Il Csm, la sovranità popolare e la rule of law

Siete mai riusciti a spiegare ai vostri figli, quando studiano educazione civica alle medie, in che cosa consiste esattamente il principio costituzionale della separazione dei poteri dello Stato? Che cosa vuol dire, ad esempio, che il Governo, il potere esecutivo, “esegue” le leggi? E poi, se – com’è naturale – la sovranità appartiene al popolo, che si esprime tramite le elezioni ed elegge i propri rappresentanti in Parlamento, com’è possibile che i giudici, il potere giudiziario, tragga la propria legittimazione in maniera autonoma e svincolata dalla sovranità popolare?

Se le cose non si riescono a spiegare probabilmente è perché non sono chiare.

Ed infatti, ci sono fondamentalmente due modi di intendere la cd. dottrina della separazione dei poteri.

La prima è quella che riconosce come opportuno e saggio – per prevenire abusi e derive autoritarie – che il potere politico sia sottoposto a reciproci condizionamenti.

Si tratta di considerazioni di carattere antropologico ancor prima che di ordine politico e tecnico-giuridico, diffuse già a partire dalla Grecia classica (Platone aveva teorizzato la necessità di forme di indipendenza dei giudici). Sono temi poi ripresi dalla tradizione anglosassone, dalla Magna Charta alla Gloriosa rivoluzione inglese e a John Locke, fino ai checks and balances dell’esperienza costituzionale statunitense; insomma, parliamo del fondamento stesso degli ordinamenti liberali occidentali.

Altra cosa è la sclerotizzazione del principio della separazione dei poteri, tradizionalmente fatto risalire all’opera di Montesquieu e al suo Spirito delle leggi e alla Rivoluzione francese.

Ed infatti, se anche per Montesquieu il potere giudiziario sarebbe concettualmente neutro (i giudici intesi come “bocca della legge”), in realtà fin da subito si assiste negli ordinamenti continentali ad una sorta di autolegittimazione da parte della classe giudiziaria – in origine costituita dai nobili – di fatto contrapposta al corpo elettorale e ai suoi organismi rappresentativi.

Il fenomeno è abbastanza stupefacente e, almeno nel dibattito italiano, non sufficientemente – se non per nulla – analizzato.

Tornando ai manuali di educazione civica su cui studia mia figlia alle medie, i tre poteri costituzionali, legislativo, esecutivo e giudiziario, sono – si dice – pariordinati e reciprocamente autonomi. Ma come ciò si concili con la generale affermazione (art. 1 cost.) secondo cui la sovranità appartiene al popolo non è dato sapere.

Non così succede, invece, nell’ordinamento britannico, dove è fondamentale la cd. rule of law, intesa come assoluta prevalenza della legge, del diritto comune, del parlamento, della volontà del corpo elettorale espressa mediante libere elezioni, rispetto ad ogni altro potere costituito, corpo amministrativo e giudiziario. Ciò è tanto vero che da quelle parti, pur essendo avvertita la necessità di contenere e contemperare i pubblici poteri (i famosi checks and balances), la dottrina della necessità costituzionale della separazione dei poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario – ritenuta immanente negli ordinamenti continentali, è sostanzialmente sconosciuta.

Per intenderci, in Inghilterra i giudici (storicamente distinti dalla pubblica accusa) sono tradizionalmente nominati da parte del Lord Cancelliere tra i migliori avvocati del regno, e non esiste qualcosa di comparabile alla classe giudiziaria come la conosciamo ad esempio in Italia con organi di autogoverno e rappresentanze sindacali.

E non è un caso che il sistema britannico non conosca neppure un sindacato di legittimità costituzionale operato da un organo giudiziario, che rappresenta invece la normalità nell’Europa continentale. Insomma, la volontà popolare, che si esprime tramite i propri organi rappresentativi, non è messa sotto tutela da un organismo giudiziario, a cui spetta di dire se un tale provvedimento legislativo è costituzionalmente legittimo, ovvero – in soldoni – se è giusto o meno.

Allo stesso modo, in America i giudici e i magistrati o sono eletti dal popolo o sono nominati dal presidente federale eletto. C’è sempre una relazione tra la politica e la loro scelta.

Che cosa c’entra tutta questa pappardella con le vicissitudini del Consiglio Superiore della Magistratura di queste ultimi tempi? Beh, se si parte dalla premessa che il potere giudiziario in Italia – seppur privo di ogni forma di legittimazione ed investitura popolare – è potere del tutto autonomo, in particolare da quello politico e legislativo, è evidente come per giustificare le decisioni assunte dall’organo di autogoverno dei giudici bisogna far riferimento a forze tradizionalmente fuori dagli abituali settori di indagine del diritto costituzionale quali lo spirito santo e la cicogna.

Invece, come si dovrebbe sapere, il potere terzo ed autonomo è un po’ come lo sporco impossibile: non esiste.

Sarebbe forse il momento di provare a dire anche da noi che una collettività, una comunità si governa ed amministra – anche per quanto riguarda le decisioni riguardanti la nomina dei giudici – attraverso la proiezione di comportamenti, interessi e valori sufficientemente condivisi che trovano rappresentanza e sintesi attraverso la formazione e selezione di una classe politica, tramite elezioni ed organismi rappresentativi: è, appunto, la rule of law, intesa come prevalenza della legge, del parlamento, della volontà del corpo elettorale espressa mediante libere elezioni, rispetto ad ogni altro potere costituito, corpo amministrativo e giudiziario.

Scorciatoie – al di fuori di derive corporative e di condizionamenti opachi – non ce ne sono.