Follemente corretto (16) – La cryptonite rosa

Da ragazzino ero un appassionato lettore di Superman, che in realtà allora si chiamava Nembo Kid. La cosa che più mi atterriva, nelle storie di Nembo Kid, era la possibilità che qualche nemico malvagio, tipo Luthor o Brainiac, lo attirasse in una trappola e lo facesse indebolire, o addirittura morire, esponendolo alla kryptonite verde. Gli altri tipi di kryptonite (rossa, dorata, bianca) mi spaventavano di meno, perché i loro effetti  erano meno drammatici.

Mai avrei pensato, allora, che in futuro il mio eroe avrebbe potuto incontrare la cryptonite rosa, che trasforma un eterosessuale in omosessuale, come nel 2003 è accaduto sul numero 79 di Supergirl (la “ragazza d’acciaio”, versione femminile di Superman). Ma ancor meno avrei immaginato che, un giorno, gli autori del celebre fumetto avrebbero disegnato un superman gay, che fa coming out con il giornalista hacker dai capelli rosa Jay Nakamura, e lo fa motu proprio, perché così gli detta il cuore, non perché è venuto in contatto con un pezzo di kryptonite rosa, che capovolge l’orientamento sessuale a prescindere dalla volontà del diretto interessato.

Per me sarebbe stato come Giovanna d’Arco che diventa casalinga, Napoleone che fa il pastore di pecore o, per metterla in termini attuali, Gesù Cristo che partecipa a X-factor, o Putin che distribuisce piatti caldi con la Caritas.

Ora però sono cresciuto, non leggo più Superman, faccio il sociologo. E mi limito a chiedermi: perché? perché gli autori hanno scelto di snaturare Superman?

Intanto bisogna dire che, in realtà, nemmeno i progressistissimi autori di Superman  hanno osato dare un partner maschio a Superman, emblema della virilità. Per regalare un amore omosessuale al supereroe di Krypton hanno prudentemente scelto suo figlio Jon, anche lui dotato di ultrapoteri, ma sensibile e delicato, ben più sintonizzato del padre con i grandi temi del nostro tempo: riscaldamento globale, problema dei rifugiati, violenza nelle scuole.

Ma torniamo alla domanda: perché cambiare l’orientamento sessuale di Superman?

La prima risposta che viene in mente è che il mondo è cambiato, l’omosessualità non è più tabù, e le case produttrici di film, cartoni e graphic novel vogliono stare al passo con i tempi. Anzi, in un certo senso vogliono radicalizzare e precorrere i tempi, amplificando le tendenze in atto. Basti pensare che, solo fra le due case produttrici Marvel e Dc Comics (quella di Superman, Batman e Wonder Wooman), si contano più di 150 supereroi Lgbt. Insomma, quella di lanciare un Superman gay o bisessuale sarebbe una scelta culturale, o politico-culturale.

In realtà le cose sono assai più prosaiche. La creazione di un super-eroe gay risponde innanzitutto a una logica economica. Da tempo le case creatrici di supereroi, per contrastare la perdita di pubblico degli eroi “universali” alla Superman, puntano sulla differenziazione dell’offerta, cercando di offrire alle varie nicchie del mercato supereroi su misura. E’ così che, per allargare il pubblico degli utenti, sono stati ideati vari Superman cinesi e neri, e sono stati “sessualmente riconfigurati” classici come Batman e Robin, Batwooman, Wonder Wooman.

Il caso di Jon, figlio di Superman, protagonista di una storia di amore omosessuale, rientra in questa casistica. E rivela la matrice commerciale dell’operazione: la nuova serie non è piaciuta ai lettori e, di fronte al calo delle vendite, la Dc Comics (ideatrice del Superman gay), non ha esitato a interrompere le pubblicazioni.

A quanto pare, il buon vecchio Marx ci aveva visto giusto: la struttura (economica) è più importante della sovrastruttura (culturale).




Follemente corretto (15) – C’è cane e cane

Non so se avesse ragione Umberto Eco a parlare di Ur-Fascismo, o Fascismo eterno. Probabilmente gli era un po’ scappata la mano: dei 14 tratti del fascismo individuati da Eco, 10 non sono più rintracciabili in Italia, e 4 non sono specifici del fascismo. Però sul fatto che il tema del fascismo sia sempreverde, in libreria come sui quotidiani come su internet, non ci sono dubbi. Se non vi fosse questo permanente interesse-curiosità-ossessione degli italiani, non uscirebbero a getto continuo libri su Mussolini e sul Ventennio.

Ossessione degli italiani?

Non esattamente. Ho scoperto di recente, girando sul web, che nel dibattito sono coinvolti anche i cani. E da un bel po’ di anni. Ci sono innumerevoli video di cani che, all’ordine “saluta il Duce”, fanno il saluto romano con la loro zampa destra. Ogni video ha decine di migliaia di visualizzazioni (mai come i cani nazisti, che nel Regno Unito e in Germania pare arrivino anche a 2-3 milioni di visualizzazioni).

Ma non basta. Il cane fascista, da anni, turba i pensieri della sinistra, dei sinceri democratici, dei partigiani, dell’antifascismo tutto. Già nel 2016, ad Albenga, un pastore tedesco antidroga, che doveva essere acquistato dalla Polizia Locale, ha incontrato la fiera opposizione del sindaco Pd della città, della Cgil, e persino delle associazioni dei partigiani. Il motivo: il cane, anzi la cagna, pastore tedesco di 9 mesi, ha la ventura di chiamarsi Olimpia Decima Mas.

Due anni dopo, nel 2018, la medesima fiera opposizione, con tanto di interrogazioni in consiglio comunale, ha incontrato a Monza un altro cane, il cui nome era Narco della Decima Mas. La parola Decima Mas è stata sufficiente a far scattare il riflesso pavloviano antifascista. Se un cane si chiama Decima Mas, non può che essere stato allevato nella venerazione della decima Flottiglia Mas (l’unità della Marina Italiana che, dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943, fece parte del corpo militare della Repubblica di Salò e collaborò attivamente con le forze armate tedesche in Italia settentrionale).

Si scoprirà poi che molti cani poliziotto in dotazione a vigili e forze dell’ordine hanno quel cognome (Decima Mas) semplicemente perché Decima Mas è il nome di uno dei migliori allevamenti per l’addestramento dei cani, e il nome dell’allevamento viene automaticamente incluso – come una sorta di cognome – nel pedigree di ogni cane poliziotto.

Ma qual è l’origine del nome dell’allevamento? Lo spiega il titolare dell’allevamento stesso, situato ad Agugliano, in provincia di Ancona: “Tanti anni fa quando ha preso vita questa struttura inviai all’Enci (Ente Nazionale Cinofilia Italiana) tre possibili nomi: di Vallechiara, di Chiaravalle e Decima Mas. I primi due vennero esclusi perché simili ad altri e mi diedero l’ok sull’ultimo. Tutto qui”.

E mestamente aggiunge: “non capisco come si possa far polemica su degli animali che sono addestrati anche per salvare vite, per scavare tra le macerie causate da terremoti e calamità naturali e che sono spesso utilizzati per combattere lo spaccio di stupefacenti”.

Non sappiamo con sicurezza perché, fra i tre nomi, vi fosse anche Decima Mas, pare perché un lontano parente ne aveva fatto parte. Ma è rilevante? Se anche il titolare, che si dichiara apolitico, fosse nostalgico della Repubblica Di Salò, questo renderebbe fascisti i suoi cani? Dunque anche i cani, in questo strano paese, si dividono in fascisti e anti-fascisti?

Pare di sì, se basta un nome – anzi un cognome – a mobilitare il Pd, la Cgil, i partigiani. Lo sanno bene i videomaker che mettono su youtube i loro video beffardi, con cagnolini addestrati ad alzare la zampa destra al comando “saluta il Duce”. Come Andrea V., più di 12 mila visualizzazioni, che spera di evitare guai specificando: “il video è solo a scopo ludico e non ha finalità politiche”.

Salvo aggiungere, quasi a rassicurare sé stesso: “il cane credo non sia veramente fascista”.




Follemente corretto (13) – Parentesi e intimidazioni

La parola ‘donna’ sta diventando incandescente. Se la usi, rischi di bruciarti. Specie se sei una donna. Ne sa qualcosa Joanne Rowling, l’autrice di Harry Potter, che nel 2020 si beccò ogni sorta di improperio (a partire da TERF: Trans Exclusionary Radical Feminist) per aver ironizzato sull’espressione “persone che hanno le mestruazioni”, usata per non pronunciare la parola ‘donna’, che agli occhi degli attivisti trans sarebbe escludente.

Da allora, l’uso della parola donna è diventato sempre più controverso: una parte del mondo femminista lo rivendica, ed esige che la parola sia riservata a chi è biologicamente di sesso femminile (e tale rimane), mentre una parte del mondo LGBT+ lo contesta, e pretende che si usino espressioni – come persona con le mestruazioni – che possono riferirsi anche a transessuali FtM (da femmina a maschio), che non si riconoscono come donne.

Ma non basta. Ultimamente, il termine donna è diventato controverso anche perché una parte del mondo LGBT+ contesta il cosiddetto binarismo, ossia la distinzione stessa fra maschi e femmine. Secondo questo modo di vedere, può risultare impossibile riconoscersi univocamente in uno dei due generi, e comunque gli “stati di genere” possibili, ossia i modi di autopercepirsi, sarebbero infiniti e cangianti nel tempo. Di qui la continua ricerca, nella pubblicità, sui media, nelle grandi corporation, di formulazioni inclusive, capaci di venire incontro alle suscettibilità di chiunque (salvo irritare chi non avesse speciali suscettibilità).

Poca attenzione, finora, è stata rivolta alle conseguenze che questa ossessiva vigilanza sugli usi della parola donna produce sulla qualità della scrittura delle donne stesse. Terrorizzate dalle guardie rosse della lingua corretta, timorose di incorrere in anatemi e scomuniche come quelle che hanno colpito la più celebre Rowling, molte giornaliste, studiose e scrittrici stanno perdendo la capacità di esporre limpidamente il loro pensiero.

Ed ecco che, in un articolo che parla d’altro, ci si sente in dovere di spiegare perché non si usa la schwa, che pure sarebbe una cosa bellissima e giustissima. Oppure ci si scusa di usare la parola donne, e si perde tempo con penose parentesi giustificatorie, piene di banalità.

Esempi?

Se ne potrebbero fare diversi, ma ne basta uno a illustrare il meccanismo.

Ecco tre parentesi, tutte inserite nel medesimo articolo di giornale, firmato da una nota studiosa di filosofia:

Vorrei tanto che le donne della mia generazione (anche se dire “le donne” non mi piace, è un’espressione che non ha senso, non esiste alcuna entità omogenea capace di riassumere le mille sfumature dell’esistenza femminile) bla-bla…

E se le donne (sebbene ritenga opportuno finirla con quest’opposizione binaria fra gli uomini e le donne) bla-bla…

Noi donne (anche se la genericità del temine non mi piace) bla bla…

Che cosa aggiungono le parentesi? La spaventosa banalità secondo cui qualsiasi termine generale – non solo le donne, ma anche gli uomini, i giovani, gli operai – non può che riferirsi a uno spettro di condizioni molto diverse? Qualcuno non lo sapeva già? E poi, perché ripetere tre volte che sì, uso l’espressione ‘le donne’, ma in realtà non la vorrei usare proprio?

La ragione è semplice. Si chiama “mettere le mani avanti”. Proteggersi dal rischio che una esponente del mondo LGBT+, ancora più follemente corretta dell’autrice dell’articolo, possa chiamarla sul banco degli imputati, chiedendole conto dell’uso troppo disinvolto della parola donne. Dietro le inutili parentesi ci sono due cose soltanto: il potere intimidatorio dei guardiani della lingua, la mancanza di libertà di chi scrive.

Ironia della sorte: il titolo dell’articolo è “meglio donne libere che donne di potere”.




Follemente corretto (9) – Tempi duri per le opere d’arte

In un bell’articolo pubblicato su Linkiesta, Guia Soncini fa notare l’incredibile faziosità che contamina la campagna elettorale. L’ultimo esempio di doppio standard – o “due pesi e due misure” come si diceva una volta – sono gli insulti piovuti su Giorgia Meloni per aver postato il video di uno stupro, già pubblicato da “La Stampa” (sin dalla prima pubblicazione nessuno si era posto il problema del consenso della vittima di un reato) e le lodi ricevute da Pippo Civati per aver ripubblicato un video di cittadini milanesi in coda alla mensa dei poveri. Nel primo video il volto della donna stuprata era oscurato, nel secondo i volti dei poveri erano in chiaro. Perché insulti in un caso, lodi nell’altro? La risposta di Guia Soncini è che siamo accecati dalle nostre simpatie e antipatie, a loro volta guidate dalla tifoseria politica cui apparteniamo.

Temo che le cose stiano anche peggio. Ad essere colpiti dal doppio standard non sono solo i gesti politici, come quelli di una campagna elettorale, ma anche quelli artistici e culturali, persino quando i loro autori sono morti da un pezzo.

Un bell’esempio è fornito dalla pretesa di giudicare le opere del passato in base alla vita dei loro autori, setacciata ai raggi X in base agli standard etici del momento. Nel 2019, alla National Gallery di Londra, i dipinti di Gauguin sono stati contestati, e giudicati indegni di essere esposti, perché quando si era rifugiato a Tahiti, aveva convissuto con una ragazza del luogo quattordicenne, da cui aveva anche avuto un figlio. Qui il punto di vista che squalifica senza appello i dipinti di un artista è una sorta di femminismo retroattivo, ringalluzzito dal MeeToo, incapace di collocare le opere nel loro tempo (fine ’800) e nel luogo in cui sono state concepite (le isole della Polinesia).

Ma il caso di Gauguin è ancora fra i più innocenti, perché la politica c’entra molto alla lontana. Gauguin non era di destra o di sinistra, perché della politica non gli importava nulla.

I casi interessanti sono quelli in cui la tagliola che squalifica l’opera di un autore in base ai suoi costumi sessuali è regolata in base alle convinzioni politiche dell’autore stesso.

Per un motivo analogo a quello addotto nel caso di Gauguin (aver avuto una moglie minorenne), la statua di Indro Montanelli a Milano è stata fatta oggetto di ripetuti scempi, ed è tuttora bersaglio di polemiche politiche e pseudo-intellettuali. Come nel caso di Gauguin, le accuse si sono intensificate dopo lo scandalo Weinstein e il MeeToo (2017). Qui però la matrice degli attacchi non è solo femminista, ma è politica, perché Montanelli è stato fascista, è un grande giornalista, ma ha la colpa di essere un conservatore.

Si potrebbe pensare che, in materia di politicamente corretto applicato alle opere del passato, la faziosità sia una esclusiva della sinistra. Ma non è così. Un paio di anni prima del MeeToo, una polemica feroce investì l’opera del grande poeta cileno Pablo Neruda, premio Nobel per la letteratura nel 1971. Nella sua autobiografia, Confesso che ho vissuto, uscita postuma nel 1974 (a un anno dalla morte), qualcuno, a distanza di 40 anni, ebbe a notare un passaggio in cui il grande poeta raccontava uno stupro (o perlomeno un rapporto non consensuale), da lui consumato ai danni di una giovane donna Tamil, nera, povera, e della casta paria. In questo caso gli attacchi trovarono schierati sul medesimo fronte femministe cilene e politici di destra, ostili alla proposta di intitolare a Neruda l’aeroporto di Santiago del Cile.

A difesa del sommo poeta, comunista e perseguitato politico, si schierò invece la sinistra, esattamente come – nel caso degli attacchi a Montanelli – a difendere il nostro più grande giornalista, conservatore e a suo tempo gambizzato dalle Brigate Rosse, si era schierata la destra.

Morale della favola: nessuna opera del passato è al sicuro, meno che mai se il suo autore è classificabile come di destra o di sinistra.




Follemente corretto (6) – Guai dire grasso

Uno degli aspetti più sconcertanti del politicamente corretto è che spesso gli aspiranti riformatori della lingua non sono d’accordo fra loro, e per di più cambiano idea nel tempo. È già successo con la parola ‘cieco’, un tempo squalificatissima e sostituita con ‘non vedente’, ma ora riabilitata perché, a differenza di quest’ultima, indicherebbe una caratteristica della persona, anziché una mancanza, un difetto, un’assenza, una negatività, come è automatico se si usa il ‘non’. Lo stesso per ‘disabile’, che andrebbe sostituito con ‘persona con una disabilità’. Eccetera eccetera.

Così può succedere che negli anni ’70 io possa dire tranquillamente cieco; negli anni ’90 venga sgridato e rieducato a dire non vedente; negli anni 2000 venga rimbrottato perché sì, ho imparato a dire ‘non vedente’, ma non mi sono accorto che, nel frattempo, i molestatori della lingua hanno cambiato le regole e preferiscono tornare a cieco.

Né si pensi che la loro invadenza riguardi solo le parole che designano disabilità fisiche o mentali. Anche un aggettivo un tempo innocente come ‘grasso’ suscita discussioni. E la condizione esistenziale di essere grassi è addirittura oggetto di libri, riviste accademiche, ricerche, studi (i cosiddetti Fat Studies).

Come chiamare le persone grasse senza offenderle? Qual è il modo politicamente corretto di parlarne?

Neppure su questo c’è accordo fra gli aspiranti riformatori della lingua. Già una dozzina di anni fa The Times passava in rassegna 50 modi di dire “sei grasso”, alcuni politicamente corretti, altri no. Fra quelli accettabili, o addirittura PC, suggeriva ‘prosperoso’, ‘orizzontalmente svantaggiato’, ‘mangiatore entusiasta’.

Oggi il sito inglese di supporto grammaticale grammarhow, consiglia 12 soluzioni, con netta preferenza per ‘curvy’ (formosa) per le donne, e ‘jolly’ (gioioso, letteralmente) per gli uomini. Ma, ahimè, conclude con la solita raccomandazione: prima di usare ‘curvy’ e ‘jolly’ nei confronti di qualcuno, assicurarti che a quel qualcuno piaccia essere descritto con quel termine. Come se andare da una donna e dirle ‘posso chiamarti curvy?’ fosse un gesto gentile…

I veri problemi, però, sorgono in ambito medico. Alcuni considerano offensivi i termini ‘obeso’ o ‘sovrappeso’ (perché mai?), ma sono incerti su come sostituirli. Uno studio condotto una decina di anni fa dalla Yale School of Medicine concludeva che il termine meno sgradito dai pazienti era “unhealthy weight” (peso non salutare), e che 1 paziente su 5 era intenzionato a cambiare medico nel caso si fosse sentito stigmatizzato per il proprio peso.

Da decenni esiste un movimento per l’accettazione della condizione di essere grassi, che organizza manifestazioni e fat pride. Ma, negli ultimi tempi, sempre più di frequente accade che la condizione di essere grassi sia addirittura esaltata dai fan degli artisti e delle artiste grasse (“sei bellissima”), al punto che, per alcuni, essere grassi diventa motivo di orgoglio. Di qui un dilemma irrisolvibile per medici, dietologi, nutrizionisti: dire ai propri pazienti la verità (essere sovrappeso è dannoso per la salute), con il rischio di essere accusati di fat shaming o body shaming, o minimizzare il problema per non perdere pazienti?