Il PD dall’etica al moralismo

Le cose cambiano in fretta, in politica, soprattutto negli ultimi tempi.

A partire dagli anni della “rimozione forzata” del Cavaliere dalle nostre istituzioni, il vuoto politico è stato colmato da un’improvvisa accelerazione degli eventi, in quello che sembrerebbe l’inizio fragoroso di un’era post-Berlusconi per la politica italiana – nonostante la mole del personaggio e la sua tenacia nel presenziare la scena.

Abbiamo così assistito in pochi anni all’esplosione e poi all’implosione dei 5 Stelle, alla parabola di Renzi, alla morte di Forza Italia per come la conoscevamo, all’ascesa e al congelamento di Salvini, all’emersione del fenomeno Meloni… il tutto nel contesto più ampio di una scena internazionale in continuo stravolgimento, che riusciamo a influenzare sempre meno perché incapaci di produrre interlocutori seri.

Ma un punto fermo, una solida certezza in questo contesto “fluido” è la capacità del Partito Democratico di essere sempre dalla parte giusta, nella “squadra dei buoni” e del “bene comune”.

Una scelta strategica

Osservatori più degni del sottoscritto hanno definito il PD (da sinistra) come una forza “camaleontica” e “cangiante”, perché capace di fare propria qualsiasi posizione secondo la convenienza politica. E questo è senz’altro il miglior modo per descrivere la fenomenologia del Partito Democratico e soprattutto il suo allontanamento ormai siderale da qualsiasi valore di sinistra.

Ma forse sarebbe un errore confondere questo mimetismo con un’assenza di coerenza. I risultati politici parlano chiaro, in termini di gestione del potere – guardiamo alle ultime elezioni del Presidente della Repubblica – e quindi appare evidente che c’è un pensiero preciso dietro a questa impostazione; resta soltanto da capire quale esso sia.

Il punto, secondo chi scrive, è che quella che per anni abbiamo chiamato la “pretesa superiorità morale della sinistra” ha finito per rivelarsi non solo un atteggiamento di sufficienza verso l’avversario, ma una posizione strategica. Nel concreto, questa posizione si può riassumere come segue: stare dalla parte dei “buoni”, ad ogni costo; sposare e fare propria ogni narrazione mainstream, indipendentemente dal suo contenuto e unicamente in quanto mainstream.

La convenienza dell’operazione è ovvia; il costo è la rinuncia a ragionare per valori e scegliere di seguire dei trend.

 

La “guerra giusta”… e la guerra santa

Non stupisca, allora, la completa assenza di un dibattito nel PD quando – a torto o a ragione – si esprime tout-court a favore della fornitura di armi all’Ucraina. Ciò è perfettamente coerente con la scelta, a monte, di rinunciare a discutere di valori, per dedicarsi invece ad inseguire mode.

Così, la guerra in sé e la sua stessa natura violenta, le implicazioni patriottiche di questo conflitto e perfino i battaglioni neonazisti ucraini passano in secondo piano di fronte all’abbagliante luce di ciò che il mondo (e quindi il PD) hanno deciso essere il “bene” e i “buoni”. Anche il talentuoso Zelensky, che fino a pochi mesi fa non era che un populista (in quanto nato al di fuori di una tradizione politica) o un sovranista (perché europeo dell’est e quindi razzista e omofobo) è diventato improvvisamente un eroe.

A prescindere dall’eroismo di Zelensky e dalla necessità di avere o no una parte in questa guerra, si vuole solo evidenziare che il posizionamento del PD su questi temi non discende da valori “di sinistra” (o da un qualsiasi valore), ma dall’adozione in toto di una moda.

E se la guerra, oggi, ci offre questo esempio lampante di una scelta coerente ma che appare incoerente – perché tradisce le nostre aspettative rispetto a quello che il PD dovrebbe fare in quanto partito “di sinistra” –  basti guardare all’ultimo biennio di pandemia per rendersi conto che si tratta di un pattern consolidato. La modalità con la quale il PD ha gestito politicamente il tema Covid è stata sempre la stessa: l’assunzione di una posizione prona e totalmente appiattita su comunicazioni istituzionali (del Governo, dell’Unione Europea, del Presidente Biden, dell’OMS etc…), in quella che sembra davvero una smania di conformismo e conservatorismo acritico, nella totale noncuranza delle contraddizioni evidenti in queste stesse posizioni. E questo è avvenuto anche rispetto a temi estremamente delicati (ed estremamente “di sinistra”) quali la libertà di movimento, o quella di sottoporsi o meno a trattamenti sanitari.

Guardando agli ultimi dieci anni vediamo questa “inafferrabilità” del PD in mille occasioni: lo abbiamo visto diventare il partito delle ZTL, mentre parla di periferie; quello dei dipendenti pubblici, che però parla di precari; l’amico dei grandi gruppi, ma anche dell’ambiente; il garante ufficiale dei diritti delle persone non binarie o fluide, ma anche delle famiglie… perfino l’espressione “ingerenza della Chiesa”, in questa apparente schizofrenia, è sparita dal vocabolario del Pd, perché l’attuale Papa è “uno dei buoni”.

Certamente la pandemia è stata una pietra miliare in questo percorso evolutivo: si pensi alle posizioni del PD rispetto alle manifestazioni, represse nella violenza, dei portuali triestini. Il PD, diventato grazie al Covid anche il partito della scienza, della salute pubblica, della responsabilità, del vaccino obbligatorio, ora è all’occorrenza anche il partito dell’ordine, della sicurezza… e dei manganelli.

E proprio qui sta il secondo grande vantaggio di questo posizionamento strategico: essere sempre dalla parte del “bene” significa che chi non si conforma o ancora peggio si oppone intellettualmente è il “male”; anche se si tratta di un legittimo – perché ampiamente votato – concorrente politico, come la Lega, il M5S o Fratelli d’Italia. Così un partito politico come il PD ha aggiunto al suo ruolo di “ministro del bene” quello di censore.

Di conseguenza, oggi assumere pubblicamente posizioni non maggioritarie comporta avere la certezza di trovare il PD nella trincea opposta; e avere posizioni diverse da quelle del PD, su un qualsiasi tema, significa rischiare di essere tacciati di rappresentare il “male” (il tradizionalismo, il fascismo, il capitalismo, o la semplice ignoranza a seconda dei casi), in un falso sillogismo insidioso per la democrazia.

L’esercizio del dubbio diventa così un’attività pericolosa; ad esempio, manifestare pubblicamente perplessità sul concetto di gender, o sull’origine tutta umana del riscaldamento globale, o – ancora peggio – sull’opportunità di obbligare milioni di persone ad assumere un farmaco contro la propria volontà, comporta l’isolamento, la censura e l’esposizione a un coro di voci indignate tra le quali spicca, non richiesta, quella del nostro PD.

Le conseguenze? Certamente la libertà di espressione sta scemando nel nostro Paese, e il generale indottrinamento proposto dalle nostre scuole e dai nostri giornali, presto o tardi, finirà per derubricare definitivamente il tema dall’agenda politica. Inoltre, la qualità del dibattito politico è inevitabilmente sotto lo zero: perché il dibattito non è contemplato.

A livello politico, piaccia o no, il principale garante di questa pericolosa evoluzione è proprio il Partito Democratico.

 

La nuova chiesa universale

L’ultimo elemento di questo quadro è forse il più importante. Assodato che il PD non si muove a partire da valori, ma seguendo mode e trend internazionali, occorre capire se esista una fonte identificabile di queste mode. Ed è piuttosto evidente che una fonte – se non unica, almeno principale – esiste eccome.

Si potrebbe essere tentati di rintracciarla nella “pancia” e negli umori della gente, come avviene per Salvini o avvenne per i primi 5 Stelle. Se non fosse che non c’è niente di meno vicino all’istintività dell’italiano medio del pacchetto di valori ora in voga: rispetto per l’ambiente, liquidità sessuale, solidarietà sanitaria… non è il genere di discorsi che si sentono al bar, per lo meno.

No, la fonte della nuova “buona novella” di cui il Pd si è fatto promotore è una fonte “top-down”, istituzionale, e si chiama Partito Democratico americano, che del resto è il soggetto che da sempre si occupa di scrivere l’agenda progressista internazionale. Non è facile dire se il Pd senta nostalgia dell’Unione Sovietica e abbia riscoperto la propria terza narice, o se sia sotto gli effetti di un reflusso democristiano: fatto sta che esso oggi si muove secondo i dettami di questa particolare “chiesa del politicamente corretto”.

La scelta è legittima, e gli incentivi sono evidenti: grande potenza di fuoco e copertura  mediatica, avversari (forse anche perché più fedeli a un’impostazione identitaria) divisi, litigiosi e spesso volgari…

Inoltre non è da sottovalutare l’effetto franchising: non c’è infatti nessuna necessità di elaborare un programma politico; è già lì, pronto per essere applicato. Il successo è garantito, grazie anche alla licenza di disprezzare e dequalificare a “impresentabile” chiunque dissenta. Il costo del “pacchetto” è solo uno, la fedeltà al programma: bianco o nero, pace o guerra, libertà o ordine, solidarietà o autodeterminazione… vale tutto purché conforme al programma generale.

A questo punto non sarebbe del tutto fuori luogo una lunga e noiosa riflessione, sull’inevitabile fallimento di un progressismo che ha rinunciato a stabilire verso cosa vogliamo progredire; e sul fatto, prevedibile, che qualcun altro ha colto l’occasione per stabilire la rotta al posto nostro. Ma per il momento ci basti prendere atto del fatto che se il Pd ha smesso di essere un partito di sinistra è perché ha rinunciato da tempo a rincorrere la stella di un qualsiasi valore, per rincorrere le stelle e le strisce di un asino americano.

 




Abolire i vitalizi dei parlamentari?

Per fortuna faccio parte della piccola minoranza che, sulla scorta degli esempi belga e spagnolo, sospetta che l’assenza di un governo faccia bene all’economia. Sì, perché se non avessi questo sospetto, o questo motivo di consolazione, sarei molto arrabbiato con i partiti.

Ma come?

Avete avuto più di un mese per riflettere, incontrarvi, aprire tavoli, negoziare, annusarvi, e quando finalmente il Presidente della Repubblica inizia le consultazioni, e chi ha votato si aspetta che nasca finalmente un governo, voi non trovate di meglio che “ribadire” le vostre posizioni, i vostri programmi, i vostri veti, e alla fine chiedete una cosa sola: più tempo. Un’aggiunta di tempo che non serve, come nel caso tedesco, a mettersi a tavolino per definire nei minimi dettagli un programma di legislatura, concordato fra partner che hanno deciso di collaborare, ma serve a continuare un gioco, fatto di incontri, vertici, abboccamenti più o meno segreti, che dura da un mese, e che evidentemente piace molto ai nostri politici. I quali, per ora, su tutto si dichiarano in disaccordo, tranne su una piccola cosa, una piccola idea, che sta affiorando negli ultimi giorni: l’abolizione (o la limatura) dei vitalizi dei parlamentari, un provvedimento che prima di Natale era stato approvato alla Camera, ma si era alla fine arenato al Senato, proprio negli ultimi giorni della legislatura. Su questo soprattutto Cinque Stelle e lega paiono pronti ad agire.

Naturalmente non ho nulla contro un ridimensionamento degli emolumenti di una categoria di privilegiati, spesso non all’altezza del ruolo che sono chiamati a ricoprire,  quali sono i parlamentari italiani. E tuttavia non riesco a non provare perplessità, per non dire un senso di fastidio, per la retorica con cui se ne parla.

La perplessità nasce, ovviamente, innanzitutto dal carattere platealmente demagogico dell’attacco ai “costi della politica”, che molto ricorda l’altrettanto demagogica campagna del primo Renzi contro le “auto blu”. Ma non è solo questo.

Colpisce, ad esempio, l’accanimento con cui si perseguono i vitalizi dei parlamentari e il silenzio tombale su altri, ben più incomprensibili, privilegi della politica e degli apparati che le gravitano intorno. Ok, i vitalizi costano quasi 200 milioni l’anno, in media 5-6 mila euro lordi al mese per ogni beneficiario. Ma, se vogliamo parlare di costi della politica, le retribuzioni scandalose sono ben altre: un consigliere regionale, nonostante le riduzioni attuate in alcune regioni negli anni scorsi, costa alle casse pubbliche fra i 150 e i 200 mila euro l’anno; barbieri, segretari, elettricisti, nonostante qualche timido tentativo passato di ridimensionarne gli emolumenti, dall’inizio di quest’anno viaggiano di nuovo sui 100-150 mila euro l’anno; per non parlare delle mansioni parlamentari più qualificate, che non di rado sfiorano o superano i 200 mila euro, in barba a tutte le promesse passate di riportare un po’ di oculatezza nelle spese del Parlamento.

Complessivamente, i vitalizi su cui negli ultimi giorni si è concentrata l’attenzione del Palazzo, ammontano a circa il 5% degli emolumenti della casta. Pensare che la loro riduzione (si parla di una limatura di 70-80 milioni di euro) possa avere effetti significativi sui conti pubblici è quantomeno ingenuo.

In realtà, quel che sembra sfuggire alla discussione sui costi della politica è il punto centrale del problema: il vero costo della politica non sono gli stipendi, ma sono gli sprechi che la cattiva politica autorizza e spesso promuove. In passato mi è capitato di stimare l’entità totale degli sprechi della Pubblica Amministrazione, settore per settore (dalla sanità, alla scuola, alla giustizia). Ebbene, a spanne il conto è questo.

La spesa pubblica non pensionistica ammonta a circa 500 miliardi l’anno. Di questi 500 miliardi, almeno 80 sono imputabili a sprechi. Il costo diretto della politica è dell’ordine di 5 miliardi di euro. I vitalizi degli ex-parlamentari pesano per 0.2 miliardi. Questo vuol dire che, fatta 100 la spesa pubblica non pensionistica gli sprechi ne rappresentano il 16%, il costo totale delle retribuzioni dei politici l’1%, e i vitalizi dei parlamentari lo 0.04%. È come se andassi a comprare un’automobile che costa 20 mila euro, e il concessionario mi dicesse che abbatte la tua spesa con uno sconto di ben 8 (otto) euro. Questa è l’incidenza di una eventuale soppressione (totale) dei vitalizi. Una cifra così esigua che, con ogni probabilità, sarà interamente vanificata dal costo del contenzioso giuridico che potrà scatenare, come già avvenuto in passato.

Insomma: tagliate pure, riducete, moralizzate, fate quel che vi pare, ma non veniteci a raccontare che così si liberano risorse per la crescita, o per qualsiasi altra cosa importante. Perché le cose importanti costano di più, molto di più. E certe misure possono anche essere dei segnali positivi, ma devono valere erga omnes, e soprattutto non devono creare pericolose illusioni.