Coronavirus: facciamo un’indagine nazionale su un campione rappresentativo

L’idea è venuta tempo fa a un mio amico viticoltore, che ha l’azienda in Friuli (si chiama Nicola Manferrari, le sue vigne sono a Borgo del Tiglio): perché non cerchiamo di capire quanti sono i contagiati dal coronavirus con un’indagine statistica?

Se si sottoponesse a tampone e (possibilmente) ad esame del sangue un campione rappresentativo della popolazione italiana, potremmo rapidamente sapere alcune cose fondamentali, che al momento non sappiamo ancora:

  • quanti sono i contagiati totali (sintomatici, asintomatici, guariti)
  • qual è la percentuale di asintomatici
  • qual è la distribuzione per genere, età ed altre caratteristiche
  • qual è, approssimativamente, il tasso di letalità.

Tutte informazioni preziose per contrastare la diffusione del virus.

Allora (appena tre settimane fa) l’idea mi parve impraticabile perché le stime che circolavano sul numero di contagiati erano troppo basse. I casi ufficiali erano circa 1000, e si pensava ancora che i casi totali potessero essere il triplo, magari anche il quadruplo o il quintuplo, ma certo non più di 10 mila. Diciamo che un numero verosimile poteva essere non lontano da 6000, il che significa 1 italiano su 10000.

Di qui la mia perplessità. Se il numero di contagiati è sconosciuto ma ancora molto basso (diciamo 1 caso su 10 mila, giusto per fissare le idee), per poter stimare accuratamente il numero effettivo di contagiati nella popolazione complessiva occorrerebbe un campione enorme: con un campione di 10 mila casi potremmo anche non intercettarne nessuno (o averne appena 1, o 2), con un campione di 100 mila casi potremmo ragionevolmente attenderci di intercettarne una decina (con un errore atteso di circa 3 casi). Per poter sperare di intercettare anche solo un centinaio di casi occorrerebbe un campione di 1 milione di casi, che è decisamente troppo grande (anche perché sarebbe opportuno sottoporre a test tutti i soggetti nei medesimi giorni).

Ora però le cose sono cambiate, per quattro motivi.

  1. Il numero di casi è molto più alto di tre settimane fa (al 20 marzo, i 1000 casi di inizio mese sono diventati circa 50 volte tanti).
  2. Sono sempre più numerosi gli esperti che congetturano che i casi effettivi possano essere molto più numerosi (anche 10 volte tanti, se non di più) rispetto ai casi ufficiali.
  3. La regola enunciata dal prof. Andrea Crisanti (lo studioso che ha guidato l’indagine di popolazione sul comune di Vo’), secondo cui l’ordine di grandezza del numero di asintomatici è 10 volte il numero di ospedalizzati, conduce a valutare in 200 mila il numero totale di casi positivi.
  4. Una stima indipendente, condotta dalla Fondazione Hume con un approccio del tutto diverso, conduce a valutazioni del medesimo ordine di grandezza.

E allora il calcolo è presto fatto. Se riuscissimo a organizzare una rilevazione per fine mese, anche un campione relativamente piccolo (per esempio 50 mila casi: più o meno i tamponi che oggi si fanno in 3 giorni) potrebbe fornirci le informazioni che cerchiamo.

I 45 mila casi ufficiali attuali (20 marzo), infatti, tra la fine del mese e i primi di aprile saranno diventati circa 150 mila, cui andrebbero aggiunti tutti gli asintomatici, che adottando la “regola Crisanti” (asintomatici = ospedalizzati x 10) potrebbero essere un po’ più di 400 mila.

Questo significa che, già nei primi giorni di aprile, potremmo avere a che fare con una popolazione di 5-600 mila contagiati su 60 milioni (l’1% della popolazione). Un campione di 20 mila casi ne intercetterebbe circa 200, un campione di 50 mila casi ne intercetterebbe circa 500.

Certo, resterebbe il problema di stratificare il campione per zona geografica, perché il numero di positivi per abitante è molto alto nel centro-nord, e molto più basso nel centro-sud. Ma è un problema risolvibile sovracampionando il centro-sud e sottocampionado il centro-nord, in modo da avere pressappoco il medesimo numero di casi in entrambi i territori.

Il vero problema è di estrarre un campione davvero rappresentativo, cosa che si può fare usando le liste elettorali, l’anagrafe tributaria o altra fonte amministrativa capace di raggiungere la quasi totalità della popolazione.

Insomma, il contagio è andato così avanti che l’idea di ripetere con un campione rappresentativo ciò che a Vo’ è stato fatto con la quasi totalità della popolazione sta diventando praticabile.

Non sappiamo quanti siano i contagiati, ma conoscerne l’ordine di grandezza (1 italiano su 100 ai primi di aprile) è più che sufficiente per pianificare un’indagine campionaria, che potrà finalmente fornire una risposta affidabile alle nostre domande iniziali: quanti sono effettivamente i contagiati, qual è il peso degli asintomatici, qual è la composizione per età, qual è il tasso di letalità.

Tutte cose che al momento non sappiamo, e che sarebbe molto meglio sapere. Come ha detto il prof. Crisanti nell’ultima intervista a “Italia Oggi” a proposito dell’idea di un’indagine statistica nazionale: “potrebbe essere molto utile dopo il picco quando si tratterà di capire se è il caso di sollevare le misure restrittive”.

Il picco è previsto per martedì 24 marzo. Credo che – se c’è la volontà politica di farla – l’indagine potrebbe partire lunedì 30 marzo e terminare lunedì 6 aprile.

[20 marzo 2020]



Posti di terapia intensiva e solidarietà europea: se non ora quando?

English Version

Entro pochissimi giorni l’Italia non sarà più in grado, nonostante l’immenso sforzo fatto fin qui da infermieri, medici e personale sanitario, di accogliere nei reparti di terapia intensiva i nuovi malati di Covid-19.

Anche molti altri paesi europei potrebbero, fra alcune settimane, trovarsi nella medesima situazione. L’unico grande paese europeo che ha un ampio numero di posti nei reparti di terapia intensiva (circa 25 mila, 5 volte l’Italia, a quanto si apprende dalle poche statistiche disponibili) è la Germania, che fortunatamente è ancora molto lontana da una situazione di emergenza.

Tutti speriamo vivamente che la Germania e gli altri paesi europei riescano a fermare l’epidemia prima che i loro sistemi sanitari si trovino nella situazione in cui ci troviamo noi. Ma ora la situazione è chiara: in questo momento l’Italia è l’unico paese in grave difficoltà, la Germania è l’unico paese in grado di fornire un aiuto concreto.

Oggi non è tempo di spendere parole più o meno alate sulla solidarietà europea, non è tempo di esercizi retorici, non è tempo di discussioni astratte. Oggi è tempo di agire, soltanto di agire, se lo si vuole.

Speriamo, Presidente von der Leyen e Cancelliera Merkel, che voi lo vogliate.

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English Version: Intensive Care Beds and European Solidarity: if Not Now, When?

Despite the immense efforts displayed by nurses, doctors and health workers, Italy will shortly no longer be able to offer a place in an Intensive Care Unit (ICU) to patients with Covid-19.

Within weeks, many other European countries might be in the same situation. The only – large – European country that has a considerable number of ICU beds is Germany (based on the scant evidence available, Germany has ca. 25,000 ICU beds, five times more than Italy). Luckily, Germany is still very far from being in an emergency.

We all sincerely hope that Germany and the other European countries will manage to stop the epidemic before their health system will be in the same situation as the Italian one. At the moment, there is no doubt that Italy is the only country facing extreme difficulties and Germany the only country able to offer concrete help.

Today is no longer the time for rhetorical words on ‘European solidarity’ nor for a discussion on principles. Today is the time to act. Acting now is the only thing that matters.

We hope, President von der Leyden and Chancellor Merkel, that you share our view and you will act now.

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Germania, il momento di essere europei è adesso

In un mondo globalizzato, in teoria, le istituzioni internazionali che lo governano dovrebbero essere dotate del massimo di competenza tecnica, senso di responsabilità, lungimiranza, rapidità di decisione, specie nelle emergenze.

L’impressione che si ricava da quando, tre mesi fa, il pericolo del Coronavirus è apparso sulla scena del mondo, è invece che la maggior parte di esse non ne sia affatto dotata.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), per cominciare, ha già commesso almeno tre sbagli gravi, tutti e tre di tempistica. Il primo è stato di avere più volte definito “moderato” il rischio connesso alla diffusione dell’epidemia, risolvendosi solo recentemente (28 febbraio, meno di 3 settimane fa) a dichiararlo “molto alto”; il secondo è stato di non modificare tempestivamente i protocolli per decidere quando sottoporre a tampone i pazienti sintomatici (un ritardo che all’Italia è costato il tardivo isolamento del “paziente 1”); il terzo è stato di posporre fino a pochi giorni fa (12 marzo) la proclamazione della pandemia.

Sulle istituzioni europee meglio stendere un velo. Incapace di fissare regole comuni per fronteggiare l’epidemia, la Commissione Europea si sta muovendo appena ora per erogare (scarsi) fondi ai paesi colpiti, con una ripartizione di cui tutto si può dire tranne che tenga conto della gravità della situazione italiana. Quanto alla Bce, non solo si è ben guardata dal dare ossigeno all’economia abbassando i tassi, ma la sua presidente francese, Christine Lagarde, si è già prodotta in una gaffe così anti-italiana (“non siamo qui per chiudere gli spread”) da provocare la reazione di un uomo prudente e compassato come il nostro Presidente della Repubblica.

Che fare, a questo punto?

Credo che il pachiderma europeo molto parlerà, molto si riunirà in videoconferenza, molto discuterà, ma poco deciderà nel breve periodo. Però c’è una cosa, piccola, che almeno un paese – il paese leader d’Europa, ovvero la Germania – potrebbe fare per dare un segnale di sensibilità e di saggezza: mettere a disposizione una piccola frazione dei suoi posti di terapia intensiva (stimati in circa 28 mila, 5 volte quelli dell’Italia) per aiutare i paesi in difficoltà, a partire dall’Italia che in questo momento è il paese che più ne avrebbe bisogno.

Tutti noi seguiamo quotidianamente la conta dei contagiati e dei morti, ma il vero punto critico – in questo momento – sono i reparti di terapia intensiva, chiamati a curare e salvare i pazienti più gravi. Già ora, in molte province (su tutte quella di Bergamo, nonché varie altre province lombarde), gli arrivi di pazienti con il Covid-19 superano largamente le possibilità di accoglierli, nonostante da alcune settimane il personale ospedaliero stia facendo miracoli per creare nuovi posti. Lo spostamento in altri ospedali, previsto dal sistema Cross di solidarietà e scambio fra Regioni, non potrà funzionare per più di qualche giorno, perché anche le altre regioni stanno per raggiungere il limite di capacità. Oggi i pazienti ricoverati in terapia intensiva sono già 1700, ma secondo tutti i modelli di simulazione, in una sola settimana la richiesta di nuovi posti potrebbe aggirarsi sulle 1000 unità, con conseguente collasso del sistema (il numero massimo di posti che, facendo i salti mortali, si può sperare di destinare ai pazienti Covid-19 è 2500). Questo significa che il collasso del sistema è una questione di giorni, se non di ore. Sulla base degli ultimi dati, si può prevedere che il limite di capacità (intorno a 2500 ricoverati in terapia intensiva) venga raggiunto giovedì, ovvero fra circa 72 ore.

Ecco perché dico che, forse, un gesto di amicizia e di solidarietà da parte della Germania verso l’Italia e gli altri paesi europei (presto in difficoltà anch’essi) potrebbe avere un senso. Contrariamente a quanto si sente dire in questi giorni, infatti, le poche statistiche disponibili rivelano che la vera anomalia nelle dotazioni di posti di terapia intensiva non è la mancanza di posti dell’Italia, ma è la scarsità di posti per abitante di tutti i principali paesi europei (compresi Francia, Spagna, Regno Unito, Svizzera, nonché i mitici paesi scandinavi).

Questo significa che, se l’epidemia raggiungerà proporzioni comparabili alle nostre, saranno molti i paesi che dovranno fare i conti con la mancanza di posti in terapia intensiva. Con la differenza che loro entreranno in crisi fra un paio di settimane, mentre noi lo siamo adesso. Ecco perché la Germania, per un sia pur breve intervallo di tempo (grosso modo da qui a Pasqua), potrebbe essere l’unico paese in condizione di aiutare non solo i suoi cittadini, ma anche quelli altrui. Sarebbe un aiuto modesto, se non altro perché molti pazienti gravi non sono trasportabili, ma darebbe un segnale importante. Sempre che l’Europa, attraverso il suo paese più grande e più potente, un segnale di esistenza in vita lo voglia dare.

Pubblicato su Il Messaggero del 16 marzo 2020



Se 100 mila vi sembran pochi

E’ incredibile quanto le classi dirigenti dei paesi occidentali siano incapaci di imparare dalle esperienze altrui. Cianciano senza sosta di importare modelli vincenti e “best practices” dagli altri paesi, ma al primo vero test – l’epidemia di coronavirus – si mostrano quasi del tutto incapaci di sfruttare le conoscenze altrui. Vale per l’Italia, che per oltre un mese si è ben guardata dal fare tesoro di quel che potevano insegnare paesi come la Cina e la Corea del Sud, che avevano avuto l’emergenza della Sars nel 2003 e quindi sono stati capaci di prendere sul serio il Covid-19, con il risultato di rallentare molto rapidamente l’epidemia. Ma vale anche per i paesi europei, che avevano a due passi il dramma dell’Italia, e solo ora – dopo averci guardato con sufficienza – si apprestano, molto lentamente e goffamente, a varare misure simili alle nostre. Né meglio paiono comportarsi gli stati Uniti, dove il problema è ancor oggi largamente sottovalutato.

Alle volte mi chiedo se i capi di governo e il ceto politico dei maggiori paesi occidentali si rendano conto del senso di quello che dicono. Nelle ultime settimane mi è capitato di sentire dichiarazioni che prospettavano una diffusione dell’epidemia da coronavirus fino al 20% della popolazione (Regno Unito), al 50% della popolazione (Stati Uniti), al 70% della popolazione (Germania), e dimenticavano di aggiungere che cosa questo avrebbe potuto significare nei rispettivi paesi: circa 400 mila morti nel Regno Unito, 5 milioni di morti negli Stati Uniti, 1 milione e 700 mila morti in Germania. Eppure  dovrebbero sapere che l’ordine di grandezza della catastrofe, il fatto cioè che alla fine i morti siano decine di migliaia, o centinaia di migliaia, o addirittura milioni, dipende in modo cruciale da quanto tempestivamente e radicalmente si agisce.

Ma torniamo all’Italia. Il governo ha sicuramente sottovalutato il problema, lo ha affrontato tardi e disordinatamente, ma alla fine ha preso atto che doveva varare misure drastiche. Ora la domanda è: sono sufficienti?

A mio parere no, e per una ragione fondamentale. Il numero di soggetti che è potenzialmente in grado di contagiarne altri è sconosciuto, ma il suo ordine di grandezza si può valutare. Lo abbiamo fatto come Fondazione David Hume, usando procedimenti statistici e modelli di simulazione, e il risultato è che, oggi 14 marzo 2020, le persone non diagnosticate come positive ma in grado di trasmettere il contagio sono almeno 100 mila, circa 7 volte i 15.000 soggetti positivi delle cifre ufficiali. E’ il caso di notare che questa stima è estremamente prudente: c’è anche chi, come la virologa Ilaria Capua (università della Florida) non esclude che i casi effettivi possano essere 10 volte quelli accertati (se non di più).

Il fatto che le persone con licenza di infettare siano almeno 100 mila, e inevitabilmente siano in costante aumento (fra 15 giorni potrebbero essere comprese fra 500 mila e 1 milione), induce a considerare tre limiti delle misure attuali.

Limite 1. Forse il fermo delle attività produttive non è abbastanza esteso, certamente le misure a protezione di chi ancora lavora vanno rafforzate. Se le persone che continuano a lavorare in modalità tradizionale sono, poniamo, anche solo 15 milioni (su un totale di 23), si può stimare che fra esse vi siano almeno 25 mila soggetti contagiosi che non sanno di esserlo.

Limite 2. E’ stato un gravissimo errore scoraggiare l’uso delle mascherine in quanto inutili a proteggere sé stessi: più numerosi sono i soggetti asintomatici ma contagiosi, più diventa essenziale l’obbligo di portare la mascherina. Meglio sarebbe stato cercare di dotare l’intera popolazione di questo dispositivo, incoraggiandone l’uso altruistico. E’ ora di correre ai ripari subito, incentivando i produttori a produrne ed esortando i cittadini ad usarle. Questa linea di condotta è stata una delle chiavi di volta del successo della Corea del Sud nella lotta contro il coronavirus.

Limite 3. Ma l’errore più grave, che ancora oggi testardamente le nostre autorità si ostinano a perpetuare, è quello di non aver avviato una campagna di massa di tamponi, un errore aggravato dalla doppia scelta di restringere ulteriormente il ricorso ai tamponi (26 febbraio) e di conferire alle strutture pubbliche un vero e proprio monopolio. Oggi, in Italia, per ottenere un tampone bisogna avere sintomi gravi e forti indizi di essere stati contagiati. Una situazione che getta nell’angoscia e nella disperazione migliaia di persone sintomatiche ma ignorate da Servizio Sanitario Nazionale perché non ancora abbastanza gravi, o non in grado di provare contatti con persone risultate positive.

Questa, a mio parere, è stata e rimane la scelta più grave. Di nuovo non siamo stati capaci di copiare le pratiche migliori. La Corea del Sud ha fatto oltre 200 mila tamponi, nel regno Unito si possono fare tamponi addirittura dal finestrino dell’auto, come in un comune drive-in (si chiama: drive through facility), in molti paesi il tampone si può fare privatamente. Si potrebbe fare anche in Italia, se i numerosi kit già disponibili (compresi i kit domestici) ricevessero il via libera delle autorità sanitarie, anziché essere ostacolati politicamente o amministrativamente. E sarebbe un grande sollievo per tutti, specie se – oltre alla liberalizzazione dei tamponi, che servono a capire se si è positivi ora – venissero incentivati gli esami del sangue, che potrebbero rivelare se si è stati positivi in passato, senza sviluppare i sintomi.

E dire che a favore dei tamponi di massa (almeno nelle zone con un focolaio) si sono ripetutamente espressi numerosi esperti e istituzioni mediche, sia nella fase in cui la loro efficacia sarebbe stata massima, sia nella drammatica fase attuale. Agli accorati inviti degli studiosi indipendenti, i funzionari cui il governo ha affidato la gestione dell’epidemia hanno perlopiù opposto argomenti vuoti: “fare i tamponi solo alle persone con sintomi è una strategia fatta per massimizzare i vantaggi”; le “evidenze scientifiche” indicano l’utilità di riservare i tamponi “a soggetti sintomatici che hanno avuto contatti a rischio o che provengono da aree a rischio”.

E quale sarebbe la base logica di questa fortissima limitazione dei tamponi, incredibilmente incorporata nelle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità?

Eccola qua: dalle indicazioni dell’OMS non si deve derogare “altrimenti si possono determinare effetti collaterali; per esempio, il fatto di aver all’inizio effettuato troppi tamponi ha generato una focalizzazione dell’attenzione mondiale sull’Italia, che ha finito per essere indicata come paese di ‘untori’”.

Sì, avete capito bene. Il turismo. Se a un certo punto (26 febbraio) è stato deciso di limitare ulteriormente i tamponi (che peraltro non erano affatto tanti: meno di 10 mila dall’inizio dell’epidemia, il Regno Unito intende farne 10 mila al giorno) è perché nella “cabina di regia” di questa crisi si è ritenuto che scoprire più casi avrebbe sì aiutato a curali o isolarli, ma avrebbe anche danneggiato l’immagine dell’Italia all’estero.

Non ho parole.

Pubblicato su Il Messaggero del 14 marzo 2020