sbagliato (perché anti-egualitario) dalla sinistra, la cultura non sembra avviata a un destino glorioso neppure nell’emergente mondo populista. Né potrebbe essere diversamente. Dacché si è teorizzato che “uno vale uno”, dacché esperti e competenti sono stati additati al pubblico disprezzo, dacché chiunque – in televisione o su internet – si sente autorizzato a dire la sua su argomenti su cui non ha la minima cognizione di causa o esperienza, è inevitabile che il mondo della cultura, il suo rafforzamento, la sua difesa dalle contraffazioni, non interessino più la politica.

Ma forse mi sto sbagliando. Forse è vero il contrario. A ben vedere, la cultura alla politica di oggi interessa moltissimo. Anzi la politica non fa altro, 24 ore su 24, che occuparsi di cultura. Solo che il suo scopo, forse consapevole forse no, è semplicemente di rimuovere la cultura dall’orizzonte del discorso pubblico. Perché la cultura è un ostacolo, forse l’unico vero ostacolo rimasto, al dilagare senza freni e senza inibizioni dello spettacolo della politica. Uno spettacolo che i protagonisti preferiscono mettere in scena da soli, e cui il mondo dei media, social e no, fornisce un insperato e durevole palcoscenico. H24.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 09 dicembre 2018



Perché Bach ci può salvare. Storia della pianista internata da Mao

Qualche settimana fa, facendo ordine nella libreria, mi è capitato in mano il famoso Libretto rosso di Mao Zedong. Era la versione in cinese di mio padre, sinologo dilettante. Non ero in grado di leggere neppure un ideogramma, ma improvvisamente mi sono tornati in mente i tanti slogan che rimbombavano nelle orecchie degli adolescenti e dei ragazzi della mia generazione. La rivoluzione non è un pranzo di gala. Colpirne uno, per educarne cento. L’imperialismo è una tigre di carta. Pochi giorni dopo ho iniziato a leggere un libro che mi ha profondamente colpito, Il pianoforte segreto, l’autobiografia di Zhu Xiao-Mei (Bollati Boringhieri, 2018), pianista cinese, famosa le sue interpretazioni delle Variazioni Goldberg di Bach.

Nata nel 1949 da una famiglia «di cattive origini» borghesi, Zhu Xiao-Mei ha iniziato a suonare il piano a sei anni ed è entrata in conservatorio a dieci, carica di luminose attese, non sapendo che solo dopo un anno si sarebbe abbattuta sulla Cina una devastante carestia, conseguenza delle folli scelte economiche e agricole del «grande balzo in avanti» voluto da Mao per incrementare la produzione di acciaio. Scelte che alterarono l’equilibrio naturale dell’ambiente, provocando la morte di decine di milioni di persone, oltre allo sterminio di quasi tutti gli uccelli, rei di essere dei parassiti borghesi. Un disastro epocale che spinse Mao, messo da parte dalle leve del potere dallo stesso suo partito, a rivolgersi direttamente alle masse invitandole a portare avanti una Rivoluzione culturale dal basso: una chiamata alle armi diretta soprattutto ai giovani e giovanissimi destinata a far cambiare per sempre la mentalità al popolo cinese, estirpando alla radice, distruggendo e nullificando tutte le tradizioni che lo avevano guidato fino ad allora con lo scopo finale di instaurare finalmente la giustizia e la felicità in Cina e nel mondo. La stessa Zhu Xiao-Mei viene travolta da questa ondata rivoluzionaria che, passando da Mozart a Mao, trasforma il Conservatorio di Pechino in un luogo di delazioni e di vendette, di terrore e di umiliazioni. Dopo essere caduta in disgrazia per una battuta scherzosa, la giovane promessa del piano sarà costretta a fare autocritica, diventando poi una convinta sostenitrice di Mao, pronta a calpestare, in nome della rivoluzione, gli affetti più importanti e a denunciare i suoi stessi maestri.

Zhu Xiao-Mei ha voluto scrivere questa spietata e dolorosa confessione soprattutto per fare ammenda del dolore causato, per non essere riuscita a salvarsi dal plagio collettivo. «La Rivoluzione culturale mi ha sporcata — scrive —, mi ha reso complice. A un certo punto ha persino ucciso in me ogni senso morale». Assistiamo, pagina dopo pagina, al divampare della follia collettiva: dal rogo compiuto di tutti gli lp e gli spartiti borghesi, alle violenze e alle uccisioni dei docenti, fino alla chiusura dello stesso conservatorio. La seguiamo passo dopo passo nella disumanità e nell’abbrutimento dei cinque lunghi anni in diversi campi di lavoro, in cui Xiao-Mei sfiora la disperazione totale, fino al giorno in cui, rischiando il tutto per tutto, riesce a farsi spedire dalla madre il vecchio pianoforte camuffato da credenza, privo di molte corde ma comunque capace di far rinascere nel suo cuore l’amore per la bellezza e l’armonia. Ai guardiani dice che le serve per suonare gli Yan Bang Xi, i motivi scritti appositamente per la rivoluzione cinese invece, fidando nelle loro ignoranza, si immerge nelle eterne note di Bach e di Chopin. Solo nel 1980 riuscirà a lasciare la Cina per Hong Kong e poi per gli Stati Uniti, dove, prima di riprendere gli studi di pianoforte, sopravviverà per parecchio tempo facendo la colf. Ora vive a Parigi ed è considerata una delle più grandi interpreti di Bach. Suona con gli occhi chiusi, le piccole mani che sfiorano i tasti con il distacco e l’intensità delle più alte forme di meditazione.

Quando ho terminato il libro, la prima cosa che ho pensato è che andrebbe letto nelle scuole; la seconda è che, pur parlando della Cina della rivoluzione maoista, in realtà è un libro che parla anche del grande rischio dei nostri tempi. Quando all’orizzonte ricompare l’idea della giovinezza come valore in sé, quando troppo spesso nel discorso pubblico ritornano le parole «giustizia», «popolo» «felicità» come valori assoluti, quando questa battaglia porta con sé il mito della «sincerità» come virtù edificante, dell’aggressività diffusa come arma di dissuasione, quando viene preso come paradigma assoluto la vita concreta, pratica, ignorando tutto ciò che costituisce la complessità e la ricchezza dell’essere umano, si entra in un tunnel in cui dall’altra parte non c’è il paradiso in terra ma un mondo di desolazione e di appiattimento. Relegando l’uomo alla sola dimensione materiale, ridicolizzando tutto ciò che non appartiene al mondo degli istinti primari, deridendo ogni forma di pensiero complesso e di espressione artistica, considerati appannaggio di un’élite di privilegiati, emerge l’animalità, e l’animalità prospera sotto una legge molto semplice, quella della sopravvivenza del più forte.

L’irruzione della tecnologia nella nostra vita ha portato innumerevoli benefici e altri probabilmente continuerà a portarci, ha però reso i pensieri di tutti più epidermici, privi di profondità, ha ridotto i sentimenti per lo più a un’esagitazione viscerale, senza più il controllo della mente. L’assenza di silenzio e solitudine fa il resto. Così si finisce sempre per accontentarci della prima risposta e si è grati a chi ce ne fornisce una dietro alla quale correre senza esitazione.

Per chi crede ancora che nell’umano ci sia qualcosa che non sarà mai assimilabile alla pura tecnologia, questi tempi di slogan assertivi fanno davvero paura. Pensando proprio al libro di Zhu Xiao-Mei possiamo trovare il coraggio di dire che l’assenza di cultura è una delle più grandi forme di povertà. Essere poveri di parole, di pensieri e di sentimenti vuol dire essere poveri nelle proprie relazioni e nella comprensione della realtà. La storia della pianista cinese dimostra con esemplare chiarezza che la storia ci può privare di tutto, della nostra cultura, della libertà, della dignità, spingendoci a vivere al limite dell’umano, ma non può spegnere l’anelito alla bellezza che è nascosto in ogni persona che abbia la forza d’animo di seguire la voce della propria coscienza. Primo Levi è sopravvissuto ad Auschwitz grazie anche alle poesie imparate a memoria, Zhu Xiao-Mei non si è fatta sopraffare dalla bestialità dei campi di lavoro grazie alla musica di Chopin e a Bach che continuava a risuonare dentro di lei. Nell’opacità di questi tempi forse è bene ricordare che solo l’arte e il riverbero della bellezza riescono a illuminare i momenti più bui della storia.

Articolo pubblicato da Il Corriere della Sera il 05 novembre 2018