Diversamente di sinistra ?

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo interessante testo di Cristina Cona.

Leggendo l’articolo di Luca Ricolfi  “Bandiere ammainate” mi si sono riaffacciati alla mente certi interrogativi sul ruolo che le varie forze in campo (politiche, culturali ed economiche) hanno svolto e continuano a svolgere nel diffondersi del politicamente corretto, nonché sulla coerenza, o viceversa incongruità, di certe scelte ideologiche.

Prendiamo ad esempio il modo in cui, ormai da anni, la sinistra non solo si beve acriticamente ogni sorta di teorie “woke”, ma si sforza anche di dare a queste ultime realizzazione concreta sul piano didattico, giuridico, penale. Queste prese di posizione non possono non lasciare perplessi, e ciò per un certo numero di ragioni.

Innanzitutto si tratta di dottrine e pratiche che si sono per lo più irradiate dagli Stati Uniti d’America: sì, proprio da quel paese che da decenni la sinistra considera come l’impero del male e la cui egemonia politica, economica e militare non ha mai smesso di denunciare e combattere. Ma allora: non le è mai venuto in mente che difficilmente un’egemonia così pervasiva sul piano strutturale può risparmiare quello sovrastrutturale? Che quando si parla di imperialismo USA bisogna fare i conti anche sui suoi risvolti culturali? Che, in altri termini, lungi dal rappresentare un’autentica opposizione alla tanto disprezzata America neocapitalista, la cultura “woke” ne sia espressione tanto quanto il modello economico, le multinazionali e le basi NATO, e che la scelta di accodarsi ad ogni sua manifestazione sia di fatto uno dei tanti aspetti della nostra sudditanza?

Anche perché un’occhiata anche rapida ai fatti di cronaca internazionale ci mostra come questa cultura sia stata abbracciata con un entusiasmo decisamente sospetto proprio dal grande capitale e dagli organi di stampa che possono essere considerati suoi portavoce, come certi grandi quotidiani prediletti dalle fasce sociali garantite dei paesi avanzati e le pubblicazioni a carattere finanziario. Un pubblico non certo proletario, insomma. Di fronte allo zelo con il quale certe grandi imprese modificano il linguaggio, gli slogan e le immagini da utilizzare a fini pubblicitari in funzione dei (veri o presunti) desiderata di gruppi ritenuti oppressi e vulnerabili (si pensi alla frenesia con la quale l’establishment hollywoodiano si sforza ad ogni pie’ sospinto di “abbracciare la diversità”), è lecito chiedersi quali interessi vengano serviti da queste genuflessioni alla moda “progressista” del momento.

Mi sembra comunque un fatto che, al di là del desiderio di conquistarsi un sempre più vasto numero di clienti e non farsi nemici tra quelli già acquisiti (anche se, ripeto, sussiste il dubbio che questo timore sia spesso più immaginario che reale), queste strategie non siano soltanto, soggettivamente, a finalità commerciale, ma risultino, oggettivamente, del tutto funzionali agli interessi del neocapitalismo, di quella che definirei “l’economia di supermercato”: un mondo dominato dal consumismo ben al di là degli aspetti puramente economici, in cui la vita umana nel suo insieme è vista, per l’appunto, come un gigantesco supermercato in cui ciascuno può scegliere tutto e il contrario di tutto, seguire cioè ogni suo capriccio, usare i rapporti umani, le scelte affettive, come se fossero giocattoli da buttare via quando non interessano più; non solo, ma pretendere di mettere a tacere qualsiasi opinione con la quale non è d’accordo, “cancellare” tutto ciò che sul momento gli può causare il minimo disagio … E’ davvero questo supermercato planetario infantilizzato il mondo al quale la sinistra intende dare il suo contributo? Non ha mai pensato che sotto questo manto falsamente progressista si rivela tutta la sua nudità?

Senza contare, poi, che la cultura “woke” sta regalando ai padroni del vapore un metodo quanto mai efficace di dividere i loro soggetti, attizzando fra loro perenne inimicizia e diffidenza. Alla sinistra (o almeno a quella parte di essa che ancora presta attenzione alle diseguaglianze sociali e al mondo del lavoro) vorrei chiedere: come immaginate di potere, in futuro, organizzare una protesta, un corteo, un’azione a carattere sindacale quando i lavoratori saranno già da tempo autoconfinati in gruppi distinti, contrapposti, talvolta ostili o ad ogni modo restii a collaborare per il bene comune (se pure questo concetto esisterà ancora …) e il risentimento reciproco avrà sostituito la solidarietà? In cui ovunque, ma soprattutto sul luogo di lavoro, la gente avrà smesso di esprimersi e di comunicare perché timorosa di offendere una delle tante categorie oppresse? Non si tratta di un’esagerazione: nei paesi soprattutto del mondo anglofono si afferma sempre più la tendenza, particolarmente marcata nelle scuole e nelle università, a richiudersi nella propria conventicola etnica, di genere, di orientamento sessuale, e vigilare su tutto quanto di dice e si fa, onde evitare guai anche gravi. Di questo autoisolamento ci si potrà forse rammaricare, ma è in fondo una scelta logica: se un uomo, un bianco, un eterosessuale, un non-trans (o “cis”) azzarda un commento o un gesto fino a poco fa considerato del tutto innocente, ma che oggi la cultura PC giudica alla stregua di un peccato mortale, e viene accusato di comportamenti discriminatori (con conseguenti ripercussioni sul piano lavorativo e anche sociale), la conclusione che ne trarrà, e che ne trarranno anche molti suoi colleghi, sarà che è meglio non avere che contatti minimi con quell’altro gruppo o gruppi, stare zitti e badare agli affari propri. E se c’è da unirsi per uno sciopero o una protesta: “chi me lo fa fare?”: tanto ci è stato spiegato che fra “noi” e “loro” non vi è alcuna comunanza di interessi … “Divide et impera”, dunque.

Un altro aspetto da non sottovalutare: lungi dal combattere efficacemente il sessismo, l’omo(trans)fobia, il razzismo, la censura e la minaccia di sanzioni non fanno che incoraggiare questi fenomeni. Se un’opinione è ritenuta sbagliata, il peggio che si possa fare è metterla fuori legge e costringerla alla clandestinità, perché in tal modo non verrà mai contestata e spinta a giustificarsi. Se una persona esprime in mia presenza un parere a mio giudizio errato, per non dire offensivo, posso rispondere “No, guarda che sbagli, e ti spiego perché …”, e magari in tal modo potrei indurre un ripensamento, ma se quella persona non mi conosce, non si fida di me e teme di venire denunciata se dice quello che pensa, le sue opinioni se le terrà per se e per i pochi amici che le condividono. Viene così a crearsi uno spazio autoreferenziale in cui non entra mai aria fresca e i discorsi fatti sempre e soltanto all’interno della propria cerchia rischiano di sfociare in posizioni ancora più estreme, alimentate fra l’altro dal rancore verso quei gruppi visti come privilegiati e immuni da ogni critica.

Rinuncia ormai esplicita alla difesa della libertà d’espressione, subordinazione acritica ai diktat ideologici del neocapitalismo, pseudoegualitarismo astratto e autoritario cui viene accordata la precedenza rispetto alla lotta al disagio sociale ed economico di vaste fasce di popolazione: sì, parliamo pure di bandiere ammainate. O magari, prendendo a prestito una delle formule più diffuse del gergo politicamente corretto, potremmo dire: diversamente di sinistra.