Perché si fanno pochi figli – A proposito di “inverno demografico”

Nel 2011, in piena crisi finanziaria, per la prima volta dall’Unità d’Italia la popolazione italiana supera i 60 milioni di abitanti. Nei due anni successivi continua a crescere, toccando l’apice di 60 milioni e 350 mila abitanti nel 2013. Da allora inizia un inesorabile declino, che nel 2017 la riporta sotto i 60 milioni di abitanti, nel 2022 sotto i 59 milioni di abitanti, fino a questo 2023 che si chiuderà con una popolazione intorno ai 58.8 milioni di abitanti.

È un trend inesorabile?

Sì e no. Con le nascite scese sotto le 400 mila unità l’anno, e le morti salite intorno alle 650 mila (dopo i picchi dell’epidemia, quando avevano superato le 700 mila l’anno), lo sbilancio è di almeno 250 mila unità l’anno. Quindi il calo della popolazione è inevitabile, a meno che l’afflusso netto di stranieri si attesti intorno alla medesima cifra, o le donne residenti in Italia – italiane e straniere – tornino a fare figli.

Ma né la prima né la seconda condizione si stanno verificando. Come mai?

Apparentemente, il flusso degli stranieri (100-150 mila sbarchi l’anno, decine di ingressi dalla rotta balcanica, più 150 mila arrivi attraverso i decreti flussi) sarebbe sufficiente a neutralizzare il calo demografico “naturale”. Se ciò non avviene, è per un complesso di motivi: molti stranieri si limitano a transitare dall’Italia, diretti verso altri paesi europei; altri – per lo più irregolari – si fermano da noi, ma non prendono la residenza; quanto ai lavoratori ammessi con i decreti flussi, più di metà dei permessi sono stagionali. Il risultato è che la popolazione straniera residente, da circa un decennio, fluttua appena al di sopra dei 5 milioni di persone, senza alcuna capacità di attenuare il calo demografico.

Quanto alla seconda condizione, ossia una ripresa della natalità, è ancora più chimerica della prima. Le nascite sono poche sia perché, esaurito il baby boom degli anni ’50 e ’60, le donne in età fertile sono sempre di meno, sia – soprattutto – perché le donne fanno sempre meno figli. Ciò vale per le italiane, il cui tasso di fecondità è sceso sotto 1.2 nati per donna (era ancora vicino a 2 intorno al 1980), ma anche per le straniere, la cui propensione a fare figli – tuttora maggiore di quella delle italiane – è scesa ancora più rapidamente.

Quanto sia incisivo questo fattore lo rivela un semplice calcolo: se le donne italiane avessero un tasso di fecondità analogo a quello delle donne francesi (1.9), le nascite si salirebbero da meno di 400 mila a oltre 600 mila l’anno, una cifra quasi sufficiente a pareggiare il numero di morti.

Ma perché le donne italiane fanno così pochi figli?

Si sente spesso invocare la precarietà di tante occupazioni, la mancanza di asili nido, l’incertezza del futuro. Queste spiegazioni, tuttavia, sono basate su una confusione concettuale: è vero che con posti di lavoro meglio retribuiti, maggiori servizi sociali, un’economia più dinamica, il tasso di fecondità sarebbe maggiore di quello attuale; nello stesso tempo, però, non si può non notare che negli anni ’70 e ’80, quando i tassi di fecondità erano ancora prossimi a 2, la carenza di asili nido era ancora maggiore di oggi, la quota di posti di lavoro precari era analoga (se non superiore), e il tenore di vita era decisamente più basso di quello attuale. Quel che si tende a ignorare, se non a nascondere, è l’abissale cambiamento culturale che è intervenuto fra l’epoca in cui era il lavoro il centro delle nostre vite, e l’epoca in cui centrali sono diventati il consumo, l’intrattenimento, l’organizzazione scientifica del tempo libero. È perché teniamo troppo al nostro modo di vita e alle nostre più o meno abusate libertà che l’impresa di fare figli ci appare tanto ardua e rischiosa. Un figlio – non solo per la madre – significa meno cene con gli amici, meno weekend lunghi, meno svaghi, meno tempo per sé stessi, in definitiva: meno spensieratezza, fine dell’adolescenza prolungata. È anche per questo, e non solo per ragioni professionali, che una quota così ampia delle giovani donne che, alla fine, i figli comunque li fanno, attendono lo scoccare dei 30-35 anni, quando l’orologio biologico le avverte che il tempo sta per scadere.

La realtà indicibile è che, se non fossimo diventati una “società signorile di massa”, impegnata ad espandere senza limiti la sfera dei diritti, e refrattaria ad ogni contenimento dei desideri individuali, l’avventura di mettere al mondo dei figli ci spaventerebbe di meno.

Ecco perché le spiegazioni basate su precarietà, servizi sociali carenti, incertezza del futuro ci appaiono tanto seducenti, a dispetto della loro debolezza scientifica. Attribuendo a cause esterne l’origine delle nostre decisioni, quelle spiegazioni funzionano come perfette razionalizzazioni, che ci evitano il disagio di riconoscere le ragioni per cui, oggi, la scelta di fare e allevare figli è diventata così poco attraente.




Il partito del Pil

A che punto è il cosiddetto partito del Pil, ovvero l’Italia che non si è rassegnata al declino, e vorrebbe tornare alla crescita?

Il tema è stato sollevato con la consueta lucidità da Angelo Panebianco in un articolo sul Corriere della Sera di qualche giorno fa. Di fronte alla disastrosa gestione del caso dell’Ilva, ma soprattutto al perdurare di politiche assistenziali (quota 100 e reddito di cittadinanza) in entrambi i governi Conte, Panebianco suggerisce che ben poco sia cambiato nel passaggio dall’esecutivo giallo-verde a quello giallo-rosso, salvo il fatto che, ora, le deboli e timide istanze pro-crescita della società italiana anziché essere rappresentate dalla Lega vengono rappresentate da una parte del Pd (e, aggiungo io, da Italia Viva, il nuovo partito di Mattero Renzi). E lascia aperta la domanda cruciale: il partito del Pil è minoranza nel paese, o è semplicemente privo di un’adeguata espressione politica?

La mia impressione, ma potrebbe essere un’illusione dettata dallo sconforto, è che fra la gente, e non solo al Nord, il partito del Pil sia molto più forte di quanto suggerisca il balbettio delle forze politiche che, più o meno maldestramente, provano a interpretarne qualche istanza. E che ci siano ragioni ben precise per cui il partito del Pil non riesce a trovare un’espressione di governo adeguata.

La prima ragione è ovvia e strettamente politica: i Cinque Stelle, che sono l’espressione più pura del partito della decrescita, hanno la maggioranza relativa in parlamento, e quindi qualsiasi governo che li includa non può non avere un orientamento prevalentemente assistenziale. Ma ci sono anche altre due ragioni che, a mio parere, soffocano sul nascere la formazione di uno schieramento pro-crescita. Una a che fare con l’economia, l’altra con l’ideologia.

Sul versante dell’economia, è difficile non notare che sia la Lega sia il Pd hanno essi stessi una componente assistenziale molto forte. La Lega l’ha palesata clamorosamente anteponendo quota 100 alla riduzione delle tasse, il Pd la palesa ogniqualvolta (quasi sempre) antepone gli incrementi di spesa alle riduzioni delle tasse sui produttori, o preferisce migliorare le retribuzioni di chi ha già un lavoro piuttosto che rendere possibile la nascita di nuovi posti di lavoro. A questa debolezza dei timidi rappresentanti del partito del Pil si aggiunge un ulteriore handicap: né la Lega né il Pd ci hanno ancora spiegato se l’alleggerimento della pressione fiscale, che entrambi dicono di perseguire, intendono attuarlo facendo nuovo debito pubblico oppure no (al riguardo, la mia sensazione è che la Lega pensi di ridurre le tasse con un condono e portando il deficit vicino al 3%, e che il Pd semplicemente non abbia alcuna seria intenzione di ridurle davvero, le tasse).

Ma supponiamo, per un attimo, che fra Pd e Lega non vi siano differenze significative sulla politica economica, e che questi due partiti si ergano a rappresentanti del partito del Pil. Supponiamo anche che i Cinque Stelle scendano intorno al 10-15% dei consensi. Basterebbe questo a dare spazio al partito del Pil?

Secondo me no, perché nella politica italiana – ma oggi siamo costretti a specificare: nel modo di fare politica del mondo progressista – l’ideologia tende a prevalere su tutto. Per la sinistra, la Lega e il suo leader non sono normali avversari, portatori di un progetto politico alternativo a quello della sinistra. No, la Lega e i suoi alleati (specie Fratelli d’Italia), sono prima di tutto la manifestazione dei più torbidi impulsi della società italiana: razzismo, odio verso gli stranieri, antisemitismo, nostalgie fasciste, tentazioni autoritarie. La destra, oggi con Salvini come ieri con Berlusconi, è culturalmente indigeribile: altroché politica economica e partito del Pil! E’ come se, accecata dall’odio per il non-uomo Salvini, la sinistra avesse perso ogni capacità di discernimento, oltreché ogni rispetto per l’avversario.

Ecco perché penso che, alla fine, nonostante il partito del Pil sia forte nel Paese, non vi sia, attualmente, alcuna realistica possibilità di fornirgli un’espressione politica, anche nel caso i Cinque Stelle e le forze anti-crescita (quelle che plaudono alla chiusura o alla nazionalizzazione dell’Ilva) dovessero subire una severa sconfitta elettorale. La realtà, temo, è che le spinte assistenziali e la tentazione di affrontare i problemi facendo più debito sono fortissime tanto a destra quanto a sinistra. E lo sono perché i due partiti maggiori, la Lega e il Pd, pur non insensibili al “grido di dolore” del partito del Pil, non hanno più, se mai l’hanno avuta, la crescita nel loro DNA.

Da questo punto di vista l’esperienza dei due governi Conte è stata semplicemente illuminante. Non solo perché accomunati dalle due misure più anti-crescita (quota 100 e reddito di cittadinanza), introdotte dal primo e confermate dal secondo (con tanti saluti alla “discontinuità” invocata da Zingaretti), ma perché quel poco che li ha resi diversi è l’opposto di quel che Lega e Pd hanno sempre predicato. Il Conte 1, a trazione leghista, anziché ridurre le tasse ha aumentato la pressione fiscale, dopo un quinquennio di (sia pur modeste) riduzioni attuate dai governi di sinistra (Letta, Renzi, Gentiloni). Il Conte 2, a trazione Pd, dunque in linea di principio ligio alle regole europee, ha esordito facendosi concedere dall’Europa 16 miliardi di spesa in deficit, così interrompendo i sia pur modesti segnali di miglioramento dei conti pubblici emersi durante il breve regno dell’antieuropeo Conte 1.

Che dire?

Anche ammesso che, come sono incline a pensare, il partito del Pil sia maggioranza nel Paese, le due forze principali che dovrebbero rappresentarlo, la Lega e il Pd, non sembrano al momento all’altezza del compito. Non solo perché ferocemente ostili l’una all’altra, ma perché entrambe possedute dai due demoni che insidiano il ritorno alla crescita: l’incapacità di ridurre le tasse sui produttori, e la sempiterna tendenza a comprare il consenso con nuove spese.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 16 novembre 2019



Perché la sinistra è all’anno zero

Quello che segue è il testo originale dell’intervista di Annalisa Chirico a Luca Ricolfi. Una versione ridotta è uscita sul “Foglio” venerdì 7 settembre 2018.

Professore, a seguire il dibattito italiano, che sensazione ha? Si annoia, è nauseato, è indifferente…

Il dibattito non esiste, perché non c’è più l’opinione pubblica. Gli scambi di opinioni (talora di invettive) tra personaggi pubblici sono sostanzialmente irrilevanti (e questo vale anche per me e per quel che dirò). Un vero dibattito presuppone che ci siano persone autorevoli, rispettate da tutti o quasi, le cui prese di posizione obbligano gli altri a misurarsi.

Non è più così da almeno un quarto di secolo, ossia da quando si è instaurata la curiosa credenza che tutte le opinioni siano egualmente valide, una credenza su cui i grillini si sono buttati a pesce, trasformandola in un credo. Viviamo in un tempo in cui ci sono centinaia di personaggi carismatici, che si contendono i like della “ggente”, ma non ce n’è nemmeno uno che sia autorevole.

Quanto al mio stato d’animo sì, sono molto annoiato, perché non leggo o ascolto quasi mai qualcosa di interessante. Ma se devo scegliere un’espressione per il mio stato d’animo, direi che ho il mal di mare, che è un mix di nausea e senso di impotenza di fronte agli eventi.

Nel governo sono sempre più evidenti le due diverse anime. Salvini ha monopolizzato il dossier immigrazione che gli consente di capitalizzare il consenso e di monopolizzare la comunicazione. Di Maio cerca di ritagliarsi spazi sui dossier economici. Quanto può durare una simile combinazione?

Abbastanza, secondo alcuni. L’ex ministro Minniti, per esempio, la settimana scorsa ha affermato che quello fra Lega e Cinque Stelle è un patto di potere, come quello fra democristiani e socialisti ai tempi del Pentapartito: apparentemente litigavano ogni giorno, in realtà stavano ben saldi sulle rispettive poltrone.

Io sono meno pessimista di Minniti, perché intravedo una differenza fondamentale fra pentapartito e governo giallo-verde: ai tempi del pentapartito si potevano sommare le richieste dei democristiani e dei socialisti aumentando il debito pubblico, oggi è molto più difficile sommare le richieste di leghisti (flat tax) e Cinque stelle (reddito minimo, erroneamente chiamato di cittadinanza), perché il loro costo è elevatissimo, e il debito pubblico si può aumentare sensibilmente solo uscendo dall’Europa.

Il M5S ha già pronto il dopo-dimaio, con l’ala Beppe Grillo, Di Battista e Fico, quella purista, diciamo così, pronta a inaugurare il ritorno alle origini.

Saranno puri, ma sono anche molto sprovveduti. Non vedo facile un cambio di leadership, perché se il governo avrà successo Di Maio diventerà inamovibile, mentre se fallirà nessuna nuova dirigenza sarà in grado di resuscitare il Movimento.

Per Salvini si aprono praterie sterminate: sarà lui il nuovo leader del centrodestra?

Questa è la prospettiva più probabile. Però Salvini sottovaluta alcuni meccanismi, che alla lunga potrebbero ridimensionarlo. Il primo è la fine della luna di miele elettorale, che dovrebbe esaurirsi intorno a Natale. Il secondo è l’azione della Magistratura, che nel breve periodo lo ha rafforzato ma nel medio periodo potrebbe logorarlo. Il terzo è la reazione dell’elettorato moderato, che oggi rigetta l’estremismo umanitario del Pd e della Chiesa, ma domani porrebbe eccepire sull’estremismo anti-umanitario del leader leghista, specie nel caso in cui la Chiesa si decidesse ad assumere posizioni più pragmatiche e meno ideologiche di quelle attuali.

L’immigrazione è il tema che sta decidendo le elezioni in tutta Europa. Anzitutto, secondo lei siamo ancora in una fase di emergenza? A guardare i numeri, si direbbe di no. Meno 80 percento dal luglio 2017.

Quando si parla di emergenza bisogna distinguere. Se per emergenza si intende la presunta “invasione” via mare attuata attraverso gli sbarchi, non c’è dubbio che non c’è più alcuna emergenza, e che buona parte del lavoro l’ha fatto Minniti, non Salvini (anche se io non sottovaluterei il valore aggiunto simbolico apportato da Salvini: la gente sa che il governo sta facendo il possibile per impedire gli ingressi irregolari in Italia, mentre prima aveva la sensazione che i migranti ce li andassimo a prendere).

Se per emergenza, invece, si intende la presenza di un numero imprecisato ma comunque molto alto di migranti irregolari in Europa, direi proprio che l’emergenza c’è eccome, e tanto per cambiare è concentrata in Italia. Il problema vero dell’immigrazione non è più, ormai, un problema di flussi, ma è un problema di stock, ossia di flussi accumulati negli ultimi 7 anni. Facciamo due conti: fra l’inizio delle cosiddette primavere arabe e oggi sono sbarcati in Italia circa 800 mila migranti. Di questi una piccola parte, dell’ordine di 50-60 mila, aveva il diritto di entrarci in quanto rifugiato. Un’altra parte, 250-300 mila, ha ottenuto o otterrà altre forme di protezione, che tuttavia hanno per lo più carattere temporaneo. Il resto, quasi mezzo milione di persone, semplicemente risiede illegalmente in Europa.

Dove stanno costoro?

In parte stanno in Italia, dove lavorano in modo irregolare o al soldo della criminalità, in parte sono transitati in altri paesi europei, da cui, in base alle assurde regole europee, possono essere rimandati nel paese di prima accoglienza, tipicamente l’Italia. E’ questa la vera perdurante emergenza, rispetto alla quale anche Salvini non è riuscito a far nulla.

Vorrei ricordare che il tasso di criminalità relativo dei migranti è 4 in Europa e oltre 6 in Italia, ma supera 20 (e addirittura 30 secondo alcune stime) per i migranti irregolari in Italia. In concreto questo vuol dire che ci vogliono 20 o 30 italiani per fare altrettanto danno di quello che fa 1 solo migrante irregolare.

A proposito della capacità salviniana di cavalcare l’emergenza che non c’è, Marco Minniti ha parlato di “strategia della tensione comunicativa”.

Ha ragione, la Lega aumenta le paure dei cittadini. Ma si potrebbe ribattere che la sinistra ha passato gli ultimi tre decenni a smontare paure perfettamente giustificate, attuando una sorta di “strategia della DIStensione comunicativa”. Non so chi sia da biasimare di più. L’ira popolare contro il Pd è anche figlia del negazionismo della sinistra, che per anni e anni si è rifiutata di “vedere” quel che pure aveva sotto gli occhi.

Le piace il modello australiano del “no Way”?

Non ne conosco i dettagli, ma vorrei dire una cosa di mero buon senso storico in proposito. Noi europei illuminati accusiamo di razzismo, disumanità, xenofobia qualsiasi Stato che, in una forma o nell’altra, schieri l’esercito ai propri confini, impedendo l’entrata illegale sul suo territorio. Ma questo è semplicemente normale, è quello che da che mondo è mondo gli Stati e gli imperi hanno sempre fatto, contro ogni tipo di ingresso irregolare. I confini e le dogane servono a questo, a proteggere un territorio. Su questo l’Europa ha preso un incredibile abbaglio logico: prima abbiamo fatto cadere i dazi interni (fra aree del Paese), poi abbiamo fatto cadere le barriere commerciali fra Stati europei (mercato comune), poi con Schengen abbiamo consentito la circolazione delle persone nello spazio europeo. Infine, abituatici all’idea che chiunque può andare dove vuole, non ce la siamo sentita di difendere sul serio le frontiere dell’Europa, quasi che il confine Italia-Africa fosse assimilabile a quello fra Belgio e Olanda.

Adesso si parla di muri eretti dagli Stati europei, ma la realtà è che la chiusura reciproca fra gli Stati dell’Unione è la conseguenza dell’incauta scelta di non difendere militarmente i confini esterni. Una scelta su cui hanno inciso sia la domanda di forza lavoro a basso costo da parte delle imprese, sia l’ideologia dei diritti umani e della libera circolazione delle persone. Un patto d’acciaio fra liberisti e libertari che è stato compreso tempestivamente da pochi, fra cui qualche intellettuale di estrema sinistra (Slavoj Žižek, ad esempio). L’anticapitalismo radicale, che vede le migrazioni come “deportazioni di massa” a favore dei cattivi capitalisti, ha capito la situazione molto meglio della sinistra moderna e illuminata e pro-mercato, abbagliata dal mito del “gettare ponti” fra le civiltà.

A mio parere, la strada giusta non è chiudersi dentro la “fortezza Europa” e non accettare più uno straniero, ma garantire che gli ingressi siano esclusivamente legali, attraverso i corridoi umanitari e un afflusso controllato di migranti economici.

Da uno studio dell’istituto Cattaneo, emerge che per il 70 percento degli italiani gli immigrati presenti sul territorio nazionale sarebbero quattro volte quelli effettivi (circa il 7% della popolazione).

Ma lo sa l’Istituto Cattaneo che la maggior parte degli intervistati non fa di mestiere né lo statistico né lo scienziato sociale?

Lo sa che le credenze numeriche dei cittadini sono QUASI SEMPRE sbagliate, in qualsiasi campo le si indaghi? Se da un sondaggio venisse fuori che la maggior parte degli italiani pensa che i morti sul lavoro siano più di 5000 all’anno, anziché 1000 come effettivamente sono, che cosa ne dedurremmo? Credo che ci limiteremmo a dire che gli italiani sono preoccupati per la sicurezza sui posti di lavoro, e non ci azzarderemmo certo ad accusare i sindacalisti di essere “imprenditori della paura”…

Sulla vicenda della capotreno di Trenord che ha pronunciato parole irripetibili a proposito degli zingari lei ha detto che, al di là della forma, il senso dell’annuncio era sensato.

Lo ribadisco. Chiunque non viaggi in business class o con l’auto di servizio, e sia costretto a prendere treni locali, conosce perfettamente lo stato d’animo di esasperazione, impotenza, e anche di umiliazione, che nella gente normale suscita l’anarchia sui treni presi d’assalto da bande di passeggeri non-paganti, non importa se costituite da tifosi, bagnanti, gang giovanili, questuanti, zingari, o qualsiasi altro gruppo di persone che semplicemente se ne infischia delle regole. La cosa curiosa è che chi reagisce al mancato rispetto delle regole viene accusato di razzismo, xenofobia, intolleranza del diverso, e chi si proclama civile e “umano” se la prende con chi reagisce, anziché con chi viola le regole del vivere civile.

Perchè nella sinistra progressista l’ideologia sembra prevalere ancora sul senso comune? Perchè la sinistra, e i suoi rappresentanti, paiono così distanti dalla “gente”?

Non “paiono”, lo sono proprio, forse irrimediabilmente. Pur avendo, come sociologo, studiato il fenomeno, confesso che l’incapacità della sinistra di osservare la realtà con distacco conserva per me qualcosa di misterioso, quasi fosse un difetto genetico. La persona di sinistra tipica, che sia un politico o semplicemente un simpatizzante impegnato, si distingue per la sua completa mancanza di curiosità per il diverso (a meno che sia esotico), e per l’ostinazione con cui – in qualsiasi situazione – cerca solo ed esclusivamente la conferma della giustezza delle proprie convinzioni. Sul piano psicologico credo che il meccanismo sia chiaro: il militante di sinistra si nutre di autostima, e ha quindi un continuo insaziabile bisogno di conferme di essere nel giusto o, come ama dire, di rappresentare “la parte migliore del Paese”. Perché non riesca a liberarsi di questa sindrome, tuttavia, non arrivo a comprenderlo, visto che l’auto-accecamento ideologico è per lo più controproducente.

Alle volte, come direbbe Altan, mi vengono idee che non condivido, ad esempio questa: forse è di destra semplicemente chi non ha un grave deficit di autostima, e può quindi permettersi di reggere il disprezzo dei benpensanti.

Dalle statistiche del prof Barbagli, emerge che gli immigrati commettono alcuni reati (furti, borseggi etc) in percentuale maggiore degli italiani. Ma dirlo è indice di razzismo.

Barbagli è uno dei pochissimi sociologi di sinistra in cui la curiosità scientifica prevale sulla volontà di dimostrare una tesi politica formulata a priori, ossia prima di vedere i dati. E lo è da sempre. E’ lui che ha scritto Immigrazione e criminalità in Italia, un libro di vent’anni fa che squarciava il velo. Ma quasi nessuno, a sinistra, volle accettare quei dati, perché riconoscerli avrebbe fatto crollare il mito della intrinseca bontà del fenomeno migratorio.

La cultura di sinistra in Italia fornisce la più impressionate conferma empirica della teoria della riduzione della dissonanza cognitiva, formulata dal grande psicologo sociale Leon Festinger nel 1957: quando la realtà smentisce le nostre credenze non cambiamo le credenze, ma cerchiamo di reinterpretare la realtà per rimetterla d’accordo con le credenze che ci fanno stare bene. Negando i dati, o ignorandoli, naturalmente.

Dal 2013 sono arrivati in Italia 700mila migranti, attualmente si contano 135mila ricorsi per richieste d’asilo. Qualcuno si domanda dove siano finiti tutti gli altri…I più hanno usato l’Italia come terra di passaggio per spostarsi in nord Europa. Chi rimane da noi di solito entra nell’economia illegale. Ma se lo dici sei razzista.

Esatto, è in questo senso che dicevo che non è vero che l’emergenza sia finita. L’emergenza sono le legioni di irregolari in Europa, che circolano senza averne diritto. Nessuno sa esattamente quanti siano, ma un rapido conto con i pochi dati disponibili suggerisce che non possano essere meno di un milione di persone.

Lei crede alla storia che gli italiani siano diventati razzisti?

Come studioso provo imbarazzo nel vedere tanti colleghi dare credito a questa tesi, che indubbiamente ha un’utilità politica, ma è priva di sostegno empirico. La tesi dell’italiano diventato razzista si basa su un errore logico. Dal fatto che si osino esprimere sentimenti di ostilità verso gli immigrati si deduce un cambiamento degli atteggiamenti di fondo degli italiani. Non si vuole capire che quel che è successo è molto più semplice: nel clima precedente all’avvento di questo governo, certe idee non potevano essere espresse per timore di essere stigmatizzati dalla cultura dominante cattolico-democratica-accogliente, mentre ora trovano libero corso perché esistono un governo e una maggioranza che le sostengono.

In breve, gli italiani ieri come oggi non sono razzisti, ma semplicemente ostili all’immigrazione incontrollata, perché ne vedono le conseguenze, nei quartieri popolari, nelle scuole, presso le ASL. La differenza è che ieri tacevano intimiditi dal clima dominante, ora si sentono più liberi di dire la loro. Il meccanismo è lo stesso di 25 anni fa, quando vinse Berlusconi: la maggioranza degli italiani è sempre stata cauta e conservatrice, ma solo dopo il 1994 è diventato relativamente facile dichiararsi “di destra”.

E’ sempre il medesimo errore, che si ripete eguale a sé stesso. Quando perdono le elezioni, i progressisti credono che gli italiani siano cambiati, e siano improvvisamente diventati nostalgici, fascisti, xenofobi, razzisti, mentre quel che accade è molto più elementare: in certi momenti l’egemonia culturale della sinistra si allenta, e quindi gli italiani si sentono liberi di dire quel che pensano. Non è bello, ma è tutto qui. Siamo un popolo fondamentalmente conservatore e acquiescente, che ogni tanto – quando il costo dell’esternazione si abbassa – rivela quel che pensa

Perchè, se tutte le statistiche confermano il calo dei reati, le persone si sentono più insicure?

Per vari motivi, ma forse due sono più importanti degli altri. Il primo è che fa parte della modernità (e del welfare stesso!) uno spettacolare, talora ossessivo ed eccessivo, aumento degli standard di sicurezza. Se la televisione ti terrorizza persino per le tue placche dentarie, è logico che tu ti preoccupi ancora di più di non essere derubata, picchiata, violentata, accoltellata per strada o all’uscita da una discoteca. Il secondo motivo è l’ineccepibile teorema-Serracchiani: se a farti del male è un ospite, che noi abbiamo salvato in mare, rifocillato e accolto, hai tutto il diritto di indignarti molto di più.

Non trova paradossale che si accusino, a ragione, gli “impresari della paura” quando cavalcano emergenze inesistenti come l’invasione straniera mentre c’è una forma di sudditanza verso chi agita l’emergenza femminicidio, anch’essa smentita dai numeri.

Sì, è paradossale ma è la norma. Fra le ineguaglianze del nostro mondo c’è anche il trattamento discriminatorio cui vengono sottoposte alcune delle “buone cause”, a fronte del trattamento privilegiato riservato ad altre. Ci sono in giro per il mondo decine di migliaia di buone cause, ma solo alcune ricevono supporto finanziario e adeguato sostegno morale. Nessuno si impegnerebbe per la causa delle nonne non autosufficienti, ma il salvataggio di una specie rara di volatili in Amazzonia può ricevere milioni di like. Così è per i temi politici: la nostra è una cultura dei diritti di alcune specifiche minoranze (o presunte tali: le donne sono maggioranza…), che però diventa completamente muta di fronte ai diritti meno glamour (ad esempio che i ponti e le scuole non crollino, o che le case popolari siano occupate da abusivi).

Mentre sulla nave Diciotti si consuma un braccio di ferro con decine di persone ammassate per giorni, e due soli bagni in uso, Matteo Renzi è impegnato nelle riprese del programma tv sulle bellezze di Firenze.

Mi sembra una fotografia perfetta del ragazzo di Rignano.

Qual è il suo giudizio su Renzi? Lei vede leadership alternative emergenti? A ottobre ci sarà la Leopolda: lei parteciperebbe nelle vesti di sociologo per parlare di immigrazione e dintorni?

Sulla mia partecipazione, mai dire mai. Però tenga presente che, almeno finora, la sinistra – cui pure appartengo – mi ha sempre considerato radioattivo, e tenuto rigorosamente fuori del suo circuito.

Quanto a Renzi, sono fra gli ingenui che ha fatto la coda alle primarie per fargli vincere la partita con Bersani. Il mio giudizio è lo stesso che i cinesi danno su Mao Tse Tung (o come diavolo si scrive oggi): “70% giusto, 30% sbagliato”.

Oggi non lo rivoterei, non per gli errori che ha commesso, ma perché non li ha riconosciuti, quando farlo sarebbe stato utilissimo e salvifico per il Pd. Detto questo, non vedo leader più validi di lui, se a un leader si chiede anche energia e capacità di entrare in sintonia con i cittadini. Calenda e Minniti sono ottimi, ma non mi sembrano avere la stoffa del leader. Cuperlo, di cui ho grandissima stima, è un intellettuale del Novecento (anzi dell’Ottocento, se badiamo alla cortesia e alla signorilità dei modi). Zingaretti è solo un Bersani più giovane. Umanamente il mio preferito è Richetti, ma non so se abbia la stoffa del leader.

Veniamo ai temi economici. Lei ha criticato il decreto dignità. Adesso, dopo il crollo di ponte Morandi, il vicepremier Di Maio annuncia che il governo procederà alla revisione delle concessioni, e che alternativamente si procederà a nazionalizzazioni o a modifica delle clausole contrattuali…Certo, messa così, fa un po’ paura. (effetto sugli investitori, è bene tornare allo stato padrone? Etc)

No, tornare allo Stato padrone è una pessima idea. Ma rinunciare alla vigilanza, al controllo, alla trasparenza, come finora tutti i governi hanno fatto, è forse anche peggio.

In due mesi gli investitori esteri hanno ridotto l’esposizione sull’Italia per oltre 70 miliardi di euro. Ora l’Italia guarda anche alla Cina come possibile finanziatore del debito pubblico. Ma Di Maio ha rassicurato tutti dicendo che è “allarmismo infondato” e che il governo punterà sul “contatto diretto” con gli investitori.

Spero che Di Maio, quando dice queste stupidaggini, poi si faccia una risata davanti allo specchio. Se invece prende sul serio quel che dice, la situazione può diventare molto pericolosa.

Lei crede alla tesi del “complotto” dei mercati? Si evocano da più parti i “poteri forti” che non vorrebbero questo governo…

La tesi del complotto non regge, perché i mercati (cioè gli investitori) si preoccupano solo di far soldi, non certo di rovesciare i governi. Quel che c’è di vero, però, nella visione paranoide del ruolo dei mercati, è che può accadere che i mercati scommettano al ribasso su un paese, trascinandolo nel baratro. E’ successo nel 2011, anche perché parte dell’establishment europeo puntava sulla caduta del governo Berlusconi, potrebbe benissimo risuccedere oggi.

L’Ocse certifica che l’Italia è l’unico paese del G7 dove la crescita economica rallenta. Forse si stanno realizzando i sogni grillini di “decrescita”..Lei prevede che sarebbe una decrescita “felice” à la Latouche?

La “decrescita infelice” l’abbiamo già avuta nel 2008-2014. Da questo governo io non mi aspetto decrescita, ma un tonfo, se Tria e Mattarella non ce la fanno a fermare i due scavezzacolli.

Da dove dovrebbe ripartire, secondo lei, l’alternativa al fronte populista? Dall’europeismo? Dal lavoro? …Giuliano Ferrara dice che i sovranisti vanno contrastati non per quello che fanno, ma per quello che sono. Si riferisce all’idea dei muri, dell’antiglobalismo, delle paure infondate etc

Non credo che, oggi come oggi, uno schieramento pro-Europa abbia molte possibilità di successo, chiunque lo guidi. Dire che “ci vuole più Europa” è stato uno sbaglio enorme, quando i difetti dell’Unione europea erano sotto gli occhi di tutti da almeno 3 legislature. Basterebbe rileggere (anzi leggere, perché sicuramente a sinistra non l’hanno letto) Rischi fatali, la spietata analisi dell’Europa che Giulio Tremonti fece all’inizio della legislatura 2004-2009.

Per me demonizzare il cosiddetto sovranismo è una sciocchezza, che potrà portare solo a una Caporetto politica del “fronte democratico”, o come diavolo vorranno chiamarlo. La critica dell’Europa non può essere monopolio del fronte populista, ma andrebbe sostanzialmente condivisa. Dovrebbe essere un presupposto comune di tutte le forze politiche, come la democrazia è stata l’orizzonte comune di destra e sinistra. L’Europa ha portato alcuni vantaggi, ma politicamente ha fallito. Se non si riconosce questo, se ci si trincera dietro la stanca retorica del “sogno europeo”, si consegna l’Europa ai suoi nemici.

Una volta accettato che TUTTI siamo profondamente scontenti dell’Europa, e che su tante cose i populisti hanno le loro ragioni, si può cominciare a spiegare – se ci si riesce – dove e perché le loro non sono le soluzioni ottimali. Che esistono soluzioni migliori. E che certi rischi, primo fra tutti il collasso dell’euro, non li vogliamo correre.

Intervista a cura di Annalisa Chirico pubblicata su Il Foglio del 7 settembre 2018



Austerità: definizione

L’austerità, ossia quelle misure volte a ridurre il disavanzo e, quindi il debito pubblico, attraverso tagli alla spesa o aumenti della tassazione, è stata spesso interpretata come fattore di recessione e di ineguaglianze. Per questo, negli anni di crisi, la maggior parte degli esponenti politici ha fatto passare il messaggio che l’austerità sia dannosa e, quindi, da evitare proprio come quelle medicine che uccidono il malato invece di curarlo: la Grecia ne sarebbe il perfetto esempio. A supporto di questa tesi, però, raramente sono state offerte analisi empiriche o esperienze reali. Un esame dei dati dimostra, invece, che i paesi che hanno messo i conti pubblici ordine crescono più di quelli che non lo hanno fatto, come l’Italia, dove –  a dispetto dei molti proclami – dell’austerità proprio non c’è stata traccia: nell’ultimo triennio la politica fiscale è sempre stata espansiva. Eppure, non c’è leader italiano che non chieda all’Europa di mettere fine al rigore per rilanciare lo sviluppo.

Fare chiarezza, soprattutto in tempi di campagna elettorale, è quindi doveroso, partendo proprio dalla definizione dell’austerità che, va ricordato, non è imposta né da Bruxelles – né tantomeno dalla Germania – ma è semplicemente il frutto delle decisioni dei governi nazionali che hanno lasciato che le finanze dello Stato finissero fuori controllo. Peraltro, quei politici che declamano a gran voce “basta con l’austerità, ora ci vuole la crescita”, stanno compiendo – alcuni inconsapevolmente per la verità – un errore di fatto e anche un errore di prospettiva, perché scambiano quello che è un obiettivo – la crescita – per uno strumento l’austerità, inevitabile in alcune circostanze.

L’austerità: una scelta nazionale, non un’imposizione europea

Quando si è vissuto per molto tempo al di sopra dei propri mezzi, continuare ad accumulare debito non è un strada percorribile: arriva un momento in cui la fiducia degli investitori viene meno perché temono di non poter essere rimborsati, e di conseguenza, smettono di comprare titoli di debito pubblico. A quel punto, senza più l’accesso ai mercati, per ottenere finanziamenti non resta che rivolgersi ai partner europei. Questo è ciò che hanno fatto Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Cipro quando sono entrati in crisi. In cambio degli aiuti, i creditori hanno chiesto loro, da un lato, riforme per far ripartire l’economia, dall’altro un piano di consolidamento per mettere in sicurezza le finanze pubbliche. L’obiettivo è quello di creare (o ri-creare) le condizioni affinché il paese debitore possa in futuro rimborsare il prestito ricevuto. Queste condizioni, nella narrazione che ha prevalso di recente, hanno via via acquisito una connotazione negativa. A guardar bene, però, i creditori dei paesi in crisi, non sono altro che i cittadini europei, inclusi quelli più poveri, come gli estoni o i lituani. Questi ultimi hanno contribuito finanziariamente a tutti i piani di aiuti, a cominciare da quelli ellenici, nonostante abbiano una ricchezza pro-capite tra le più basse d’Europa e di gran lunga inferiore a quella dei loro debitori. In quanto membri del “Club dell’euro” non avrebbero potuto fare diversamente: condividere la stessa moneta implica anche essere solidali con chi è in difficoltà, altrimenti, la crisi di un singolo rischierebbe di espandersi e contagiare l’intera area, con conseguenze negative per tutti gli stati membri.

L’austerità: una medicina amara ma invitabile

L’austerità, quindi, in certi momenti, è inevitabile, sebbene non tutti i programmi di aggiustamento sortiscano lo stesso effetto sull’economia. Tali effetti dipendono in gran parte dal modo in cui il programma viene implementato. Da una parte c’è un’austerità “buona” che ha un impatto espansivo sull’economia e prevede meno tasse, una ricomposizione della spesa verso investimenti e infrastrutture, ed è sostenuta da un piano di riforme strutturali. Dall’altra parte, c’è quella “cattiva” che, invece, è recessiva perché aumenta (molto) le tasse, e riduce (poco) la spesa corrente (per intenderci, il comparto che finanzia la macchina dello stato e va dagli stipendi dei dipendenti pubblici ai costi per le auto blu). Il problema è che questa austerità “cattiva” tende a prevalere, perché politicamente meno impegnativa: un tratto di penna è sufficiente per innalzare le tasse, mentre diminuire le spese significa esporsi a lunghe negoziazioni con centri di interesse organizzati e influenti, un’operazione che comporta una inevitabile perdita di consenso – almeno nell’immediato: non stupisce, quindi, che governi tecnici,  privi di un forte mandato elettorale,  come quello di Mario Monti nel 2011, ad esempio -, abbiano fatto ricorso proprio all’austerità “cattiva”.  In definitiva, è un errore pensare che esista un unico modello di austerità. Si può dire, piuttosto, che esistono tipi diversi di piani fiscali, alcuni recessivi e altri no. E, infatti, i paesi che, negli ultimi cinque anni (2011-2016), hanno implementato l’austerità “buona”, e quindi hanno tagliato le spese improduttive, sono cresciuti: nel 2016, l’Inghilterra ha sfiorato il 2 per cento, la Spagna il 3 per cento, l’Irlanda il 5 per cento. L’Italia che, invece, la spesa l’ha aumentata, si è fermata all’1 per cento.

Peraltro, se i governi rispettassero le regole fiscali – che per inciso, hanno tutti discusso, concordato e sottoscritto -, e pertanto tenessero i conti in ordine, il debito non si accumulerebbe e dell’austerità non ci sarebbe neanche bisogno. Tuttavia, sono proprio gli iscritti al partito dell’anti-austerità a chiedere di derogare alle suddette regole e a invocare “flessibilità di bilancio”, ossia un’interpretazione più morbida del Patto di Stabilità e Crescita (fortemente voluta dal Presidente della Commissione europea, il lussemburghese Jean-Claude Junker) in base alla logica che spesa pubblica finanziata con maggiore disavanzo – rispetto ai target fissati con Bruxelles – possa far ripartire l’economia.

La flessibilità come alternativa all’austerità?

Il governo Renzi è stato il primo a beneficiare di questa “flessibilità”. Nel 2015 ha ottenuto 4,5 miliardi di euro e nel maggio del 2016 altri 14,4 miliardi di euro, per un totale di circa 19 miliardi di euro, una concessione che la Commissione europea ha definito “senza precedenti” perché a nessun altro paese è stato consentito di incrementare il disavanzo in maniera così significativa. Uno spazio di manovra che avrebbe potuto essere utilizzato per rafforzare il potenziale di crescita del paese, come previsto dalle Linee Guida pubblicate dalla Commissione europea nel gennaio del 2015, ma, che si è scelto, invece, di impiegare per finanziare spesa corrente, degli anni precedenti, però.

Questa flessibilità è stata, infatti usata prevalentemente per neutralizzare le cosiddette “clausole di salvaguardia”, cioè una sorta di “pagherò fiscali” che consentono di dare il via libera a nuove spese nel Bilancio dello Stato, senza doverne specificare le coperture nell’immediato. Nel caso in cui queste ultime non venissero trovate, il finanziamento delle spese sarebbe garantito da incrementi di alcune tasse – come l’imposta sul valore aggiunto o le accise sulla benzina – che scattano in maniera automatica. Per evitare questi interventi, che comporterebbero un inasprimento della pressione fiscale, le suddette clausole vengono solitamente “disinnescate”. I modi per farlo sono tre: tagliando le spese, incrementando altre tasse oppure aumentando il disavanzo pubblico. Il governo nel 2016 – cosi come già aveva fatto nel 2015 – ha scelto la “terza via”: su un totale di 17,6 miliardi di euro di maggiore indebitamento, ben 16,8 miliardi di euro sono serviti per finanziare le clausole[1].

Il metodo del “disinnesco in disavanzo”, tuttavia, non risolve il problema, ma semplicemente lo sposta avanti, procrastinando così il momento in cui sarà in ogni caso necessario trovare coperture di natura strutturale. In questo modo si alimenta un circolo vizioso – e poco trasparente -, tra “spesa di ieri” finanziata con “disavanzo di oggi” da rimborsare con “tasse di domani”. La letteratura economica mostra, però, che se gli operatori si aspettano in futuro misure di segno opposto, tendono a risparmiare i benefici temporanei della riduzione – in questo caso del “non aumento” [2] – delle imposte. L’impatto della flessibilità di bilancio sulla crescita rischia, pertanto, di essere alquanto limitato. Ed è esattamente ciò che è successo in Italia: nella media del biennio 2015-2016, l’economia è cresciuta dello 0,7 per cento, quattro volte meno della media europea, peggio ha fatto solo la Grecia. Nel 2017, che ha visto il governo di Roma ottenere altri 7 miliardi di euro di flessibilità, l’Italia dovrebbe attestarsi, con una crescita dell’1,5 per cento, in ultima posizione, dietro persino alla Grecia – un paese che sta attuando politiche di austerità – prevista svilupparsi ad un tasso due volte superiore e pari al 2,7 per cento.

In definitiva, la flessibilità non ha funzionato, perché è stata implementata quella “cattiva”, che è servita essenzialmente a finanziare spesa corrente. Ma, del resto, nemmeno la flessibilità, quella “buona”, capace di incidere sulla spesa produttiva, per un paese come l’Italia – che ha un debito pubblico che non hai mai smesso di crescere -, rischia di non essere una strada a lungo percorribile. Non va, infatti, dimenticato che con la “flessibilità” si ottiene da Bruxelles semplicemente “più tempo” e non “più soldi”, con il risultato che le maggiori spese di oggi, finanziate in disavanzo, si traducono in maggiore debito di domani. E l’ammontare di debito, il cui pagamento viene rimandato in data da destinarsi, si traduce inevitabilmente in un maggiore onere a carico delle future generazioni che già faticano a trovare un lavoro.

L’esperienza insegna, peraltro, che non è con il debito che si crea lo sviluppo; altrimenti l’Italia, con un rapporto debito-Pil che nel 2016 è arrivato al 132 per cento, il secondo più elevato dell’area dell’euro, non sarebbe il fanalino di coda.

Il debito, un fardello di cui nessuno se ne occupa

Negli ultimi anni, il debito italiano non ha fatto altro che aumentare. In soli tre anni, dal 2014 al 2016, il rapporto debito/Pil è salito di circa 3 punti percentuali. L’incapacità di invertire la dinamica del debito pubblico non è un problema nuovo: in Italia appare quasi endemico. La Commissione ha raccomandato più volte al governo di Roma di intervenire in questo senso, ma ben poco è stato fatto per ridurre lo stock del passivo. Eppure, sarebbe bastato riproporre ciò che è stato implementato nei paesi dove il debito è calato. A cominciare da un’incisiva azione di riduzione della spesa, che però è totalmente mancata. I risultati sono stati deludenti anche sull’uso di un altro strumento fondamentale per abbattere il debito, quello delle privatizzazioni. Il governo si era impegnato a portare avanti un vasto piano che includeva sia vendite di aziende partecipate sia dismissioni di proprietà immobiliari; la manovra avrebbe dovuto portare nelle casse dell’erario, nella media del triennio 2015-2018, mezzo punto percentuale di Pil (circa otto miliardi di euro): a fine 2016, però, il target non era ancora stato raggiunto.

Oltre alla riduzione della spesa e ai proventi delle privatizzazioni, per diminuire il debito è fondamentale agire sulla crescita economica, e ciò implica l’attuazione di riforme strutturali soprattutto per un paese come l’Italia, con una produttività sostanzialmente ferma da un ventennio. L’elenco delle riforme è noto e corrisponde a quello che Renzi presentò al momento del suo insediamento, quando si impegnò a attuare “una riforma al mese”. Il ritmo è stato ben diverso da quello delle intenzioni e delle promesse: i progressi sono stati “limitati”, questo il giudizio espresso dalla Commissione europea nelle sue annuali Raccomandazioni rivolte agli Stati membri. L’iniziale spinta riformatrice ha via via perso slancio, e i tempi si sono sempre più diluiti. E, cosi, nell’ultimo triennio il debito pubblico non è mai sceso. Ma un debito elevato dovrebbe essere al primo posto nell’agenda dell’esecutivo: non solo perché l’Europa chiede di risanarlo, ma soprattutto perché pesa sui giovani di oggi e su quelli che verranno.

L’inversione di tendenza è finalmente iniziata?

Nella Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza pubblicato a fine settembre scorso, il governo prevede per l’anno in corso una riduzione del rapporto debito /Pil di quasi mezzo punto percentuale, dal 132 per cento al 131,6 per cento. Il calo dovrebbe essere ascrivibile alla maggiore crescita e agli introiti da privatizzazioni pari a circa lo 0,2 per cento del prodotto interno lordo. Dettagli su questa misura (tempi, modi, ecc), tuttavia, non sono ancora stati forniti. La riduzione del debito è prevista continuare nel 2018, fino a toccare quota 130 per cento del Pil. Questa dinamica sarebbe favorita da una crescita nominale del 3,1 per cento, una stima ben superiore a quella elaborata dal World Economic Outlook pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale lo scorso 11 ottobre e pari al 2,2 per cento. Secondo l’Istituto di Washington, infatti, il debito continuerà a salire ancora per tutto il 2017, per poi calare nel 2018, sebbene ad un a velocità minore, tale da raggiungere il 131,4 per cento del Pil.

In sostanza, la strategia di riduzione del debito prevista dal governo potrebbe rivelarsi meno robusta delle attese. Peraltro, ridurre il debito non sembra essere la priorità di nessun partito politico in questo periodo di campagna elettorale. E, infatti, tutti i leader – nessuno escluso – hanno salutato con favore il probabile “sconto” che la Commissione europea si appresta a concedere al nostro paese: l’obiettivo di disavanzo concordato in aprile e pari all’1,2 per cento sarà, così, rivisto all’1,6 per cento. Il governo ritiene che intervenire sui conti pubblici rischierebbe di frenare la ripresa in atto e pertanto, ha deciso, di rimandare al futuro tagli al debito più netti. Una simile scelta, tuttavia, rischia di rivelarsi una strategia miope. In primo luogo, perché è proprio “in good times” che andrebbero implementate le correzioni di maggiore entità. E poi perché continuare a posticipare l’avvio di un’incisiva azione di riduzione del debito mina la credibilità del nostro paese in sede europea. Il rischio è quello di essere tagliati fuori dal processo negoziale e di dover “subire” la posizione dell’asse franco-tedesco. Germania e Francia, infatti, nonostante posizioni distanti sui temi economici, con ogni probabilità troveranno un accordo che condizionerà la “condivisone dei rischi” – ciò che chiede il nostro paese – ad una reale “riduzione dei rischi”, – ciò che continua a non fare il nostro paese. Le conseguenze di un simile accordo sarebbero tutt’altro che trascurabili, a cominciare da quelle sul completamento dell’unione bancaria. Il terzo pilastro, quello sulla garanzia unica dei depositi, fondamentale per un’economia come quella italiana, difficilmente vedrebbe la luce a breve.

L’austerità: la riforma più importante

Mantenere finanze pubbliche in ordine rende trasparente l’azione di governo. Quando le spese sono finanziate con tagli ad altre voci di spesa o con aumenti delle tasse è facile per i cittadini valutare la bontà dell’intervento: il rapporto tra i costi e i benefici è diretto e facilmente quantificabile I politici “anti-austerità”, all’opposto, preferiscono finanziare la spesa in disavanzo, perché ciò consente loro di intestarsi i vantaggi nell’immediato, in base alla logica – sempre valida – “più spese più consenso”, spostando gli oneri al futuro. L’austerità, dunque, dovrebbe essere considerata alla stregua di una vera e propria “riforma”, probabilmente la più importante, perché, impedisce questo iniquo trasferimento di responsabilità nel tempo. In altre parole, l’austerità toglie potere alla politica per ridarlo ai cittadini.

In conclusione, l’austerità se attuata bene consente di pianificare un uso responsabile delle risorse scarse, e di conseguenza, fa crescere un’idea condivisa di bene comune. Si tratta di un passaggio necessario, soprattutto per un paese come l’Italia dove il debito dello Stato è percepito come un’entità astratta, un numero privo di significato, un fardello che non merita attenzione perché – di fatto – non appartiene a nessuno; e, invece, non è altro che una pesante ipoteca che grava sul futuro dei giovani.  Per questo, implementare l’austerità e tenere i conti in ordine, contribuisce a rafforzare la responsabilità nei confronti degli altri e, di conseguenza, qualifica il grado di civiltà di un paese.

[1] Nel 2017, l’incremento dell’indebitamento corrisponde sostanzialmente all’entità delle clausole, 15,1 miliardi di euro.

[2] Nel 2016, il disinnesco delle clausole di salvaguardia è stato pari al 70 per cento del taglio totale delle tasse, circa 24,6 miliardi di euro. Nel 2017 al 93 per cento, ossia 16,2 miliardi di euro.