Un crollo dei crimini? E quale è la causa?

Il Governo italiano, nel maggio 2019, ha diffuso dati che mostrano una forte diminuzione dei crimini registrati nel primo trimestre 2019 rispetto a quelli registrati nel trimestre corrispondente dell’anno precedente, ossia prima della entrata in servizio dell’attuale Governo. La notizia ha suscitato vivo interesse. Si tratta certamente di una diminuzione di notevole ampiezza: i reati diminuiscono nel complesso del 15%, e il calo è generalizzato; diminuiscono gli omicidi, già peraltro in calo negli ultimi anni, i furti (15%), le rapine (21%), le lesioni dolose (22%), i reati di droga (10%); ancora più vasto il calo dei reati di violenza sessuale ( 32%), di ricettazione e contrabbando. Solo gli incendi dolosi sembrano contraddire la tendenza alla riduzione.

Si può senza dubbio esprimere un apprezzamento per la proclamata intenzione del Governo di impegnarsi in modo incisivo nell’azione di contrasto nei confronti del crimine e più in generale dell’illegalità. Crimine e illegalità sono contrari agli interessi di tutti i cittadini che rispettano le regole della convivenza civile, e, paradossalmente, anche contrari agli interessi di coloro che commettono crimini, nella misura in cui essi possono essere le vittime del crimine, piuttosto che gli autori: non per nulla, i ladri sono recisamente ostili al furto, quando si scoprono derubati; i violentatori, ostili alla violenza, quando la subiscono. La sicurezza generale è in effetti la ragione per la quale gli individui rinunciano ad una parte delle loro libertà a favore dello Stato e concedono a questo ultimo una posizione di superiorità rispetto a se stessi. E, in definitiva, se lo Stato non assicura la sicurezza, la sua stessa ragione di esistere viene a cadere e, insieme, viene a cadere la ragione di esistere dei politici.

L’interesse mostrato nei confronti dei recenti dati sull’andamento della criminalità è pertanto del tutto giustificato. La pubblicazione dei dati in questione ha comunque suscitato anche accese polemiche: polemiche peraltro tendenzialmente più centrate su posizioni preconcette, a favore o contro il Governo, piuttosto che su analisi più oggettive. È difficile del resto produrre analisi oggettive quando le informazioni fornite dalle istituzioni pubbliche italiane sulla sicurezza e il controllo sociale sono da molti anni caratterizzate da ritardi e lacune, tanto che la distanza rispetto a quanto fatto negli altri Paesi avanzati è divenuta sempre più grande.

Le ragioni di questa situazione sono almeno duplici. Da una parte, esse attengono ad una concezione strutturalmente illiberale dello Stato italiano, che si è interessato alla sicurezza soprattutto nella misura in cui questo aspetto ha riguardato il Palazzo del potere. Da questo, tutta una serie di conseguenze coerenti con quanto precede: dalla noncuranza, da parte dello Stato, per il problema prioritario del controllo del territorio, all’abbandono di vaste regioni periferiche nelle mani della criminalità organizzata, all’uso di auto blu che si muovono sulle strade italiane con modalità confacenti a una forza di occupazione straniera, al disinteresse abitualmente mostrato dallo Stato italiano nei confronti dei comuni cittadini vittime di crimini, e, non ultimo, al fatto che le istituzioni hanno considerato finora come tutt’altro che prioritario informare i cittadini su come i soldi delle tasse sono spesi per assicurare loro il fondamentale requisito della sicurezza. In secondo luogo, le ragioni di questa situazione attengono alla diffusione di una concezione che ha integralmente contestato non solo la natura oggettiva e universale del crimine comune ma anche la validità di qualsivoglia misura della criminalità. Questa concezione, frutto di un radicalismo antiscientifico di matrice neomarxista, sviluppatasi negli anni 1960 e sopravvissuta in Italia malgrado la implosione del modello politico-economico del socialismo reale, ha considerato il crimine come una costruzione sociale del potere capitalistico e, conseguentemente, le stesse misure del crimine come un mero sottoprodotto di tale potere. Tutto ciò con scarsa considerazione per alcuni fatti basilari. In primo luogo, il fatto che, come aveva già intuito Giambattista Vico prima della metà del ’700, vi è una comune natura delle nazioni, originata dal fatto che esse sono tutte accomunate dall’essere società umane: cosicché, esse non solo hanno, tutte, una forma di religione, contraggono matrimoni solenni, e seppelliscono i loro morti – come dice Vico – ma puniscono anche, tutte, gli omicidi e le violenze, i furti e le rapine. In secondo luogo, il fatto che la grandissima parte delle notizie sui crimini commessi deriva dalle denunce da parte dei comuni cittadini, vittime dei criminali, e non dalle cosiddette agenzie del controllo sociale (magistratura e forze dell’ordine), alle quali i fautori della costruzione sociale del crimine attribuiscono una arbitraria selezione, e dei crimini commessi, e dei loro autori.

Tra Scilla e Cariddi, ossia tra la tradizione illiberale dello Stato italiano e il radicalismo antiscientifico, lo spazio per la misura e l’analisi della criminalità – premessa per qualsiasi più efficace politica di contrasto – non poteva che uscirne pregiudicato. Gli esempi di tutto ciò sono numerosi e non difficili da rinvenire.

Per quanto riguarda il Ministero della Giustizia, il suo sito on-line è ricco di informazioni sul Ministro, i Sotto-Segretari e i vari concorsi per il personale del ministero; per avere informazioni sulla giustizia – che, ingenuamente, si presumerebbe essere l’interesse principale del Ministero della Giustizia – si deve faticare di più, e infine si scopre che, al momento in cui scriviamo, maggio 2019, i dati più recenti sulla attività delle procure e dei tribunali risalgono al 2012 e in molti casi ad anni ancora precedenti. Se vogliamo avere informazioni sulla giustizia meno obsolete, dobbiamo rivolgersi al sito dell’Istat, dove comunque i dati sulla giustizia si fermano al 2016, e le informazioni sono comunque lacunose. Mancano del tutto, ad esempio, le informazioni sulle caratteristiche dei soggetti imputati – ossia i soggetti per i quali le procure hanno deciso la continuazione dell’azione penale –, mancano perfino le informazioni su aspetti intorno ai quali vi è oggi un acceso dibattito, anche politico, come la nazionalità straniera di imputati e condannati.

Le informazioni sulla criminalità che discendono dall’attività del Ministero dell’Interno sono anche esse limitate. In effetti, la fonte migliore di informazioni anche per quanto riguarda l’azione di contrasto alla criminalità da parte delle forze di polizia – e quindi anche del Ministero dell’Interno – è l’Istat, nel cui sito troviamo, con maggiore dettaglio, dati sulle denunce penali; ma anche qui ci fermiamo al 2017. Sul sito on-line del Ministero dell’Interno, dopo le usuali, ampie informazioni sulle strutture interne e i personaggi che ne sono alla guida, vi è una promettente sezione intitolata “Territorio”: ma, dove ci aspetteremmo di trovare una descrizione della situazione riguardante l’azione dello Stato per assicurare la legalità sul territorio – e magari qualche considerazione autocritica sugli evidenti insuccessi in varie parti del Paese – troviamo notizie sui movimenti dei prefetti. La sezione “Sicurezza” contiene molti importanti argomenti, da “Lotta alle mafie” a “Vittime del dovere”, ma per ciascuno di essi vi sono solo poche righe e, sostanzialmente, nessun dato. Per avere migliori informazioni si deve andare altrove – sezione “Dati e statistiche” – dove tuttavia possiamo avere solo la Relazione al Parlamento sulle attività delle Forze di Polizia etc. Questa ultima ha carattere sommario e si ferma per giunta al 2017, non permettendo quindi né di confermare né di contestare la bontà delle cifre fornite recentemente dal Ministero dell’Interno, dal momento che queste cifre si basano su una comparazione tra i dati sulla criminalità più recenti e quelli del primo trimestre 2018. Ancora meno aggiornati i dati – in altra sezione – riguardanti delitti e persone denunciate, per i quali ci si ferma al 2016. I dati in questione, così come quelli delle procure e dei tribunali, sono del resto sempre annuali, e non si è provveduto sinora ad organizzare la presentazione di dati trimestrali: questi ultimi sarebbero di grande utilità per il monitoraggio continuo della situazione della sicurezza, e permetterebbero anche, incidentalmente, di meglio valutare quella riduzione dei crimini nel primo trimestre del 2019 su cui oggi si discute. In conclusione, anche per quanto riguarda il Ministero dell’Interno, poche, limitate e non-aggiornate informazioni: e se qualcuno avesse dubbi su quanto potrebbe e dovrebbe essere fatto, consigliamo di visitare il sito dell’Home Office del Regno Unito (che corrisponde al Ministero dell’Interno italiano), dove – mentre scriviamo – è possibile consultare 630 rapporti statistici sulle attività dell’Home Office in materia di sicurezza e criminalità (https://www.gov.uk/government/statistics?departments%5B%5D=home-office&parent=home-office).

Le carenze peggiori sono comunque altre: il distacco più significativo rispetto ad altri Paesi avanzati si riscontra nella mancata raccolta di dati micro (ossia individuali) in materia di criminalità e controllo sociale. L’Italia è l’unico tra i Paesi avanzati – o meglio tra quelli che si ritengono tali – a non avere mai condotto una indagine sistematica sul recidivismo, malgrado la estrema rilevanza del tema e i solleciti fatti in proposito, anche da chi scrive. Cosicché in Italia non è stato mai possibile, né per le istituzioni né per gli esperti della materia, avviare una riflessione oggettivamente fondata sulla efficacia delle pene, sui risultati delle misure alternative alla detenzione, sui percorsi criminali dei delinquenti abituali e di quelli professionali, sulle probabilità di commettere nuovi reati per i pedofili e gli stalkers, gli sfruttatori di prostituzione e gli autori di violenze sessuali, per limitarci a qualche esempio soltanto.

Parallelamente, il Servizio Sociale del Ministero della Giustizia non ha provveduto ad organizzare una raccolta sistematica a livello nazionale delle caratteristiche e dei problemi dei condannati e degli ex-detenuti trattati dagli operatori del Servizio, e dell’esito del trattamento a distanza di tempo. La situazione del settore minorile, a sua volta, è da sempre caratterizzata da grande carenza di informazioni, forse anche per un malinteso senso della privacy. Pertanto non è possibile in Italia indagare aspetti fondamentali per quanto riguarda la devianza minorile, come, per limitarci ad un esempio, il rapporto tra percorso scolastico, abbandono precoce della scuola e devianza, per il semplice fatto che le istituzioni non hanno provveduto ad una raccolta sistematica e continua nel tempo di queste informazioni. Informazioni, cioè, necessarie a qualsivoglia politica di prevenzione della devianza e criminalità minorili. E, sempre in materia di prevenzione, appare stupefacente che le istituzioni non si sono mai preoccupate di organizzare, accanto alle specifiche politiche assistenziali a favore di gruppi marginali, come i nomadi, anche una raccolta sistematica di informazioni sulle loro condizioni sociali e culturali. Cosicché si può tranquillamente continuare a discutere inutilmente sulla loro presunta malintegrazione e propensione alla criminalità, mancando qualsiasi oggettiva informazione sulla realtà dei fatti.

Alla luce di tutto ciò, non deve stupire che la politica del controllo sociale e della sicurezza è stata portata avanti in Italia all’insegna della gestione del quotidiano piuttosto che della programmazione di lungo periodo; le riforme eventualmente adottate non hanno mai potuto poggiare su una sistematica e continua produzione di informazioni quantitative; e non è stato possibile analizzare gli esiti delle riforme per le medesime ragioni, ossia per la mancata predisposizione di dati che potessero essere utili ad una successiva comparazione rispetto ai risultati ottenuti.

Queste premesse dovrebbero dare un’idea di quanto sia difficile una valutazione sul calo nei crimini commessi – o meglio, denunciati – in Italia, che è stato l’oggetto del comunicato stampa del Ministero dell’Interno del 5 maggio 2019. Al tempo stesso, è anche certo che il periodo cui si riferisce la diminuzione dei crimini è contenuto (un trimestre), e pertanto è presto per concludere che si tratta di una svolta nella lotta alla criminalità. Del resto, le istituzioni italiane – come già rilevato – non rendono pubbliche le serie storiche dei dati trimestrali della criminalità: e questo implica l’impossibilità di un’analisi più approfondita.

Al di là di quanto appena detto, i dati pubblicati suscitano interrogativi per quanto riguarda le possibili cause del brusco calo dei crimini. Possiamo utilizzare come punto di partenza per l’individuazione di queste possibili cause lo schema di tipo economico (costi contro benefici del crimine, dal punto di vista di un individuo tentato dall’idea di violare le norme del codice penale), introdotto a suo tempo da Cesare Beccaria. Uno studioso – detto incidentalmente – che il mondo invidia all’Italia e che questa ultima sostanzialmente ignora per quanto riguarda la politica di contrasto alla criminalità, mentre in altri Paesi, e specialmente negli Stati Uniti, la sua eredità intellettuale è alla base di importanti correnti di pensiero nel campo della criminologia, come la economic rational choice theory. Ora, lo schema interpretativo di cui siamo debitori a Beccaria suggerisce che una diminuzione effettiva del numero dei delitti può essere ottenuta tramite un aumento della certezza del diritto (e della pena), o (subordinatamente) un aumento della pena, a parità di certezza del diritto.

Possiamo cominciare prendendo in considerazione l’ipotesi che la diminuzione dei delitti annunciata dal Governo sia avvenuta a causa di un aumento della certezza del diritto e quindi della pena. Questo aumento della certezza potrebbe in linea di principio avere riguardato il lato magistratura, e lo spazio disponibile sembrerebbe essere amplissimo, dal momento che le organizzazioni internazionali che si occupano di valutare la certezza del diritto (World Bank: Governance Indicators 2017; Rule of Law) collocano il sistema della giustizia italiano al 79mo posto tra quelli di tutti i Paesi del mondo, e più precisamente tra la Repubblica della Georgia e il Regno di Tonga. Un risultato, questo, di cui Governo e istituzioni di un Paese che si vanta spesso di essere la patria del diritto, oltre che di Cesare Beccaria, non sembra si siano mai interessati, e che del resto è costantemente ignorato anche dalle principali fonti di informazioni. Tuttavia, non si ha notizia di un aumento della certezza nel sistema della giustizia penale italiana, e le rilevazioni statistiche internazionali non indicano che vi sia in atto un miglioramento del quadro.

L’aumento della certezza potrebbe però essere stato ottenuto dal lato forze dell’ordine, piuttosto che da quello della magistratura. Potremmo infatti immaginare che la diminuzione dei delitti sia avvenuta in conseguenza di un aumento del numero dei delitti denunciati dalle forze dell’ordine rispetto al numero dei delitti commessi, e che questo abbia avuto un effetto deterrente, anche quando la denuncia di un delitto non ha implicato l’identificazione del suo autore. Questo ragionamento urta però contro due generi di considerazioni. La prima – di massima rilevanza e peraltro ignorata dai più – riguarda l’origine delle denunce. Come già accennato, queste ultime discendono in grandissima parte dalla iniziativa delle vittime dei delitti, e il ruolo delle forze dell’ordine si limita a registrare queste denunce. Se, ad esempio, le violenze sessuali non fossero denunciate dalle vittime, il numero dei casi conosciuti sarebbe irrisorio. Pertanto, è difficile immaginare che la riduzione nel numero delle violenze sessuali sia avvenuta per effetto di una maggiore impegno delle forze dell’ordine nel denunciare questi delitti. E quanto detto per le violenze vale per molti altri delitti. Le forze dell’ordine giocano un ruolo più incisivo solo nelle denunce riguardanti alcune fattispecie ben specifiche: i delitti cosiddetti senza vittima, come in particolare i reati di droga; i delitti in cui la prima vittima è lo Stato, come ad esempio i reati di terrorismo; e pochi altri delitti, come la ricettazione, in cui la vittima è piuttosto remota rispetto all’evento delittuoso, e pertanto ignara di esso. Per tutti questi delitti, comunque, sembra evidente che un maggiore impegno delle forze dell’ordine nello scoprire i delitti in questione comporterebbe innanzitutto un aumento delle denunce e di conseguenza un aumento dei delitti registrati, e non già una loro diminuzione, come invece sembrerebbe essere avvenuto. Solo a distanza di tempo ci aspetteremmo una certa diminuzione dei delitti, come conseguenza dell’effetto deterrente del maggiore impegno delle forze dell’ordine.

Si deve comunque notare che la diminuzione dei delitti potrebbe essere stata determinata non tanto da un iniziale aumento delle denunce penali e del parallelo effetto deterrente, bensì da una riduzione del numero dei delitti attribuiti ad ignoti. In altre parole, avremmo una riduzione dei delitti come conseguenza della maggiore deterrenza associata con un maggiore rischio, per l’autore di crimini, di essere identificato. L’effetto deterrente che deriva da una diminuzione della percentuale dei delitti attribuiti ad ignoti dovrebbe essere realisticamente maggiore dell’effetto di un semplice aumento dei crimini emersi rispetto a quelli commessi. Quando pensiamo alla concezione della certezza del diritto come chiave di volta della sicurezza pubblica e del controllo sociale, così come in Beccaria e nei suoi seguaci di tutti i tempi, pensiamo precisamente all’effetto deterrente che una riduzione della percentuale di delitti attribuiti ad ignoti avrebbe sul potenziale infrattore della legge penale.

Tuttavia, l’effetto deterrente derivante da una diminuzione dei delitti attribuiti ad ignoti sarebbe comunque ritardato. Per un periodo di tempo abbastanza lungo, il numero delle denunce e quindi dei delitti registrati dovrebbe, a rigore di logica, rimanere invariato, e non diminuire, come invece sembra essere avvenuto. In ogni caso, se vi è stato un aumento della deterrenza nelle forme appena descritte, questo aumento deve risultare da un cambiamento significativo nel rapporto tra delitti denunciati e delitti attribuiti ad ignoti. Negli ultimi anni, fino al 2017, il clearance rate, ossia la percentuale dei delitti di cui si è identificato l’autore, è rimasto molto basso in Italia. Per il totale reati, il clearance rate ha oscillato tra 18,4 e 19,4%; per gli omicidi volontari, ossia per il delitto utilizzato per le comparazioni internazionali tra i vari Paesi, la percentuale è stata in media del 67,5%; ciò significa che in Italia non si è riusciti a identificare l’autore di circa il 32,5% degli omicidi volontari; per un paragone, si tenga presente che le stime corrispondenti sono di circa il 20% per Svezia e Olanda, del 15% per  Inghilterra e Galles, di 13% per la Svizzera, di circa 9% per la Germania. Negli ultimi anni, vi è stata, nel complesso, una lieve riduzione dei reati attribuiti ad ignoti, ma non tale da fare prevedere, come conseguenza, un significativo decremento dei crimini. Per il periodo più recente – ossia per quello cui si riferiscono le odierne notizie diffuse dal Governo – non risultano informazioni su una diminuzione della percentuale di delitti attribuiti ad ignoti, anche se proprio una diminuzione in questo senso costituirebbe motivo di legittimo vanto per il Governo. Non ci rimane, quindi, che attendere informazioni dal Governo su questo punto fondamentale.

Come abbiamo detto in precedenza, la diminuzione dei delitti potrebbe essere avvenuta a causa di un aumento delle pene, piuttosto che di un aumento della certezza delle stesse pene. Le pene irrogate dalla giustizia italiana non sono certo tali da escludere l’opportunità di un loro aumento. Per quanto riguarda la pena del carcere – l’unica con capacità di deterrenza nei confronti di tutti i potenziali criminali, a prescindere dalle loro condizioni sociali ed economiche – un rapido calcolo sui dati disponibili (2010-2017) ci dice che, in media, un condannato per omicidio volontario rimane in carcere per 9 anni; un condannato per violenza sessuale 24 mesi; uno per rapina, 26 mesi; uno per furto, 4 mesi. Come già notato, non abbiamo dati recenti (2018) sull’operato della magistratura penale: ma negli ultimi anni per i quali disponiamo dati, vi è stato una diminuzione e non un aumento delle pene detentive mediamente subite dai condannati. E non risultano neppure modifiche legislative recenti che abbiano implicato un aumento delle pene applicabili. Il cosiddetto decreto-sicurezza del 4 ottobre 2018 contiene certamente modifiche legislative che, oltre ad andare nel senso di un sostegno alle vittime di particolari crimini (delitti di mafia, estorsione e usura), prevedono maggiore controllo e maggiore repressione di alcuni specifici comportamenti antisociali. Tuttavia, l’introduzione o reintroduzione di alcune fattispecie penali, o l’espansione dei casi di una loro applicazione, come le previsioni in materia di attività di parcheggiatore abusivo, di accattonaggio molesto con o senza uso di bambini, di occupazione arbitraria di immobili e di blocco stradale, avrebbero dovuto, a rigore di logica, produrre un aumento dei delitti e delle contravvenzioni registrati, e non una loro stabilità e ancora meno una loro diminuzione. A condizione, ovviamente, che queste nuove previsioni penali siano state effettivamente applicate in un numero consistente di casi rispetto alle violazioni messe in atto, e non siano quindi rimaste lettera morta, come peraltro si potrebbe sospettare. Crediamo, a questo proposito, che molti Italiani sono curiosi di sapere quanti parcheggiatori abusivi in Italia hanno effettivamente pagato la somma da 771 a 3101 Euro, come previsto dal nuovo decreto, e quanti, tra coloro che hanno effettuato un blocco stradale, sono finiti in carcere. D’altra parte, l’aumento delle sanzioni previste dal c.d. decreto-sicurezza non è tale – né sotto il profilo della gravità e neppure sotto quello della numerosità delle fattispecie penali previste – da immaginare che esso possa avere provocato un significativo aumento della deterrenza e, conseguentemente, una diminuzione dei delitti registrati. Il decreto-sicurezza non contiene nessuna previsione dalla quale fare discendere realisticamente una diminuzione rilevante dei delitti registrati. Ad esempio, il decreto-sicurezza non ha introdotto una qualche previsione come l’obbligo per il magistrato penale di imporre sempre un significativo e predeterminato aumento della sanzione detentiva in caso di recidiva. Una previsione, questa sì, che avrebbe avuto un sicuro impatto sulle cifre complessive della criminalità in Italia, riducendole corrispondentemente, dal momento che questa criminalità è in larga parte costituita da reati come i furti, le ricettazioni, le rapine, le estorsioni, le truffe: tutti reati dove la percentuale di delinquenti abituali e professionali è altissima. Per un’idea di quanto appena detto, si noti che circa due terzi dei condannati per rapina, per truffa, per furto in abitazione e per furto con strappo ha precedenti penali.

Se non vi sono prove evidenti di un aumento della certezza del diritto e se, contemporaneamente, non vi sono stati aumenti nelle pene tali da fare ritenere realistica una diminuzione dei delitti, non ci resta che ipotizzare un ultimo scenario: la diminuzione dei delitti sarebbe allora avvenuta in seguito ad un incremento nella prevenzione della criminalità, ossia in seguito ad un incremento di iniziative e controlli, sul territorio e sugli individui, volte a diminuire la probabilità che i delitti siano commessi (prevenzione ante-delictum) o che individui che già hanno commesso delitti ne commettano altri (prevenzione post-delictum). Si deve tenere presente che, in senso lato, la prevenzione del crimine abbraccia una grande varietà di possibili iniziative, da un welfare a sostegno delle fasce di popolazione più marginali, ad iniziative di rafforzamento della solidarietà sociale, al reinserimento sociale del condannato tramite un suo impegno in attività a favore della comunità locale. Alcune di queste iniziative, pur essendo altamente auspicabili per l’intera società, e potenzialmente di grande impatto sulla criminalità, hanno un carattere generico, e presentano quindi difficoltà per quanto riguarda una valutazione empirica di tale impatto, perché i loro effetti sono prevalentemente indiretti. Altre iniziative di prevenzione sono invece specifiche, e di regola più facilmente misurabili. Alcune iniziative prese dal Governo potrebbero rientrare nel quadro delle attività specifiche di prevenzione. La previsione dell’espulsione in tempi brevi degli immigrati che hanno subito condanne penali e la parallela previsione del rimpatrio degli immigrati in condizione di irregolarità fanno parte di queste iniziative. Poiché individui già autori di reati hanno maggiori probabilità di ricommetterne, la loro espulsione dal Paese ospitante dovrebbe diminuire il numero futuro dei delitti. Qualcosa di simile potrebbe accadere nel caso di immigrati in condizione di irregolarità. Infatti, anche se – come già sottolineato – le istituzioni italiane non hanno mai provveduto a fornire dati certi in materia, è opinione comune tra gli operatori del controllo sociale, in Italia come altrove, che la stessa condizione di irregolarità aumenti la probabilità di commettere crimini. Si deve notare, tuttavia, che i numeri dei rimpatri sono piccoli. Nel 2017, l’Italia ha rimpatriato circa 7400 immigrati. L’attuale Governo aveva espresso l’intenzione di rimpatriarne molti di più, anche tramite uno spostamento di fondi pubblici dall’accoglienza ai rimpatri; ma i rimpatri sono operazione difficile, anche perché necessitano dell’accordo del Paese di origine, che non sempre si rende disponibile; in conclusione, nel 2018 sono stati rimpatriati circa 8000 immigrati. Malgrado qualche incertezza sulle cifre esatte, chiaramente le differenze non sono tali da spiegare il calo rilevante dei delitti nei primi mesi del 2019. La mancanza di un più marcato incremento nei rimpatri nell’anno 2018 è in parte attribuibile anche al contemporaneo, forte calo degli ingressi di immigrati in Italia. Nel 2016, gli ingressi registrati erano stati circa 181 mila; nel 2017, 119 mila; nel 2018, solo 23 mila (Ministero dell’Interno, Cruscotto Statistico 31-12-2018). Questa netta diminuzione degli ingressi nel 2018 potrebbe essersi riflessa sull’andamento della criminalità in Italia. Le condizioni di marginalità sociale e economica di molti dei nuovi immigrati sono tali da fare ritenere che le loro probabilità di commettere crimini siano decisamente più alte. Mancano anche qui dati più precisi, ma vi è una concordanza tra gli esperti su questo punto. È opportuno comunque provare a fare qualche calcolo sul possibile impatto sulla criminalità derivante da questa diminuzione degli ingressi. Nel 2018, vi sono stati circa 96 mila ingressi in meno rispetto al 2017 (119.000 23.000 = 96.000); possiamo ipotizzare che questa popolazione, per le sue specifiche condizioni di marginalità, avrebbe potuto dare alla criminalità in Italia un contributo pari a 10 volte il suo peso sulla popolazione totale residente, compresi in questa ultima anche gli arrivi degli anni precedenti. Ebbene, anche ipotizzando tutto ciò, tale loro contributo sarebbe stato pari all’1,6% del totale crimini in Italia: troppo poco per spiegare il decremento della criminalità all’inizio del 2019, che – secondo le cifre fornite dal Ministero dell’Interno – è circa dieci volte più grande (15% per il totale delitti).

Anche il forte decremento degli ingressi di immigrati nel 2018, pertanto, non sembra potere essere stata la ragione sufficiente del decremento dei delitti registrati. Si deve però considerare che l’aumento della prevenzione potrebbe avere riguardato anche altri aspetti, oltre quelli del rimpatrio degli immigrati e della forte riduzione dei nuovi ingressi. Questi ulteriori aspetti potrebbero avere riguardato il rafforzamento del controllo del territorio in una prospettiva precisamente di prevenzione dei reati. Negli ultimi decenni, negli Stati Uniti e poi in altri Paesi, sono state sperimentate nuove politiche di prevenzione della criminalità basate precisamente su un maggiore controllo del territorio urbano tramite maggiore presenza fisica delle forze di polizia e azioni di contrasto nei confronti anche di manifestazioni minori di illegalità e antisocialità, dalla ubriachezza molesta ai graffiti, dal non-pagamento del biglietto sui mezzi di trasporto pubblici all’abbandono di rifiuti in strada, ai piccoli atti vandalici (cosiddetta politica di lotta alle broken windows, ossia alle finestre rotte). L’applicazione di queste nuove politiche è stata seguita da una riduzione anche della criminalità maggiore. In Italia, queste politiche sono state sinora ignorate. Una forma di prevenzione non lontana da queste politiche – il cosiddetto poliziotto di quartiere – è stata più volte promessa da varie forze politiche ma mai realizzata. Alcune delle modifiche legislative recenti del decreto-sicurezza – repressione della occupazione arbitraria di immobili, dell’accattonaggio molesto, dei blocchi stradali etc. – sembrerebbero andare nella direzione indicata a suo tempo da questa politica della lotta alle finestre rotte. Come peraltro già accennato, sembra tuttavia poco realistico collegare queste recenti e limitate modifiche con l’annunciato forte calo dei crimini. Comunque, per convincere il pubblico che la riduzione della criminalità è merito di un aumento significativo della prevenzione – e in definitiva delle autorità e delle forze politiche che l’hanno favorito – basterebbero dati affidabili che mostrassero un incremento rilevante e statisticamente significativo nelle attività di prevenzione, sia in quelle genericamente sociali, sia in quelle specifiche, di diretta competenza delle forze dell’ordine e più facilmente misurabili: ad esempio, un incremento nel numero delle persone identificate nel corso di controlli, nel numero dei profili (fingerprinting) genetici rilevati, nel numero degli autoveicoli (autocarri, automobili, motocicli) fermati e controllati, nella percentuale di forze di polizia presenti fisicamente e visibilmente sul territorio, nel numero delle perquisizioni effettuate, delle imprese monitorate, degli impianti di videosorveglianza utilizzati, e così via.

In mancanza di tutto ciò, e augurandoci comunque che i dati sulla criminalità nei primi mesi del 2019 siano confermati nel prossimo futuro, ci limiteremmo a pensare che l’annunciata riduzione della criminalità sia frutto di un miglioramento complessivo della società italiana. Pensiamo però, anche, che si tratta di qualcosa che è più facile desiderare che dimostrare vera.




A proposito della morte di Desirée: perché lo Stato è impotente

Nell’ora della pietà, dello sconcerto, della rabbia per la morte di una ragazza sedicenne, stuprata e uccisa da un gruppo di immigrati irregolari in un quartiere degradato di Roma, ho provato a fare un passo di lato, lontano dalla cronaca. Una sorta di esercizio, o esperimento mentale. Mi sono chiesto: se fossi il ministro dell’Interno, se fossi al posto di un Salvini o di un Minniti, e avessi la ferma volontà di impedire il ripetersi di fatti del genere (il caso di Desirée è solo l’ultimo di una serie), che cosa potrei fare?

Ci ho pensato a lungo, e la conclusione cui sono approdato è: poco, molto poco, almeno nel breve periodo.

Le ragioni del mio pessimismo sono molte. Penso per esempio che, poiché sono decenni che chiudiamo un occhio su ogni genere di trasgressione – in famiglia, a scuola, all’università, sugli autobus, per strada, sui treni, nei rapporti con il fisco – la violazione delle norme è entrata nel nostro DNA culturale. Per alcuni, succede addirittura che la violazione delle regole diventi un fattore identitario, se non di orgoglio personale: poiché ritengo che una data regola sia ingiusta, mi sento in diritto di violarla.

Non c’è solo la hybris, lo smisurato orgoglio del singolo: c’è anche l’opportunismo e la codardia dello Stato. Non è da oggi, e non è certo solo a Roma o nelle grandi città, che le forze dell’ordine hanno deliberatamente scelto di considerare extraterritoriali, o zone franche, intere porzioni del territorio nazionale, o interi quartieri di una città. Vale per le volanti che si guardano bene dall’entrare in certi territori, per i vigili che non osano entrare in certi edifici, ma anche per i magistrati, per i quali, a dispetto dell’obbligatorietà dell’azione penale, ci sono notizie di reato che non meritano indagini e approfondimenti.

Poi c’è la cultura finto-progressista, per cui la delinquenza comune, dal furto allo spaccio, è una conseguenza della povertà e della diseguaglianza, e dunque va trattata con riguardo. Come con riguardo vanno trattate le occupazioni di case, le occupazioni di scuole, le invasioni dei cantieri, tutte azioni illegali ma di cui si suppone che siano compiute per una giusta causa, o con sufficienti attenuanti per essere tollerate. Una visione del mondo per cui, da almeno vent’anni ci viene spiegato: “La politica, una buona politica, dovrebbe prendere in carico le paure degli italiani e dimostrarne l’infondatezza” (copyright Livia Turco, firmataria della legge Turco-Napolitano sull’immigrazione).

Infine, naturalmente, c’è il problema degli immigrati irregolari, una massa di 500 mila persone (o forse più) che vagano per l’Italia, talora lavorando in nero, talora chiedendo l’elemosina, talora delinquendo, e che nessun ministro dell’Interno è in grado di espellere, perché per molti di essi mancano accordi di rimpatrio con i paesi d’origine.

Insomma sono molte, purtroppo, le ragioni per cui è difficile, molto difficile, far sì che quel che è successo a Desirée (e prima di lei a Pamela, e a tante altre e altri) non abbia a ripetersi in futuro. Siamo tutti troppo assuefatti al disprezzo delle regole per poter sperare che qualcosa di sostanziale cambi, non dico domani, ma nemmeno da qui a qualche anno.

Però c’è una ragione che, a mio parere, sovrasta tutte le altre, almeno quando parliamo di reati, ossia di condotte illegali. Questa ragione è l’evoluzione della legge penale e della prassi giudiziaria. Un’evoluzione che, da molti anni, è stata guidata da un unico principio di fondo: rendere quasi impossibile scontare la pena in carcere. Un’idea astrattamente assai nobile, perché punta alla rieducazione e al reinserimento, ma che ha come effetto pratico di togliere allo Stato la sua arma più importante nella lotta al crimine: la cosiddetta “incapacitazione”.

Che cos’è l’incapacitazione? E’ far sì che il soggetto che ha commesso un delitto sia materialmente impedito di ripeterlo (o di commetterne un altro) per un tempo congruo, ossia per la durata della detenzione in carcere. Non è questo il luogo per ricostruire i numerosi cambiamenti normativi, della legge penale e della legge carceraria, che nel giro di pochi decenni hanno condotto alla situazione attuale. E non è neppure il caso di infierire sulle responsabilità della sinistra, che quei cambiamenti ha voluto e promosso, un po’ per mentalità, un po’ per compiacere l’Europa, che giustamente denunciava il sovraffollamento e le condizioni disumane delle nostre prigioni. Ma almeno una cosa va detta: il fatto che si possa iterare un reato innumerevoli volte senza finire in carcere, il fatto che molti giudici tendano a infliggere il minimo della pena, il fatto che reati di forte allarme sociale prevedano pene modeste o la possibilità di accedere a pene alternative al carcere, non può che produrre due conseguenze cruciali: chi delinque matura un sentimento di impunità e onnipotenza, chi dovrebbe impedirgli di delinquere  matura un sentimento di impotenza e di frustrazione.

Quante volte capita, a poliziotti e carabinieri, di dover esclamare: “sì, lo conosciamo, l’abbiamo già beccato più volte ma non c’è niente da fare, noi lo arrestiamo e domani è di nuovo fuori”. E questo non solo di fronte al singolo ladro, spacciatore, estorsore, ma anche di fronte ai gruppi che occupano e controllano determinati territori. Credo che quasi tutti gli abitanti di grandi città abbiano avuto modo di constatarlo più volte nella loro vita: ci sono pezzi di città, quartieri, isolati, marciapiedi in cui brulicano attività illegali, è pericoloso abitare e passare, i criminali assumono atteggiamenti arroganti e intimidatori. In questi luoghi può succedere che i cittadini protestino, facciano esposti, chiedano disperatamente alle autorità di intervenire, e che le Istituzioni (polizia, magistratura, talora anche la Chiesa) si mostrino sorde. Ma può anche succedere, come a quanto pare è accaduto nel caso di San Lorenzo e della povera Desirée, che intervengano ripetutamente ma del tutto inutilmente: la criminalità che occupava un determinato luogo vi torna la settimana dopo, o semplicemente si sposta di un isolato, o cambia zona della città.

Ecco perché, quando si dice che una certa tragedia era “annunciata”, e si accusano le autorità, siano esse politici, amministratori, Forze dell’ordine, di non aver ascoltato, di non aver risposto, di non aver provveduto, io sento un certo fastidio, o forse imbarazzo. Insomma, qualcosa non mi torna. Non tanto perché il mantra di questi giorni, riqualificare le periferie, è “un vasto programma” che ben pochi politici anteporrebbero a più redditizie promesse elettorali, ma perché la precondizione di tutto è che lo Stato sia messo in condizione di tornare a fare lo Stato.

Questo, spiace dirlo, dipende in misura minima dal ministro dell’Interno, e in sommo grado dal Parlamento. Che può continuare con la vecchia linea: depenalizziamo tutto il possibile; riserviamo il carcere ai crimini più gravi (e, barbarie, ai presunti innocenti in attesa di giudizio!); per migliorare le condizioni di detenzione svuotiamo le carceri con indulti e amnistie. Oppure può trovare il coraggio di fare macchina indietro, e di riappropriarsi dello strumento dell’incapacitazione: cambiando le norme penali, limitando il ricorso alle pene alternative, destinando qualche miliardo all’edilizia carceraria.

Se così agisse il Parlamento, le Forze dell’ordine non penserebbero più che il loro lavoro è vano, o che i loro sgomberi sono fatiche di Sisifo. Perché, arrestando qualcuno, confiderebbero di non ritrovarselo la settimana dopo nello stesso posto, a fare le stesse cose, con le stesse compagnie.

E forse i cittadini ricomincerebbero ad avere fiducia nello Stato, a non sentirsi stupidi se rispettano le leggi. Perché, checché continuino a pensarne certi politici, non è vero che “le paure dei cittadini sono infondate”: le paure dei cittadini sono fondatissime, verso la criminalità degli immigrati come verso quella degli italiani. E quelle paure, solo uno Stato che torni a fare lo Stato ha qualche possibilità di spegnerle.




Crimine e Immigrazione in Italia

1. Introduzione

Da alcuni decenni, e più in particolare dagli anni 1980, studi condotti in quasi tutti i Paesi dell’Europa Occidentale hanno rilevato tassi di criminalità per gli immigrati stranieri significativamente più alti di quelli registrati per la popolazione nativa. Si tratta di risultati almeno in parte sorprendenti, perché studi precedenti condotti negli anni 1950 e 1960 nei Paesi europei di forte immigrazione – Germania, Svizzera, Francia, Belgio e Regno Unito – avevano invece rilevato per gli immigrati stranieri tassi di criminalità sostanzialmente non superiori a quelli dei nativi. Inoltre studi recenti e meno recenti condotti in Paesi non europei caratterizzati da forte immigrazione (Canada, Stati Uniti e Australia) non hanno prodotto dati che possano sostenere la tesi di una particolare propensione alla criminalità da parte degli immigrati stranieri.

Certamente, però, la attuale situazione immigratoria in Europa è peculiare. Negli anni 1990 in media, circa 1,65 milioni di immigrati l’anno hanno raggiunto l’Europa Occidentale. Dal 2001, il flusso di arrivi per anno ha raggiunto e superato i due milioni. Nello stesso periodo gli Stati Uniti – ossia il Paese dell’immigrazione nell’immaginario collettivo – ha ricevuto un flusso immigratorio inferiore: circa un milione per anno. Questo flusso minore e più costante verso gli Stati Uniti è stato anche il risultato di più stretti controlli in quella nazione, che hanno incrementato indirettamente la pressione migratoria verso l’Europa. Pochi tra gli stessi europei sono consapevoli del fatto che è l’Europa oggi la vera terra dell’immigrazione internazionale e che notevoli differenze esistono tra l’Europa e gli Stati Uniti in termini di flussi immigratori. In effetti, l’incremento del flusso immigratorio è stato più forte in Europa che negli altri Paesi interessati dall’immigrazione internazionale. Inoltre, solo una frazione degli immigrati in Europa proviene dall’Europa stessa, dall’America del Nord, dal Giappone, dall’Australia etc., mentre la loro maggior parte – costituita di regola di lavoratori poco qualificati – proviene da Paesi sottosviluppati e culturalmente lontani: cosa considerata per lo più sfavorevole alla loro assimilazione e integrazione. Per di più, una parte non trascurabile dell’attuale immigrazione verso l’Europa è composta da individui su cui non è stato esercitato un effettivo controllo migratorio da parte del Paese ospitante: individui che, sono o sono stati clandestini, irregolari, richiedenti asilo privi dei requisiti per ottenere lo status di rifugiati etc., e che mediamente presentano maggiori problemi di integrazione rispetto a coloro che possiedono un ineccepibile profilo immigratorio. Queste caratteristiche rendono l’immigrazione attuale verso l’Europa diversa anche da quella verso l’Europa Occidentale negli anni 1950 e1960, quando gli immigrati provenivano per lo più dalla stessa Europa, e erano in prevalenza soggetti a controllo migratorio da parte dei Paesi ospitanti. All’interno dell’Europa Occidentale, l’Italia rappresenta un caso critico per più di un aspetto. Paese di emigrazione – e non di immigrazione – fino al 1973, l’Italia aveva, ancora nel 1981, una popolazione immigrata pari a solo il 0,4%. Dagli inizi degli anni 1990 ha avuto però luogo una tumultuosa crescita dei flussi immigratori e, tra il 1995 e il 2005, la popolazione immigrata straniera è passata dall’1,8% al 4,7%, per poi continuare a crescere fino all’8,3% nei dieci anni successivi. Al 2017, l’Italia costituiva il quarto Paese d’Europa, dopo Germania, Regno Unito e Francia, per numerosità della popolazione immigrata dall’estero (6,05 milioni, pari al 10,2% della popolazione residente), cifra che comprende, oltre ai cittadini stranieri, anche gli italiani nati all’estero ritornati in Italia e gli immigrati divenuti cittadini italiani; alla stessa data, l’Italia era, significativamente, il terzo Paese d’Europa dopo Germania e Regno Unito per popolazione straniera (5,07 milioni, pari al 8,4% della popolazione residente), cifra che comprende solo cittadini stranieri e apolidi. Questo rapido e largamente incontrollato incremento del flusso immigratorio – e in particolare della presenza di stranieri – avveniva nonostante l’alto tasso medio di disoccupazione (circa 10% della forza lavoro 1995-2015), l’elevato livello d’ineguaglianza economica (indice Gini = 34,7 contro, ad es. il 31,4 della Germania), la rigidità del mercato del lavoro (OECD Employment Protection Index = 2,8 contro, ad es., l’1,6 del Regno Unito) e il basso livello della libertà economica del Paese (Index of Economic Freedom: 62,5 contro, ad es., il 78,0 del Regno Unito): tutti aspetti sfavorevoli all’integrazione e al benessere economico degli immigrati.

Non sorprendentemente, in Italia, come del resto in gran parte degli altri Paesi d’Europa, il tema dell’integrazione degli immigrati e del loro contributo alla criminalità ha suscitato un acceso dibattito. Questo tema è stato al centro della discussione politica e ha evidentemente pesato sui risultati elettorali dei vari partiti politici tradizionali, anche per via della crescita di nuovi partiti caratterizzati da programmi che prevedono espressamente il controllo dell’immigrazione straniera e la repressione della criminalità ad essa associata. Il dibattito intorno a questi problemi è stato palesemente caratterizzato da una miscela di emozioni e posizioni ideologiche pregiudiziali, a tutto danno della possibilità di una più oggettiva analisi dei fatti e dei rimedi effettivamente attuabili.

Anche tra gli scienziati sociali il dibattito sul tema del legame tra immigrazione e criminalità è stato intenso, e spesso non privo di connotazioni ideologiche. In realtà, le principali teorie criminologiche suggeriscono alti tassi di criminalità nella popolazione straniera immigrata. Così avviene in effetti con gli studi che si inspirano alla cosiddetta anomia e alla deprivazione relativa, che suggeriscono che una società caratterizzata da un’alta pressione culturale verso il successo materiale e contemporaneamente da limitate e ineguali opportunità di raggiungere lecitamente tale obiettivo comporti un’alta propensione al crimine e ad altre forme di devianza: cosicché gli immigrati, che mediamente possiedono modesta istruzione, bassi salari e alto livello di disoccupazione, dispongono di minori opportunità di conseguire il successo con mezzi leciti e costituirebbero conseguentemente un gruppo più propenso alla delinquenza. Nella stessa direzione si muovono gli studi che fanno capo alla cosiddetta teoria economica del crimine, i cui autori, ispirandosi al pensiero di Cesare Beccaria, ritengono che gli individui scelgono liberamente e razionalmente il crimine quando il suo beneficio (il ricavo) è superiore al suo costo (la sanzione). Poiché il beneficio del crimine è calcolato rispetto a quello delle alternative lecite, ci si attende che gli immigrati – carenti di opportunità lecite – abbiano una più alta propensione alla criminalità. Non molto distanti sono gli studi ispirati alla concezione marxista ortodossa del rapporto tra società e crimine. Questi studi suggeriscono che la società capitalistica diffonda valori di egoismo individualistico e che le sue forti diseguaglianze socio-economiche generino risentimento nei sottoprivilegiati. Tutto ciò induce questi ultimi a ricorrere al crimine per conseguire i beni materiali e le soddisfazioni loro negate dal sistema, e genera altresì azioni antisociali, anche prive di utilità economica, dettate da risentimento. Gli immigrati stranieri, proprio perché in larga parte marginali al sistema capitalistico e chiaramente sottoprivilegiati, costituirebbero un gruppo fortemente esposto al rischio di criminalità.

Conclusioni non molto differenti, ma raggiunte da punti di partenza quasi opposti, caratterizzano la cosiddetta teoria del controllo sociale. Gli studi che si rifanno a questa corrente, ritengono che le condizioni di deprivazione assoluta e relativa non siano determinanti per la propensione al crimine, mentre lo sarebbero il controllo sociale esercitato sull’individuo e la minaccia della perdita di relazioni interpersonali e di opportunità sociali e lavorative come conseguenza di aver commesso dei reati. Poiché molti immigrati stranieri, specialmente se di recente immigrazione, hanno scarsi rapporti interpersonali nella società ospitante e dispongono di scarse opportunità sociali e lavorative, anche il controllo sociale su di loro è limitato e la propensione alla criminalità è di conseguenza maggiore.

La principale corrente di pensiero che invece rigetta l’ipotesi di una relazione causale tra immigrazione straniera e crimine è costituita dalla cosiddetta teoria della costruzione sociale della criminalità. In questa corrente di pensiero confluiscono teorizzatori dell’etichettamento del deviante, studiosi radicali neo-marxisti, fautori delle proposizioni antiscientifiche del postmodernismo, e simili. Il comune denominatore di questa corrente consiste nel ritenere che tanto la definizione di ciò che costituisce crimine, quanto la individuazione di chi commette crimini siano espressione del potere. Più in particolare, questa corrente ritiene che coloro che sono comunemente definiti criminali non siano caratterizzati da specifici retroterra criminogeni né da una personale propensione al crimine, ma siano più semplicemente individui che il sistema dominante (tramite le agenzie del controllo sociale, cioè le forze dell’ordine e l’autorità giudiziaria) arbitrariamente seleziona e identifica come tali, sulla base della loro appartenenza a gruppi sociali deboli e marginali, come appunto gli immigrati stranieri. Tale corrente di pensiero rigetta conseguentemente l’ipotesi di utilizzare i dati ufficiali sul crimine come indicatori del fenomeno criminale reale, in quanto considera questi dati come sottoprodotti dell’azione arbitraria delle agenzie di controllo sociale gestite dal sistema dominante. Torneremo nelle conclusioni su questo argomento.

2. Dati

I dati su cui si basa questa indagine provengono dall’Istat (l’Istituto Nazionale Italiano di Statistica)[1] e derivano da due fonti originarie. La prima fonte è costituita dagli archivi delle procure della repubblica. I dati derivati da questi archivi sono stati resi pubblici dall’Istat a cominciare dal 1988: essi permettono quindi una analisi della loro evoluzione nel tempo sin da un periodo che corrisponde ad una prima consistente presenza di immigrati stranieri in Italia. Questi dati si riferiscono sia ai delitti denunciati sia agli individui denunciati, nonché ai condannati in via definitiva. Denunciati e condannati sono suddivisi per origine, con la distinzione fra nati in Italia e provenienti dall’estero. I dati non distinguono invece tra cittadini italiani e stranieri. Ciò comporta che tra gli immigrati denunciati e condannati siano ricompresi, senza distinzione, insieme ai cittadini stranieri, anche i cittadini italiani nati all’estero, il cui numero è peraltro piccolo quando paragonato a quello degli stranieri, nonché gli immigrati stranieri successivamente naturalizzati italiani, il cui numero è decisamente cresciuto dopo il 2012. D’altra parte, i dati delle procure non permettono di distinguere i nati in Italia per origine, cosicché le analisi seguenti devono necessariamente ignorare la quota di immigrati di seconda generazione tra i denunciati e i condannati. Si tratta di una carenza preoccupante dei dati italiani, anche perché le seconde generazioni avranno un peso crescente nel futuro del Paese. Ci si augura che le necessarie informazioni siano rese presto disponibili, in modo da potere affrontare e studiare questo tema in modo non diverso da come si fa in altri Paesi europei.

Una seconda fonte di informazioni su immigrati e criminalità è costituita dai dati provenienti dalle forze dell’ordine e raccolti dal Ministero dell’Interno. I dati non permettono una ricostruzione dell’andamento nel tempo del legame immigrazione-crimine simile a quella possibile con i dati delle procure. I dati delle forze dell’ordine, tuttavia, presentano il vantaggio di distinguere i denunciati secondo la loro cittadinanza, e permettono quindi – almeno per il periodo più recente –  di approfondire la situazione riguardante specificamente gli immigrati stranieri. I dati dei denunciati provenienti dalle forze dell’ordine, peraltro, non coincidono numericamente con quelli delle procure. Il sistema della giustizia italiano prevede l’obbligatorietà della azione penale per l’autorità giudiziaria: tuttavia, questa ultima decide di proseguire l’azione penale soltanto nei confronti di una parte dei denunciati, e archivia il resto dei casi. Per questo motivo, i numeri provenienti dalle procure sono inferiori a quelli provenienti dalle forze dell’ordine: i denunciati per i quali l’autorità giudiziaria decide di proseguire l’azione penale rappresentano circa il 60% del numero complessivo dei denunciati da parte delle forze dell’ordine, e sono più propriamente definiti imputati, piuttosto che semplicemente denunciati.

Nei grafici delle pagine seguenti presenteremo le serie storiche basate sui delitti e sugli imputati adulti nati all’estero riportati dalle procure; in seguito, nella Tabella 1, prenderemo in considerazione, per un raffronto, anche i denunciati adulti stranieri (quindi, solo cittadini stranieri e apolidi) riportati dalle forze dell’ordine e i condannati con sentenza definitiva nati all’estero. Nei grafici, mostreremo anche le cifre riguardanti la popolazione di immigrati dall’estero in Italia, popolazione che comprende, come si è detto, oltre agli stranieri, anche gli immigrati con cittadinanza italiana. Si tratta, anche in questo caso, di dati provenienti dall’Istat. Tutte le curve dei grafici sono state trattate con tecnica di livellamento per ridurre il rumore di fondo, ossia le variazioni sul breve periodo.

3. Andamento della criminalità in Italia e coinvolgimento della popolazione immigrata

Per ottenere una rappresentazione soddisfacente della criminalità in Italia e del coinvolgimento in essa della popolazione immigrata, non è necessario esaminare tutti i singoli delitti, cosa che potrebbe essere anche fuorviante. I casi, peraltro non numerosi, di “Ingresso abusivo nel fondo altrui” costituiscono un buon esempio di quanto appena detto. I delitti sempre considerati in ogni rapporto sulla criminalità, e conseguentemente quelli su cui si effettuano di regola le comparazioni internazionali, sono gli omicidi volontari, le violenze sessuali e le rapine. Questi delitti rientrano nella categoria dei delitti di violenza, anche se nel caso della rapina vi è un ulteriore aspetto che ricade nel concetto di delitto contro il patrimonio. Vi sono tuttavia altri delitti particolarmente degni di considerazione o per la loro gravità o per la loro grande diffusione. Questo ultimo aspetto è rilevante, perché delitti molto diffusi comportano un impatto altrettanto diffuso e quindi tendono – con qualche parziale eccezione – a recare danno a una parte considerevole della popolazione. Nelle pagine seguenti, esamineremo quindi anche altri delitti: delitti di violenza, come le lesioni personali volontarie, molto più diffuse degli omicidi, e la violenza, resistenza etc. a pubblico ufficiale, di particolare rilevanza per quanto concerne l’ordine pubblico. Ci occuperemo anche di estorsione e di associazione a delinquere, delitti comunemente ritenuti di significativa gravità. Nel caso dell’associazione a delinquere si tratta di un fatto criminale collegato ad altri delitti, spesso gravi, ma che il codice punisce indipendentemente dal fatto che quei delitti siano stati o no effettivamente commessi, perché ritenuto di per sé in grado di attentare all’ordine pubblico e di generare allarme sociale. Ci occuperemo inoltre di sfruttamento della prostituzione, un delitto comunemente percepito come particolarmente odioso, anche per via degli altri delitti che frequentemente lo accompagnano, quali minacce, estorsioni ed anche lesioni nei confronti delle vittime. Prenderemo in considerazione anche il cosiddetto traffico di droga, un delitto che le leggi penali attuali in Italia considerano della massima gravità (le pene detentive previste sono tra le più severe, arrivando fino a 22 anni di reclusione). A questa lista è opportuno aggiungere il furto, che costituisce il delitto di gran lunga più diffuso e che quindi coinvolge il più grande numero di vittime. Ci occuperemo infine del totale dei delitti, un dato riassuntivo comunemente usato per calcolare il tasso complessivo di criminalità in una nazione. Non prenderemo invece in considerazione i delitti strettamente connessi con il fatto stesso dell’immigrazione, come il “procurare l’ingresso illegale dello straniero”, che può essere compiuto sia da stranieri sia da nativi, o la violazione del “divieto di reingresso dello straniero espulso”, che evidentemente può essere commesso solo dagli stranieri. Si tratta in effetti di delitti che hanno saltuariamente colpito l’attenzione dei cittadini, ma che non possono essere ritenuti effettivamente rilevanti né per gravità né per diffusione.

Cominceremo ora con il delitto da sempre percepito come fatto di massima gravità criminale, l’omicidio volontario. La Figura 1 mostra un andamento chiaramente discendente dei casi di omicidio volontario, compiuto e tentato, in Italia, a partire dagli anni 2002-2003. Tale andamento discendente non è una caratteristica dell’Italia: in effetti, gli omicidi volontari mostrano una tendenza alla diminuzione in quasi tutti i Paesi europei nel corso degli ultimi decenni. La percentuale di immigrati tra i denunciati per omicidio in Italia per i quali si è ritenuto di dovere proseguire l’azione penale è invece cresciuta interrottamente fino all’inizio degli anni 2010 ed è chiaramente molto più alta della percentuale di immigrati nati all’estero tra la popolazione residente in Italia.

Figura 1. Evoluzione dei casi di omicidio volontario, incluso tentato, in Italia; percentuale di immigrati dall’estero sul totale degli imputati per questo reato e sul totale della popolazione residente in Italia (anni 1988-2015)

All’aumento percentuale degli immigrati imputati per omicidio volontario corrisponde anche un loro aumento in numero assoluto. Dal 2006 al 2015, ad esempio, gli immigrati denunciati per omicidio in Italia passano da 415 a 530, mentre i denunciati nativi diminuiscono da 1382 a 1160. L’aumento della percentuale di immigrati sul totale dei denunciati per questo reato dipende pertanto non solo dall’aumento del valore assoluto dei denunciati immigrati ma anche dal calo negli ultimi anni degli imputati nativi.

Figura 2. Evoluzione dei casi di lesioni volontarie in Italia; percentuale di immigrati dall’estero sul totale degli imputati per questo reato e sul totale della popolazione residente in Italia (anni 1988-2015)

La Figura 2 mostra la situazione delle lesioni volontarie in Italia. Il loro numero, a differenza di quello degli omicidi volontari, è fortemente aumentato negli ultimi decenni, passando da circa 30 a circa 110 l’anno per 100.000 abitanti. Al tempo stesso è anche notevolmente aumentata la percentuale di immigrati sul totale degli imputati per questo reato, tanto che la curva nel tempo di tale percentuale e la curva dei casi di lesioni mostrano andamenti similari. La percentuale di immigrati sul totale degli imputati per lesioni, per gli ultimi anni di cui abbiamo i dati, è circa 25%, leggermente inferiore a quella degli immigrati imputati per omicidio volontario. Anche il numero degli immigrati imputati per lesioni volontarie in Italia è cresciuto nel tempo e, nel periodo qui considerato (quasi tre decenni) è passato da circa 400 per anno a circa 11.000. È peraltro interessante notare che anche il numero dei nativi imputati per lesioni volontarie è cresciuto notevolmente e, nello stesso arco di tempo, è passato da circa 25.000 a circa 35.000 per anno. Le lesioni volontarie sono solo in relativamente piccola parte (un quarto dei casi) attribuite a ignoti. Ciò significa che gli imputati per lesioni volontarie coprono gran parte dei casi di lesioni noti alla giustizia. Si può in conclusione affermare che il forte aumento delle lesioni registrate in Italia sia dovuto a un incremento del contributo dato a questo reato tanto dagli immigrati (anche per la loro aumentata incidenza sulla popolazione residente in Italia) quanto dai nativi.

Figura 3. . Evoluzione dei casi di violenza sessuale in Italia; percentuale di immigrati dall’estero sul totale degli imputati per questo reato e sul totale della popolazione residente in Italia (anni 1988-2015)

Esaminando il grafico dell’evoluzione dei casi di violenza sessuale in Italia (Figura 3), si ha l’impressione che il forte aumento dei casi di questo reato – che, nel periodo considerato, sono passati da poco più di 2 a quasi 10 per 100.000 abitanti – sia strettamente associato alla parallela evoluzione della percentuale di immigrati imputati per questo reato. In effetti, le due curve – quella dei casi di violenza sessuale e quella della incidenza degli immigrati sul totale imputati di violenza sessuale – sembrano procedere pari passu. Riteniamo peraltro che sia bene approfondire la materia. Nel triennio 1995-97, all’inizio del periodo di forte crescita delle violenze sessuali, gli imputati nativi sono 1713 e nel triennio 2013-15 sono 1949, mentre gli imputati immigrati aumentano da 317 a 1050. Basandosi sulle cifre riguardanti gli imputati, e tenendo conto del fatto che i casi di violenza sessuale attribuiti a soggetti noti sono oltre la metà del totale dei casi di questo reato conosciuti alla giustizia, si può pertanto ritenere che il vasto aumento delle violenze sessuali registrate in Italia sia associato sia ad un crescente contributo a questo reato da parte dei nativi, sia, ma in maggior misura, alla crescita del contributo degli immigrati.

Figura 4. Evoluzione dei casi di sfruttamento della prostituzione in Italia; percentuale di immigrati dall’estero sul totale degli imputati per questo reato e sul totale della popolazione residente in Italia (anni 1988-2015)

La Figura 4 mostra la situazione riguardante i casi di cosiddetto “sfruttamento della prostituzione”, casi che si riferiscono in effetti ad una più ampia fattispecie penale che criminalizza “chiunque in qualsiasi modo favorisca o sfrutti la prostituzione altrui” (Legge 20 feb. 1958, n. 75). Dalla Figura, si possono agevolmente notare alcuni fatti: negli anni più recenti, gli immigrati costituiscono quasi i due terzi degli imputati, raggiungendo la percentuale più alta tra i reati di maggior gravità o diffusione; per gran parte del periodo in esame vi è stata una crescita parallela della percentuale degli immigrati imputati e del numero dei casi registrati di sfruttamento della prostituzione. I casi di sfruttamento si sono quintuplicati nel corso degli anni, passando da 0,5 a 2.5-2,8 agli inizi degli anni 2000, per poi stabilizzarsi e decrescere lievemente. Gli imputati nativi per sfruttamento passati da circa 400 l’anno all’inizio del periodo a 700 circa agli inizi degli anni 2000 e sono poi diminuiti lievemente. Gli imputati immigrati, invece, sono passati da valori omeopatici all’inizio del periodo a circa 600 all’inizio degli anni 2000 e hanno poi continuato ad aumentare fino a circa 1.000 alla metà degli anni 2010. Il reato di sfruttamento della prostituzione è del resto caratterizzato da un assai limitato numero di casi attribuiti a ignoti: solo un quarto circa del totale dei casi registrati. I soggetti imputati coprono pertanto gran parte dei casi di questo reato conosciuti alla giustizia. Si può quindi ritenere che l’aumento complessivo dei casi di sfruttamento della prostituzione registrati in Italia sia associato soprattutto alla crescita del contributo a questo reato dato dagli immigrati, e che la più recente stabilizzazione e poi riduzione dei casi sia associata a un declino del contributo dei nativi, contributo che era stato peraltro anch’esso crescente fino agli anni 2000.

Figura 5. Evoluzione dei casi di furto in Italia; percentuale di immigrati dall’estero sul totale degli imputati per questo reato e sul totale della popolazione residente in Italia (anni 1988-2015)

Il quadro mostrato dalla Figura 5, riguardante l’evoluzione dei casi di furto in Italia, si presenta a prima vista come notevolmente differente da quello delle lesioni, delle violenze sessuali e dello sfruttamento della prostituzione e invece più simile a quello degli omicidi volontari. I tassi di furti registrati per popolazione residente sono, alla fine del periodo esaminato, simili a quelli registrati all’inizio e inferiori ai tassi massimi registrati intorno alla metà degli anni 1990. La percentuale di immigrati tra gli imputati per furto cresce nel contempo in modo evidente e si assesta negli anni più recenti tra il 35 e il 40%. Il numero di immigrati imputati cresce corrispondentemente nell’arco di tempo considerato e passa da circa 6.000 a 20.000 e più. Il numero dei nativi imputati, invece, nello stesso arco di tempo, decresce e passa da circa 50.000 a circa 37.000. Per quanto il numero di imputati per furto sia piccolo rispetto al numero totale di casi di furto registrati, si può avanzare l’ipotesi che la diminuzione dei tassi di furto negli anni più recenti sia l’effetto di un minore contributo dato a questo reato dai nativi.

Figura 6. Evoluzione dei casi di rapina in Italia; percentuale di immigrati dall’estero sul totale degli imputati per questo reato e sul totale della popolazione residente in Italia (anni 1988-2015)

La Figura 6, che presenta l’andamento complessivo dei casi di rapina in Italia, segnala una loro diminuzione negli anni più recenti, simile a quella dei furti e degli omicidi e in contrasto coll’andamento delle lesioni, delle violenze sessuali e dello sfruttamento della prostituzione. A fronte di questa flessione dei casi di rapina noti alla giustizia, si nota un incremento quasi lineare nel tempo della percentuale di immigrati imputati per questo reato: percentuale che si avvicina al 45% del totale imputati. Il numero di immigrati imputati cresce corrispondentemente nel tempo da circa 300 a più di 4.000 per anno, mentre quello dei nativi imputati scende lievemente da circa 6.500 a 5.700 per anno.

Figura 7. Evoluzione dei casi di estorsione in Italia; percentuale di immigrati dall’estero sul totale degli imputati per questo reato e sul totale della popolazione residente in Italia (anni 1988-2015)

La Figura 7 mostra l’evoluzione dei casi di estorsione in Italia. La curva riguardante questi reati presenta un andamento sinusoidale, caratterizzato da una rapida crescita nel periodo iniziale, un lungo periodo di stabilità e una nuova crescita negli anni più recenti. La percentuale di immigrati imputati per questo reato cresce invece in modo piuttosto costante nel tempo, ma raggiunge negli anni più recenti dei valori massimi comunque inferiori a quelli registrati dagli immigrati per tutti i precedenti reati. Il numero di immigrati imputati per estorsione passa, nel periodo considerato, da meno di 50 a 1.200-1.300 per anno. Il numero dei nativi imputati per estorsione è nel periodo iniziale di circa 400 l’anno, raggiunge poi rapidamente valori massimi intorno ai 700 per anno, si mantiene su tali livelli per molti anni, e poi decresce negli ultimi anni.

Figura 8. Evoluzione dei casi di traffico di droga in Italia; percentuale di immigrati dall’estero sul totale degli imputati per questo reato e sul totale della popolazione residente in Italia (anni 1988-2015)

La Figura 8 mostra l’evoluzione dei casi del “traffico di droga” in Italia: più propriamente, secondo il D.P.R. 309 del 1990, i casi di violazione delle norme disciplinanti “produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti o psicotrope”. La curva dei casi di traffico di droga mostra una rapida ascesa alla fine degli anni 1980; un lungo periodo di crescita mediamente più contenuta e una flessione negli anni più recenti. La percentuale di immigrati sul totale degli imputati cresce rapidamente quasi fino alla fine degli anni 1990, poi più lentamente, raggiungendo peraltro valori intorno al 40%, quindi simili a quelli del furto, ma inferiori a quelli della rapina e, di molto, a quelli dello sfruttamento della prostituzione. Il numero degli immigrati imputati parte negli anni 1980 da circa 2.000 per anno; raggiunge il suo massimo nel 2008 (15.000 immigrati imputati) e decresce poi fino a circa 12.000 imputati per anno. Il numero dei nativi imputati per traffico di droga, già alto negli anni 1980 (circa 27.000 imputati per anno), cresce successivamente e poi decresce negli anni più recenti fino a circa 18.000 imputati per anno. La flessione, registrata dal 2009, della curva dei casi di traffico di droga conosciuti alla giustizia sembra essere associata più al decrescente contributo dei nativi che a quello – peraltro anche esso decrescente – degli immigrati.

Figura 9.. Evoluzione dei casi di violenza etc. a pubblico ufficiale in Italia; percentuale di immigrati dall’estero sul totale degli imputati per questo reato e sul totale della popolazione residente in Italia (anni 1988-2015)

La Figura 9 mostra l’evoluzione dei casi di violenza a pubblico ufficiale in Italia: una etichetta che in effetti copre più specifiche fattispecie, ossia violenza, minaccia, resistenza e oltraggio. Si può notare una forte crescita del tasso di violenze fino verso la fine degli anni 1990; successivamente, vi è stato un chiaro, anche se meno accentuato, declino. La percentuale di immigrati sul totale degli imputati per questo reato è aumentata fino alla fine degli anni 2000. Il numero degli immigrati imputati per questo reato è passato da circa 700 per anno all’inizio del periodo (un numero considerevole, considerato che a quel tempo solo furto e traffico di droga registravano un numero superiore di immigrati imputati), a un massimo di 6.000 circa alla fine degli anni 2000 ed è poi sceso a circa 4.400 negli anni più recenti. Il numero dei nativi imputati parte da circa 14.000 per anno, cresce fino alla fine degli anni 1990 ed è poi diminuito fino alla cifra, relativamente modesta, di circa 8.000 per anno. Si ha quindi l’impressione che la diminuzione del tasso di violenze a pubblico ufficiale, iniziata alla fine degli anni 1990 sia associata al parallelo declino del contributo dato a questo reato dai nativi, al quale negli anni più recenti si è aggiunto il declino anche del contributo degli immigrati.

Figura 10. Evoluzione dei casi di associazione a delinquere in Italia; percentuale di immigrati dall’estero sul totale degli imputati per questo reato e sul totale della popolazione residente in Italia (anni 1993-2015)

La Figura 10 mostra l’andamento dei casi di associazione a delinquere in Italia. L’incidenza di questo reato è bassa: si tratta in effetti del reato con il più piccolo numero medio di casi per anno tra tutti i reati presi in considerazione in queste pagine. Il tasso dei casi di associazione a delinquere per 100.000 abitanti è infatti in Italia inferiore anche a quello dei casi di sfruttamento della prostituzione, che in assoluto non è certo alto. Il reato di associazione a delinquere è peraltro un reato di rilevante gravità, come già notato, ed è per questo che ce ne occupiamo qui. Il tasso di casi di associazione a delinquere mostra un andamento crescente fino al 2008 e poi decrescente. La percentuale di immigrati imputati è invece ancora cresciuta, pur raggiungendo valori massimi abbastanza modesti, rispetto a quelli registrati per gli altri reati qui considerati. L’associazione a delinquere è il reato per cui si registra la più bassa percentuale di immigrati imputati. Il numero assoluto di immigrati imputati per questo reato, da circa 200 nel 1993 (primo anno per cui sono disponibili dati), ha raggiunto i 550-600 immigrati imputati per anno alla fine del periodo. Il numero dei nativi imputati per associazione a delinquere, partendo invece da valori intorno a 3.000 per anno, ha raggiunto il massimo di circa 4.000 tra il 2007 e il 2009, ed è poi sceso a circa 2.000 alla fine del periodo. Considerato anche che l’associazione a delinquere è, tra i delitti qui considerati, quello con la minore percentuale di responsabili ignoti (20% circa), l’andamento discendente dei casi di associazione a delinquere negli anni più recenti sembra essere associato con l’andamento parimenti discendente del numero dei nativi che ne sono stati imputati.

Figura 11. Evoluzione del totale delitti in Italia; percentuale di immigrati dall’estero sul totale degli imputati per questo reato e sul totale della popolazione residente in Italia (anni 1988-2015)

La Figura 11 mostra l’andamento della somma totale di tutti i delitti registrati dalla giustizia in Italia. Dopo una lieve crescita fino alla fine degli anni 1990, il totale dei delitti presenta una costante, se pur modesta, diminuzione. La percentuale di immigrati imputati per qualsiasi tipo di delitto cresce abbastanza costantemente fino al 2008 (26% del totale imputati), poi decresce lievemente. Il numero degli immigrati imputati per qualsiasi tipo di delitto, che era di circa 20.000 per anno alla fine degli anni 1980, ha raggiunto il massimo nel 2009 (147.000) ed è sceso negli anni seguenti a circa 130.000 per anno. Il numero dei nativi imputati per qualsiasi tipo di delitto, che era di circa 450.000 per anno, è sceso a circa 420.000 all’inizio degli anni 2000 ed è ritornato intorno al numero iniziale alla fine del periodo esaminato.

4. Indice relativo di incriminazione degli immigrati in Italia

Nei grafici che precedono abbiamo potuto notare come la percentuale di immigrati imputati per i vari delitti è sempre più alta della percentuale di immigrati nella popolazione residente, ma varia a seconda dei delitti. È pertanto opportuno misurare ora con più precisione tale sovra-rappresentazione degli immigrati tra gli imputati. Un modo usuale per procedere con la misurazione di questa sovra-rappresentazione consiste nel calcolare il tasso di immigrati imputati per popolazione immigrata (ossia, numero di immigrati imputati per anno, per ogni 100.000 immigrati residenti nel Paese). Il risultato deve essere poi confrontato con un altro valore, costituito comunemente dal tasso dei nativi imputati (numero nativi imputati per anno per 100.000 nativi residenti).

Fin dagli anni 1990, tuttavia, per misurare tale sovra-rappresentazione abbiamo ideato e applicato una diversa procedura, che si presta bene a misurare l’incidenza relativa, nella popolazione immigrata, degli imputati, così come dei denunciati, dei condannati e degli entrati in carcere. La procedura di cui parliamo presenta il vantaggio di produrre un risultato il cui valore numerico è intuitivo e non ha bisogno di essere paragonato ad altro valore, ad esempio, quello riguardante la popolazione nativa, come avveniva nel caso prima descritto dei tassi di immigrati imputati. La procedura in questione consiste in un indice che misura l’incidenza relativa di un fenomeno in una sotto-popolazione, come nell’esempio seguente:

 

dove sub-popolazione immigrataimp. d t sono qui gli immigrati che sono parte della popolazione di imputati (imp.) per un certo delitto d, nell’anno o negli anni di riferimento t; sub-popolazione immigrata sono gli immigrati che sono parte della popolazione totale, ossia della popolazione residente in Italia.

La Tabella 1 mostra i risultati ottenuti applicando l’indice relativo di incriminazione degli immigrati in Italia ai dati già presentati nelle pagine precedenti. La stessa Tabella 1 mostra anche l’indice calcolato per la sola popolazione straniera, escludendo quindi gli immigrati in possesso di cittadinanza italiana: in questo caso si tratta dei dati riguardanti i denunciati da parte delle forze dell’ordine, in quanto solo queste ultime – come già detto – forniscono informazioni sulla cittadinanza degli individui denunciati. Come si è avuto modo di notare nella sezione Dati, le informazioni provenienti dalle forze dell’ordine sono disponibili solo per gli anni più recenti. La Tabella 1 presenta inoltre l’indice relativo di condanna degli immigrati in Italia. Si tratta in questo caso di immigrati dall’estero che hanno subito una condanna definitiva dalla giustizia italiana.

Calcoli come quelli della Tabella 1 presentano – è opportuno dirlo – alcune potenziali criticità. La prima deriva dal fatto che la componente maschile e quella femminile della popolazione non contribuiscono in modo uguale alla criminalità complessiva: il contributo della componente maschile è di gran lunga superiore a quello della componente femminile, che concorre a solo il 18% circa del totale degli imputati in Italia. Nella popolazione immigrata vi sono gruppi nazionali – come quelli provenienti in particolare da Paesi a prevalente religione islamica – in cui la componente maschile è largamente superiore a quella femminile. Se non si tenesse conto di questa caratteristica di genere, un’eventuale sovra-rappresentazione di questi gruppi nazionali tra gli imputati per delitti risulterebbe viziata. Si deve però tenere presente che in Italia, insieme ai gruppi nazionali con una maggiore incidenza maschile, vi sono gruppi nazionali – come quelli provenienti da diversi Paesi dell’Europa dell’Est – con una maggiore incidenza femminile. I due quadri contrapposti si bilanciano, cosicché nella popolazione immigrata totale in Italia la componente maschile e quella femminile si equivalgono sostanzialmente, così come avviene nella popolazione nativa. Il problema degli squilibri demografici di genere non sussiste se si prende in esame la popolazione immigrata nel suo insieme – come fatto in queste pagine – mentre sussiste se si prendono in esame i singoli gruppi nazionali.

Una seconda potenziale criticità deriva dal fatto che calcoli come quelli della Tabella 1 hanno difficoltà a tenere conto degli immigrati in condizione di irregolarità, cioè degli immigrati o entrati clandestinamente in Italia o restatici dopo la scadenza del permesso di soggiorno e del visto. La difficoltà a tenere conto di questa componente discende inevitabilmente dal fatto che si tratta di componente nascosta, per la quale esistono solo stime: tra il 2016 e il 2017, la componente irregolare era stimata all’8% circa della popolazione immigrata totale. Sappiamo, da indagini peraltro parziali, che la componente irregolare dell’immigrazione sembra essere decisamente sovra-rappresentata tra gli individui imputati. Il nostro indice tiene già conto al numeratore di questa componente irregolare, dal momento che il numero degli immigrati imputati registrati dal sistema giustizia italiano comprende regolari e irregolari (senza peraltro distinguerli), ma non ne tiene conto al denominatore. Se aggiungessimo la cifra stimata degli irregolari sia alla popolazione immigrata ufficiale sia alla popolazione residente in Italia, l’indice relativo di incriminazione degli immigrati dall’estero per, ad esempio, il totale dei delitti, passerebbe corrispondentemente da 2,45 a 2,28 e, nel caso dei soli stranieri, da 3,92 a 3,60: un cambiamento che non modifica sostanzialmente i risultati ottenuti sulla base dei più oggettivi dati ufficiali sulla immigrazione in Italia.

La terza criticità consiste nel fatto che la popolazione immigrata è più concentrata – rispetto a quella nativa – in particolari classi di età: quelle dei giovani adulti e degli adulti. Il problema è che proprio queste classi di età forniscono un maggiore contributo al fenomeno criminale, in Italia come negli altri Paesi. Non sorprendentemente, solo una piccola percentuale degli imputati è composta da anziani. La classe di età 18-49 anni comprende in particolare circa tre quarti di tutti gli imputati in Italia per i principali delitti qui considerati. Se non si tiene conto di questo, l’indice relativo di incriminazione rischia di fornire un’immagine non del tutto realistica della situazione. Alle cifre dell’indice relativo di incriminazione calcolato secondo la formula prima indicata, abbiamo aggiunto un nuovo calcolo in cui al numeratore vi è la percentuale di immigrati, imputati o denunciati, nella sola classe di età 18-49 anni, rispetto al totale della popolazione imputata o denunciata della stessa classe di età, e al denominatore la percentuale di immigrati nella classe di età 18-49 anni rispetto al totale della popolazione della stessa classe di età residente in Italia.

 

Tabella 1. Indice relativo di incriminazione e di condanna degli immigrati in Italia per i vari delitti: indice per gli immigrati dall’estero imputati; indice per i soli cittadini stranieri denunciati; indice per gli immigrati dall’estero condannati; indici degli immigrati per la sola classe di età 18-49 anni; anni di riferimento 2013-15 e 1988-90

Detto ciò, si possono avanzare alcune considerazioni sui valori che risultano dall’indice relativo di incriminazione. La Tabella 1 ci dice che, per quanto riguarda gli immigrati dall’estero, inclusi i cittadini italiani, l’indice per il totale delitti è pari a circa 2,5: il che significa che gli immigrati sono due volte e mezzo più numerosi tra gli imputati rispetto alla loro numerosità nella popolazione residente in Italia. Per i delitti di particolare gravità o diffusione che abbiamo selezionato, la media è superiore: 3,6. Per i tre delitti che, per la loro gravità, costituiscono la misura usuale della criminalità di una nazione, quella su cui si effettuano di regola le comparazioni internazionali, e cioè omicidio volontario, violenza sessuale e rapina, la sovra-rappresentazione media degli immigrati è 3,7 volte. I valori di sovra-rappresentazione per i singoli delitti sono peraltro decisamente dissimili. Si passa infatti dal valore più basso, quello riguardante l’associazione a delinquere, pari peraltro a 2,1 volte la numerosità degli immigrati nella popolazione residente in Italia, al valore per la rapina, 4,5 volte, fino al valore più alto, quello per lo sfruttamento della prostituzione, delitto nel quale la sovra-rappresentazione degli immigrati è di 6,5 volte.

L’indice per i soli stranieri presenta valori sempre più alti: per il totale delitti, la loro sovra-rappresentazione è poco meno di 4 volte; per la media dei delitti selezionati, è 4,8 volte; per l’omicidio, la violenza sessuale e la rapina, la media è 4,5; per il furto, 6,1; per lo sfruttamento della prostituzione, 8,5 volte. Questa differenza di valori tra l’indice per tutti gli immigrati e quello per i soli stranieri è sostanzialmente dovuta al fatto che il numero dei cittadini stranieri residenti in Italia è più basso del numero totale degli immigrati dall’estero. Quanto detto significa che la sovra-rappresentazione degli stranieri è assai più alta di quella degli immigrati: il che equivale anche a dire che l’incidenza relativa, sul totale dei denunciati, di quella parte degli immigrati dall’estero che possiedono la cittadinanza italiana è decisamente più bassa dell’incidenza dell’altra parte costituita da coloro che non la possiedono e che sono cittadini di altri Paesi.

L’indice relativo di condanna degli immigrati dall’estero conferma sostanzialmente le cifre degli indici di incriminazione: per il totale delitti, la sovra-rappresentazione degli immigrati è pari a 3,3 volte; per la media dei delitti qui considerati, 4,2 volte; per l’omicidio volontario, la violenza sessuale e la rapina, la media è 4 volte.

L’indice relativo di incriminazione degli immigrati dall’estero e degli stranieri per la sola classe di età 18-49 anni mostra valori di sovra-rappresentazione sempre inferiori a quelli precedenti. La diminuzione dei valori di sovra-rappresentazione è peraltro contenuta: questo perché, se da una parte la popolazione immigrata, a paragone di quella nativa, è maggiormente concentrata nelle fasce di età dei giovani adulti e degli adulti e poco presente nelle fasce degli anziani, dall’altra la percentuale di immigrati tra i denunciati e gli imputati nella classe di età 18-49 anni è più alta della percentuale degli stessi immigrati sul totale dei denunciati e degli imputati. Rimangono in ogni caso le forti differenze tra l’indice per gli stranieri e quello per gli immigrati. La sovra-rappresentazione per il totale delitti è pari a 1,9 volte nel caso di tutti gli immigrati dall’estero e pari a 3,2 nel caso dei soli stranieri. Per tutti i delitti qui selezionati, la sovra-rappresentazione media è di 2,7 volte per gli immigrati e di 3,7 volte per gli stranieri. E così di seguito.

Un confronto con quanto avveniva alla fine degli anni 1980, ossia in anni che rappresentavano il periodo della prima significativa ondata di immigrazione in Italia, può offrire lo spunto per qualche ulteriore riflessione. Per mancanza di dati più dettagliati, non è stato possibile separare gli stranieri dal totale immigrati; e non è stato possibile applicare la correzione per la sola classe di età 18-49 anni. Ciò nonostante, emergono alcune differenze significative. Alla fine degli anni 1980, la sovra-rappresentazione degli immigrati era, per alcuni delitti – rapina, violenza a pubblico ufficiale – e per la media dei dieci delitti qui selezionati, sostanzialmente corrispondente alla situazione negli anni 2010. Per qualche delitto – in particolare lesioni volontarie, sfruttamento della prostituzione ed estorsione – la sovra-rappresentazione era decisamente inferiore. Per traffico di droga, superiore. Per furto, molto superiore. Anche per il totale dei delitti, la sovra-rappresentazione era superiore. Ciò si spiega con il grande impatto che le cifre riguardanti il furto – il delitto di gran lunga più diffuso – hanno sul totale delitti.

 

5. Considerazioni conclusive

Ci si deve chiedere, a questo punto, quanto le considerazioni fatte a proposito degli immigrati imputati e denunciati per i vari reati, e più in generale a proposito della criminalità, siano rappresentative della realtà. Sicuramente, i crimini conosciuti sono, numericamente, decisamente inferiori ai crimini effettivamente commessi. Comparando le cifre dei crimini registrati dalla giustizia con quelle che emergono dalle dichiarazioni spontanee delle vittime nel corso delle cosiddette crime victim survey – indagini a campione condotte nei principali Paesi occidentali in cui si rilevano i reati di cui gli intervistati sono stati vittime – si giunge alla conclusione che i crimini ufficialmente conosciuti sono meno della metà del totale dei crimini commessi.

Ciò non costituisce però una valida ragione per ritenere che la criminalità emersa, ossia quella risultante dalle cifre ufficiali registrate dalla giustizia, non sia rappresentativa di quella reale, che comprende anche la componente sommersa, la cosiddetta dark figure del crimine. Già intorno al 1830, i cosiddetti statistici morali, ossia quegli scienziati sociali che avevano per primi condotti studi sistematici sulle statistiche criminali, avevano concluso che (a) il volume complessivo della criminalità e le sue varie manifestazioni dipendevano dalle caratteristiche della società e pertanto non mutavano se non a seguito al mutamento di queste ultime; (b) il rapporto tra criminalità sommersa ed emersa si manteneva ugualmente costante, tranne che nel caso di forti perturbamenti sociali, come guerre e rivoluzioni.

Negli ultimi decenni, in ogni caso, sono disponibili nuove informazioni sul rapporto tra criminalità emersa e sommersa. Si tratta dei dati che provengono dalle crime victim surveys: da queste indagini si ricava che il numero dei delitti registrati ufficialmente tende nel tempo a rimanere proporzionale al numero dei delitti dichiarati dalle vittime, il che equivale a dire che il crimine emerso – come sostenevano gli statistici morali dell’800 – non è una variabile indipendente rispetto al sommerso. Per i delitti di maggiore gravità o maggiore danno economico, la proporzione tra parte emersa e sommersa è simile nei vari Paesi occidentali.

Da tutto questo si può dedurre che non vi siano motivi sufficienti per negare l’affidabilità dei dati ufficiali sulla criminalità. Tuttavia quanto precede non risponde esaurientemente a un secondo punto specifico sottolineato dai fautori della costruzione sociale del crimine: ossia che nel passaggio dal sommerso all’emerso le agenzie del controllo sociale – in primo luogo le forze dell’ordine – operino un’arbitraria selezione, che porta a denunciare soprattutto gli autori di delitti appartenenti alle categorie socio-economiche ed etniche più deboli. Tra gli appartenenti a queste categorie sottoprivilegiate ci sono sicuramente una grande parte degli immigrati stranieri.

A queste critiche all’affidabilità dei dati ufficiali sulla criminalità si possono contrapporre diverse considerazioni. La prima considerazione riguarda la stessa provenienza delle denunce. La grande maggioranza dei delitti sono denunciati dalle stesse vittime e non dalle forze dell’ordine o dall’autorità giudiziaria, e la grande maggioranza degli imputati sono individuati direttamente sulla base delle indicazioni delle vittime. Pertanto l’eventuale contributo da parte delle cosiddette agenzie del controllo sociale a una discriminazione delle categorie socio-economiche ed etniche più deboli, e in particolare degli immigrati stranieri, è già in partenza limitato. D’altra parte non vi è motivo per ritenere che le vittime preferiscano denunciare gli autori di delitti quando questi siano immigrati stranieri. Non è infatti verosimile che un nativo, vittima ad esempio di lesioni volontarie, denunci il fatto e il suo autore, quando questi sia un immigrato e non lo faccia negli altri casi. Vi è anzi motivo di ritenere che avvenga spesso il contrario. Ad esempio, i furti sono un delitto che spesso non è denunciato, specialmente quando il danno è di modesto ammontare. Al tempo stesso, gli immigrati stranieri tendono a commettere furti (e altri reati economici) anche di modesto valore monetario, che sono denunciati dalle vittime con minore frequenza, riducendo quindi la dimensione della criminalità emersa nel caso degli immigrati. Si deve notare che gli imputati per furto costituiscono il gruppo più numeroso tra tutti gli imputati e incidono pertanto pesantemente sul totale degli imputati. Vi è quindi motivo di ritenere che il relativamente basso valore dell’indice relativo di incriminazione degli immigrati per il totale delitti (Tabella 1) sia sottostimato. Si deve inoltre notare che molti delitti commessi dagli immigrati sono delitti intra-immigrazione e soprattutto intra-etnici: ossia commessi a danno di altri immigrati appartenenti allo stesso gruppo etnico dell’autore del delitto. Ciò avviene comunemente nel caso di lesioni volontarie, furti, estorsioni, violenza sessuale e, ancora più frequentemente, di sfruttamento della prostituzione. Ora, è cosa nota che gli immigrati stranieri vittime di crimini tendono a denunciare questi ultimi in misura inferiore ai nativi, per via della loro estraneità rispetto alla società ospitante e non raramente per timore di complicazioni, ad esempio, a causa di una loro condizione di irregolarità. Gli immigrati vittime di crimini, inoltre, sono particolarmente restii a denunciare gli autori dei crimini quando si tratti di connazionali. Vi è quindi motivo per ritenere che il contributo degli immigrati alla criminalità sia significativamente sottostimato – piuttosto che sovrastimato – dalle cifre ufficiali del crimine.

Una seconda considerazione contro l’ipotesi che i dati sulla criminalità degli immigrati siano inficiati da un atteggiamento discriminatorio da parte delle agenzie del controllo sociale riguarda il confronto tra le diverse tipologie di delitti. In effetti, per alcuni delitti la denuncia proviene non dai comuni cittadini, come nella grande parte dei casi, ma direttamente dalle forze dell’ordine e dall’autorità giudiziaria. Tra questi delitti, ve ne sono tre di rilevante importanza: a) l’associazione a delinquere, delitto in sé, come già detto, indipendente dalla commissione dei delitti contemplati dal programma di delinquenza, e quindi in effetti delitto individuato dalle forze dell’ordine e dall’autorità giudiziaria, piuttosto che dai comuni cittadini; b) la violenza a pubblico ufficiale, in cui la vittima appartiene di regola proprio alle forze dell’ordine; c) il traffico di droga, che rientra tra i cosiddetti crimini senza vittima, ossia quei fatti criminosi in cui non vi è di regola vittima specifica, e il danno si ritiene sia arrecato all’intera società piuttosto che a qualcuno in particolare. Ora, se la criminalità degli immigrati fosse una costruzione basata su un atteggiamento discriminatorio anti-immigrati da parte delle agenzie del controllo sociale, la percentuale di immigrati stranieri imputati per i tre delitti appena descritti dovrebbe essere significativamente superiore alla percentuale di immigrati tra gli imputati per altri delitti. Così invece non è. La sovra-rappresentazione degli immigrati stranieri tra gli imputati per traffico di droga e violenza a pubblico ufficiale è sostanzialmente equivalente alla loro sovra-rappresentazione tra gli imputati per violenza sessuale: un crimine che, salvo rare eccezioni, emerge solo in seguito alla denuncia della vittima e in cui non si giunge all’imputazione dell’autore se non attraverso la sua identificazione da parte della vittima. Per quanto riguarda poi l’associazione a delinquere, la sovra-rappresentazione degli immigrati tra gli imputati è la più bassa tra quelle di tutti i crimini qui specificamente esaminati e inferiore alla sovra-rappresentazione degli immigrati per il totale dei delitti.

Alla luce di quanto precede, si può concludere che la sovra-rappresentazione degli immigrati tra gli imputati per fatti criminosi non sembra potere essere riportata a un asserito atteggiamento discriminatorio anti-immigrati dei membri delle agenzie del controllo sociale. L’affidabilità delle statistiche ufficiali della criminalità, anche per quanto riguarda il contributo degli immigrati, non sembra potere essere messa in discussione, almeno in termini generali.

Tale contributo, peraltro, presenta contorni più articolati di quanto si poteva forse immaginare. Un primo punto che emerge dalle pagine che precedono è costituito dal fatto che l’evoluzione della criminalità registrata in Italia negli ultimi decenni non può essere semplicemente riportata alla nuova immigrazione straniera, diversa, per la sua ampiezza e per la sua origine, da quella precedente e tradizionale. L’imponente crescita della presenza di immigrati stranieri in Italia non si è tradotta in un proporzionale e indistinto incremento della criminalità. Il tasso per popolazione degli omicidi volontari e dei furti è diminuito. Il tasso delle rapine e il tasso totale dei delitti sono rimasti sostanzialmente invariati. Quello di altri delitti, fra cui le lesioni volontarie, è aumentato anche per l’accresciuto contributo dato a questi delitti dai nativi. Inoltre il contributo degli immigrati non è uguale per i vari delitti: si passa da delitti come l’estorsione e l’associazione a delinquere, in cui gli imputati immigrati sono circa il 20% del totale, a delitti come l’omicidio volontario, in cui sono poco meno del 30%, alla violenza sessuale, in cui sono oltre il 35%, fino alla rapina e lo sfruttamento della prostituzione, in cui sono rispettivamente oltre il 40 e il 60%. Al tempo stesso, risulta evidente che la nuova popolazione immigrata rappresenta una componente primaria dell’evoluzione della criminalità in Italia nel corso degli ultimi decenni. Gli immigrati sono incontrovertibilmente sovra-rappresentati tra gli imputati e i denunciati per sostanzialmente tutti i delitti più rilevanti per gravità e diffusione. Anche nel caso di delitti, come l’omicidio volontario e il furto, per cui vi è stato negli ultimi anni un decremento dei tassi, questo decremento è da attribuire non a un limitato contributo da parte degli immigrati, ma a una riduzione del contributo dei nativi. Mentre in altri casi in cui si è avuto un forte incremento dei tassi – come è avvenuto per la violenza sessuale – tale incremento è stato associato a un altrettanto forte incremento del contributo degli immigrati.

Le indicazioni provenienti dagli indici di incriminazione degli immigrati dall’estero e degli stranieri sono sostanzialmente confermate dai risultati che emergono dall’indice di condanna degli immigrati. In effetti, tutti gli indici concordano. Le condanne in via definitiva costituiscono il risultato del lungo e articolato procedimento di giudizio caratteristico del sistema giustizia italiano. Il fatto che, al termine di tale procedimento per l’accertamento della colpevolezza, la sovra-rappresentazione degli immigrati tra i condannati sia anche superiore a quella degli stessi immigrati tra gli imputati sembra costituire una indicazione rilevante nel quadro di queste analisi.

Ulteriori importanti considerazioni possono essere avanzate sulla base di un raffronto tra l’indice relativo di incriminazione per il totale degli immigrati e l’indice per i soli stranieri. La decisamente più alta sovra-rappresentazione degli immigrati stranieri suggerisce che la probabilità di essere denunciati per avere commesso un delitto è nettamente minore per gli immigrati dall’estero che possedevano o hanno successivamente ottenuto la cittadinanza del Paese ospitante.

Altre considerazioni ci vengono dal confronto tra la situazione alla fine degli anni 1980, quando l’Italia si era trovata ad avere a che fare, per la prima volta, con una consistente e tumultuosa ondata di immigrati stranieri, e la situazione a metà circa degli anni 2010, caratterizzata da un’immigrazione in parte consolidata. I due periodi appaiono del resto differenziati anche alla luce dei dati riportati dalla Tabella 1. La Tabella in questione mostra come, alla fine degli anni 1980, la sovra-rappresentazione degli immigrati tra gli imputati fosse decisamente più alta di quella registrata ultimamente per i delitti di furto e traffico di droga. Si tratta di delitti orientati all’acquisizione di denaro facile, tipici di un’immigrazione recente, composta prevalentemente da soggetti in precarie condizioni economiche e privi di più articolate opportunità di acquisizione di benessere, che richiederebbero migliore integrazione e migliori relazioni sociali. Al tempo stesso, la Tabella 1 mostra come, alla fine degli anni 1980, la sovra-rappresentazione degli immigrati tra gli imputati fosse decisamente più bassa per delitti come l’estorsione e lo sfruttamento della prostituzione: delitti che presuppongono un certo grado di controllo del territorio.

In conclusione, vi è motivo per ritenere che la forte sovra-rappresentazione degli immigrati tra gli imputati, i denunciati e i condannati registrata in Italia negli ultimi decenni sia associata a flussi immigratori tumultuosi e sostanzialmente incontrollati, come quelli che hanno particolarmente caratterizzato l’Italia nella sua fase immigratoria iniziale, ma che ancora in parte sussistono. Il fatto che la popolazione immigrata in Italia sia caratterizzata da una alta presenza di stranieri, ossia di quella componente mediamente meno radicata nella società ospitante, costituisce un elemento significativo di questo scenario. Da una situazione immigratoria con queste caratteristiche ci si aspetta maggiori problemi di assimilazione e integrazione. Del resto, si deve notare come questi flussi tumultuosi e incontrollati sono avvenuti in un Paese con alcune caratteristiche – cui si è già accennato – come la forte disuguaglianza economica, l’alto tasso di disoccupazione, la rigidità del mercato del lavoro e la limitata libertà economica. Tutte caratteristiche che si ritiene non favoriscano l’integrazione degli immigrati e anzi contribuiscano a determinare anche per loro un quadro di negative condizioni socio-economiche. I risultati presentati nelle pagine precedenti suggeriscono – a conferma di quanto appena detto – che coloro che sono mediamente meno assimilati e meno integrati socialmente ed economicamente – tipicamente, gli immigrati stranieri rispetto agli immigrati in genere – abbiano maggiori probabilità di ricorrere al crimine.

Questo quadro ricorda quello delineato dalle maggiori teorie criminologiche, di cui si è detto all’inizio di queste pagine: teorie che individuano nella scarsità di opportunità lecite e nella mancanza di controllo sociale sull’individuo da parte della comunità locale dei fattori che favoriscono considerevolmente la propensione alla devianza e alla criminalità.

 

[1]  Cogliamo qui l’occasione per ringraziare vivamente l’Istituto Nazionale di Statistica per la sua preziosa collaborazione, che ci ha permesso di ottenere dati e informazioni senza le quali questa ricerca non avrebbe mai potuto essere realizzata.

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Un confronto tra legislature

Cosa è successo tra il 2008 e il 2017? Siamo usciti dalla crisi?

È proprio vero che la destra è sinonimo di ordine? Ma Renzi ha davvero fatto ripartire l’Italia? L’Europa è la causa di ogni male?

Con le elezioni alle porte sono queste le domande che si pongono tutti e alle quali si può rispondere con una semplice esplorazione dei dati.

Destra o sinistra? Un’analisi empirica di legislatura.




Quel diritto alla paura ignorato dalla sinistra

Sul problema degli stranieri i dati sembrano raccontare due storie alquanto diverse. Due storie, è bene dirlo subito, entrambe sostanzialmente veritiere.

La prima storia dice che gli stranieri, anche quando sono regolari, delinquono molto più dei nativi, in Italia come nel resto d’Europa (eccetto Irlanda e Lettonia). Su questo l’evidenza empirica prodotta indipendentemente (e con metodi in parte diversi) dagli studi di Luigi Solivetti e dai dossier della Fondazione David Hume è schiacciante: in Europa gli stranieri delinquono 4 volte più dei nativi, in Italia 6 volte. Nessuno sa, per mancanza di dati, il valore esatto del tasso di criminalità relativo degli stranieri irregolari, ma una stima di larga massima suggerisce che sia 30 volte quello degli italiani, e 10 volte quello degli stranieri regolari.

La seconda storia dice che, da un paio di anni, la maggior parte dei delitti, compresi quelli di grave allarme sociale, sono in diminuzione, in controtendenza rispetto alle percezioni del pubblico, che manifesta invece una crescente preoccupazione per la criminalità, specie se i reati sono efferati e gli autori dei crimini sono stranieri. Il tasso di criminalità relativo è più basso di quello di 10 anni fa. I media, specie la tv, dedicano uno spazio sproporzionato (rispetto a quello di altri paesi) ai fatti di cronaca nera. Quanto alla presenza degli immigrati nella società italiana, da anni tutte le rilevazioni demoscopiche mostrano che sia la presenza degli stranieri, sia la percentuale di immigrati musulmani, sono sovrastimate dal pubblico.

Che il primo racconto piaccia alla destra, e il secondo alla sinistra, fa parte della fisiologia della comunicazione politica, la cui essenza non è dire il falso, ma dire solo una parte della verità. Non per nulla la formula del giuramento in tribunale non prescrive di dire la verità, ma di dire “tutta” la verità.

La vera differenza fra i due racconti sta nelle conseguenze politiche che se ne traggono. La destra usa i dati per alimentare la paura, ingigantendo i pericoli, talora anche al di là di ogni ragionevolezza. La sinistra, viceversa, usa i dati per contestare la paura, specie quella verso gli immigrati, in base alla tesi secondo cui il pubblico sopravvaluta i pericoli.

Questo modo di impostare il problema era molto diffuso già alla fine degli anni ’90 e nei primi anni ‘2000, da cui traggo questa citazione: “La politica, una buona politica, dovrebbe prendere in carico le paure degli italiani e dimostrarne l’infondatezza” (copyright Livia Turco, ma è quel che pensavano quasi tutti a sinistra, con l’importante eccezione di Marzio Barbagli). Di qui un perdurante atteggiamento paternalistico, che contagia anche le menti più lucide e anticonformiste. In un’intervista a Repubblica di pochi giorni fa Massimo Cacciari (uno studioso con cui sono quasi sempre d’accordo) sembra pensare seriamente che, di fronte alle “menzogne della destra” la risposta delle sinistra debba essere “controbattere e razionalizzare”, “cambiare la comunicazione”, “rappresentare la questione degli immigrati in modo razionale”, “fornire dati economici”, “spiegare che non c’è un’invasione che toglie il pane alla gente”. Come se il problema fossero le “menzogne della destra” e non le paure della gente comune. Come se avere paura fosse irrazionale. Come se l’insicurezza fosse una mera percezione, che un racconto obiettivo potrebbe incaricarsi di sopprimere. Come se i dati fossero tutti e inequivocabilmente rassicuranti. Un illuminismo ingenuo sembra essersi impadronito, da almeno due decenni, della cultura di sinistra, cui non riesce proprio di prendere sul serio le paure della gente e la domanda di sicurezza che ne deriva. Eppure, pensare che i cittadini starebbero più tranquilli se solo conoscessero i dati è un non sequitur. Sarebbe come credere che, se sapessero che i morti sul lavoro sono in diminuzione, i sindacati non si preoccuperebbero più della nocività in fabbrica.

Chi ha paura di subire un furto o una violenza non è minimamente rassicurato dal fatto che questi due reati stiano diminuendo: semplicemente pensa che siano troppi (detto per inciso, non ha tutti i torti: i dati disponibili dicono che molti reati, pur in diminuzione, sono nettamente al di sopra dei livelli del 2007-2008). Chi pensa che ci siano troppi immigrati, perché li vede in coda davanti a sé in una ASL, o bighellonare presso un centro d’accoglienza, o spacciare droga sulle scale casa sua (come è capitato 20 anni fa a Italo Fontana, autore di un libro profetico sulla sordità della sinistra: Non sulle mie scale, Donzelli 2001), non si tranquillizza certo perché qualcuno gli dice che in Italia sono solo l’8%. E anche se i reati improvvisamente dimezzassero, resterebbe il fatto che il sentimento popolare non è fatto solo di paura, ma anche di indignazione. In molti casi quel che agita gli animi non è il timore di essere personalmente vittime di un crimine, ma sono le scarcerazioni facili, le pene ridotte, la sensazione di essere abbandonati e senza difesa (si pensi alle donne perseguitate da mariti o fidanzati violenti). E, nel caso degli immigrati, anche una credenza morale: l’idea che un ospite abbia uno speciale dovere di rispettare le regole.

La realtà è che la sinistra parla di xenofobia (paura dello straniero), ma la interpreta immancabilmente come xenomisia (odio per lo straniero). Ecco perché, per la cultura progressista, la paura non è semplicemente infondata, la paura è una colpa. Ma non è così, almeno dai tempi di Hobbes. La paura è il fondamento stesso del contratto sociale e dello Stato moderno, che nasce come antidoto alla sopraffazione, come superamento dello stato di natura in cui ogni uomo è “lupo” verso ogni altro uomo (homo homini lupus). Quando la paura riemerge, è perché la gente sente che lo Stato non è più in grado di far rispettare il contratto, ovvero di garantire ai cittadini il più “basico” dei beni, la sicurezza. Di fronte a questo sentimento, l’unica cosa che può attenuare la paura, e disinnescare la protesta, non è andare dai cittadini per convincerli che si stanno sbagliando, ma riconoscere il loro diritto di avere paura, e dimostrare, con i fatti, che lo Stato sta facendo tutto quanto è in suo potere per spegnerla.

Pubblicato su Il Messaggero il 9 Settembre 2017