La “sperimentalità” dei vaccini contro il covid-19: un punto di vista giuridico.

L’articolo si propone di fornire un semplice contributo informato al pubblico dibattito senza alcuna pretesa di rappresentare una parere professionale sul tema.

In questi ultimi tempi si sono moltiplicati i dibattiti sul fatto che i vaccini (o, per meglio dire, le terapie) contro il covid siano o meno farmaci sperimentali. Nell’agone dialettico si sono cimentati in tanti e anche un discreto numero di giuristi, in particolare esperti di diritto costituzionale. Il tema della definizione di “sperimentalità” di una terapia – ad esempio quando dalla qualificazione si vogliono trarre conseguenze in tema di legittimità di eventuali obblighi vaccinali (o del green pass) – è infatti questione giuridica prima che politica o medica. Questo significa che – per discuterne – occorre prima di tutto evitare di cadere vittima dell’idea (che spesso il profano del diritto condivide) per cui, se la legge parla di “esperimento” o di farmaco “sperimentale”, il contenuto dei termini in questione potrebbe essere individuato semplicemente utilizzando o il vocabolario comune o (per i profani più attenti) il glossario medico. La realtà è invece che le norme sono strumenti che definiscono degli istituti giuridici che hanno uno scopo, e che – di conseguenza – la loro interpretazione non può che seguire regole che rispettino la funzione dell’istituto che di volta in volta le norme da interpretare concorrono a definire. Funzione che, a sua volta, deve essere desunta da quelle stesse norme, nel rispetto del principio di non contraddizione logica, in forza del quale norme che contengono definizioni di tenore letterale analogo non dovrebbero avere – se non definiscono istituti che hanno scopi radicalmente differenti – un contenuto diverso.

Tutto questo per dire che il tema merita di essere trattato, anche quando viene posto in termini di rispetto del diritto costituzionale e/o internazionale, tenendo conto del diritto regolatorio farmaceutico, ossia della parte (del diritto amministrativo e dell’Unione Europea) che disciplina – appunto – la sperimentazione di farmaci e trattamenti ad uso umano. E dunque – al fine di evitare antinomie, ossia contrasti tra definizioni uguali contenute in norme differenti – l’individuazione di quali farmaci possano considerarsi sperimentali (e di quali studi clinici possono essere considerati attività sperimentali), anche se condotta per verificare la possibilità di applicare principi e norme costituzionali o internazionali, non può prescindere da un esame delle norme (nazionali e di fonte UE) che disciplinano l’attività di sperimentazione dei farmaci al fine di garantire la sicurezza della loro somministrazione al pubblico. Con questo scritto intendo dunque dare un contributo al dibattito, ben conscio del fatto che ogni giurista si limita a indicare interpretazioni sulla base della sua conoscenza delle norme e dei principi ermeneutici, mentre sono altri soggetti – in primo luogo i giudici, ma anche i decisori politici – che hanno il non facile compito di decidere come stanno le cose, traendone le dovute conseguenze a seconda della sede.

Nel rispetto delle premesse indicate, dunque, possiamo porci la domanda: i farmaci autorizzati in via condizionata (e, nello specifico, i cosiddetti vaccini anti-covid) possono essere considerati “farmaci sperimentali” e/o attualmente sottoposti ad attività di studio clinico definibili come “sperimentazione”? Per rispondere a queste domande possiamo affrontare il tema in tre modi diversi.

Il primo – più semplice, ma forse anche un po’ semplicistico (e che dunque trova ampi consensi anche tra i non giuristi e tra i giuristi che hanno meno familiarità con le complicazioni del diritto regolatori farmaceutico) – è quello per cui, se un farmaco viene autorizzato per il commercio dall’ente regolatore, allora avrebbe per definizione cessato la fase di sperimentazione. Si tratta di una posizione che (certamente condivisibile in relazione alle AIC ordinarie) per le autorizzazioni in deroga, come quella concessa per ora ai cosiddetti vaccini anti-covid, richiede di superare almeno uno scolio.

E’ infatti vero che anche i farmaci autorizzati in deroga hanno superato una parte degli stessi test clinici previsti per quelli ordinari (quelli delle fasi uno, due e tre), ma altrettanto vero è – come vedremo quando esamineremo il contenuto di due autorizzazioni condizionate relative a vaccini anti-covid – che alcuni studi clinici sugli effetti del farmaco devono essere comunque condotti in epoca successiva al momento dell’autorizzazione condizionata, al fine di conseguire l’autorizzazione definitiva ordinaria (autorizzazione ordinaria che – si badi bene, perché il punto è importante – ancorché concessa a posteriori resta comunque necessaria per la prosecuzione della legittima vendita del farmaco).

Proprio muovendo da questa ultima considerazione, infatti, si potrebbe sostenere che – essendo come vedremo alcuni di questi test aggiuntivi riconducibili al genus attività di sperimentazione clinica ed essendo questi test in corso fino alla concessione della autorizzazione definitiva – i vaccini autorizzati in deroga, fino al momento della concessione dell’AIC ordinaria, potrebbero essere classificabili come farmaci sperimentali, appunto per il fatto che la verifica della loro sicurezza (quella ordinariamente richiesta per la somministrazione al pubblico) resta subordinata alla svolgimento di ulteriori verifiche e test sperimentali. Questo significa che a ben vedere – anche usando il criterio “semplice” che piace ai medici – resta possibile sostenere che i vaccini, per quanto già autorizzati (ma solo in via condizionata), siano ancora sperimentali.

Per risolvere il dubbio occorre dunque passare al secondo approccio al tema della “sperimentalità” dei vaccini; quello più attento alla coerenza del sistema nel suo complesso e che dunque passa per l’individuazione delle definizioni di “sperimentazione” e di “farmaco sperimentale” contenute nel diritto farmaceutico.

La prima fonte da considerare è rappresentata dal regolamento n. 536/2014 del Parlamento e del Consiglio UE sulla sperimentazione clinica di medicinali per uso umano, promulgato il 16 aprile 2014 [il testo è accessibile al seguente link]. La sua importanza deriva dal fatto che si tratta del regolamento che deve sostituire (abrogandola) la direttiva n. 2001/20/CE concernente il ravvicinamento del diritto degli Stati membri in tema di applicazione della buona pratica clinica nell’esecuzione della sperimentazione clinica di medicinali ad uso umano. Si noti che il Regolamento in questione, per quanto adottato nel 2014, sarà in realtà applicabile solo dopo la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’UE dell’avviso con il quale la Commissione europea avrà confermato la piena funzionalità del cosiddetto CTIS (Clinical Trial Information System). Questo significa che – essendo l’operatività del sistema CTIS attualmente prevista per dicembre 2021 – è assai probabile che il Regolamento possa iniziare ad applicarsi a decorrere da quella data, dunque da fine anno. Al di là della data di effettiva entrata in vigore, il regolamento riveste già ora un ruolo importante nel sistema del diritto farmaceutico dell’UE, in quanto destinato a disciplinare organicamente – con norme di applicazione uniforme che prevarranno, abrogandone le parti incompatibili, sulle singole discipline nazionali – la materia di cui stiamo parlando.

Prima di verificare il contenuto del regolamento in questione, può essere il caso di esaminare la direttiva che quel regolamento va a sostituire [accessibile al seguente link], tenendo conto del fatto che – per quanto non direttamente applicabile negli Stati Membri – anche questo testo normativo può fornire indicazioni sull’interpretazione delle rispettive normative nazionali di attuazione, così come anche sul senso dei termini utilizzati nel regolamento.

Ebbene: l’art. 2 della direttiva – intitolato “definizioni” – alla lettera d) definisce come “medicinale in fase di sperimentazione” ogni “principio attivo in forma farmaceutica o placebo sottoposto a sperimentazione oppure utilizzato come riferimento nel corso di una sperimentazione clinica, compresi i prodotti che hanno già ottenuto un’autorizzazione di commercializzazione se utilizzati o preparati (secondo formula magistrale o confezionati) in maniera diversa da quella autorizzata, o utilizzati per indicazioni non autorizzate o per ottenere ulteriori informazioni sulla forma autorizzata” (le enfasi sono aggiunte, n.d.r.). Si noti in particolare la frase finale, secondo cui va considerato in fase di sperimentazione anche un farmaco che, per quanto già autorizzato al commercio, viene usato al fine di ottenere ulteriori informazioni sulla forma autorizzata. Il che – come vedremo meglio infra – accade proprio in relazione ai farmaci autorizzati in deroga, come i cosiddetti vaccini anti-covid.

A sua volta, l’art. 2 lettera a) della direttiva, definisce la “sperimentazione clinica”, come segue: “qualsiasi indagine effettuata su soggetti umani volta a scoprire o verificare gli effetti clinici, farmacologici e/o gli altri effetti farmacodinamici di uno o più medicinali in fase di sperimentazione e/o a individuare qualsiasi tipo di reazione avversa nei confronti di uno o più medicinali in fase di sperimentazione, e/o a studiarne l’assorbimento, la distribuzione, il metabolismo e l’eliminazione al fine di accertarne l’innocuità e/o l’efficacia”. Secondo la direttiva, si definisce come sperimentazione qualunque indagine – condotta su esseri umani – che mira a valutare gli effetti o la sicurezza di un “medicinale in fase di sperimentazione”. E deve considerarsi in fase di sperimentazione, come abbiamo visto, ogni medicinale – anche se già autorizzato per la commercializzazione nell’UE – purché usato, tra le altre cose, per raccogliere informazioni sugli effetti dello stesso medicinale. La definizione pecca di una certa circolarità, ma fa ritenere che se un farmaco è ancora soggetto a esami clinici condotti su persone, anche se già autorizzato, deve considerarsi un farmaco sperimentale. Per la direttiva, insomma, parrebbe che a fare la differenza – per poter considerare sperimentale un farmaco – sia il fatto che quel farmaco (anche dopo aver ottenuto una autorizzazione condizionata) è ancora soggetto a “indagini” cliniche relative ai suoi effetti.

Ma procediamo ora con l’esame della normativa nazionale di attuazione della suddetta direttiva, che è rappresentata dal decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 211 [accessibile nel testo ufficiale qui].

All’art. 2 (definizioni) del decreto – come quasi sempre avviene – troviamo delle definizioni assai simili a quelle della direttiva. E dunque: alla lettera d) leggiamo che per “medicinale  sperimentale” si intende “una  forma  farmaceutica  di  un principio   attivo   o   di   un  placebo  saggiato  come  medicinale sperimentale o come controllo in una sperimentazione clinica compresi i prodotti   che hanno già ottenuto un’autorizzazione di commercializzazione ma  che  sono  utilizzati  o  preparati (secondo formula  magistrale  o  confezionati) in forme diverse da quella autorizzata, o quando sono utilizzati per indicazioni non autorizzate o per ottenere ulteriori informazioni sulla forma autorizzata”. Alla lettera a) leggiamo invece che – per “sperimentazione   clinica” – dobbiamo intendere “qualsiasi studio  sull’uomo finalizzato   a   scoprire   o   verificare   gli   effetti  clinici, farmacologici  e/o  altri  effetti  farmacodinamici  di  uno  o  più  medicinali sperimentali, e/o a individuare qualsiasi reazione avversa ad uno a più medicinali sperimentali, e/o a studiarne l’assorbimento,  la  distribuzione,  il metabolismo e l’eliminazione, con  l’obiettivo di accertarne la sicurezza e/o l’efficacia”. La legge italiana pare dunque discostarsi dalla direttiva, prevedendo una nozione più ampia di sperimentazione: la norma nazionale parla infatti di ogni “studio” (non di ogni “indagine”, come la direttiva), facendo supporre che – quanto meno nel nostro ordinamento nazionale – possano rientrare nel concetto di attività di sperimentazione anche le procedure di semplice verifica dei dati raccolti senza protocolli aggiuntivi (ad esempio in sede di farmacovigilanza passiva), ancorché si tratti di attività che non implichino la conduzione di esami fisici aggiuntivi sui soggetti che ricevono (o hanno ricevuto) il farmaco. La differenza è importante e merita di essere sottolineata.

Assume tuttavia rilevanza ai fini della nostra indagine anche il decreto legislativo del 6 novembre 2007, n. 200 [accessibile al link che è uno dei decreti attuativi della diversa direttiva 2005/28/CE [il cui testo ufficiale è accessibile al seguente link]. Si tratta di una seconda direttiva che indica principi e linee guida dettagliate per la pratica clinica relativa ai medicinali in fase di sperimentazione a uso umano, nonché dei requisiti per l’autorizzazione alla fabbricazione o importazione di tali medicinali. E’ una direttiva che – di per sé – non ha un contenuto particolarmente interessante, mentre il relativo decreto attuativo (che analizzeremo qui appresso) contiene invece definizioni rilevanti per la nostra indagine.

La prima di esse è quella di “medicinale sperimentale” (art. 1 lettera h), definito come “una forma farmaceutica di un principio attivo o di un placebo saggiato come medicinale sperimentale o come controllo in una sperimentazione clinica, compresi i prodotti che hanno già ottenuto un’autorizzazione di commercializzazione, ma che sono utilizzati o preparati (secondo formula magistrale o confezionati) in forme diverse da quella autorizzata, o quando sono utilizzati per indicazioni non autorizzate o per ottenere ulteriori informazioni sulla forma autorizzata o comunque utilizzati come controllo”. Qui per sperimentazione si intende ogni “uso” del farmaco – concetto a ben vedere ancora più ampio rispetto a quello di “studio” che abbiamo visto in precedenza – finalizzato a raccogliere dati sugli effetti del farmaco.

Seguono – in particolare alle lettere o) e p) dell’art. 1 del Decreto – le definizioni di “sperimentazione clinica” e – molto interessante ai nostri fini – quella di “sperimentazione non interventistica”.

Per “sperimentazione clinica” si intende infatti “qualsiasi studio sull’essere umano finalizzato a scoprire o verificare gli effetti clinici, farmacologici o altri effetti farmacodinamici di uno o più medicinali sperimentali, o a individuare qualsiasi reazione avversa ad uno o più medicinali sperimentali, o a studiarne l’assorbimento, la distribuzione, il metabolismo e l’eliminazione, con l’obiettivo di accertarne la sicurezza o l’efficacia, nonchè altri elementi di carattere scientifico e non”. Anche qui – dunque – il nostro legislatore include nella stessa categoria di sperimentazione clinica anche il semplice “studio”, dunque confermando quanto risultava già dall’altro decreto legislativo, ossia che per sperimentazione clinica – quanto meno secondo il nostro diritto nazionale – si può intendere anche una semplice verifica di dati senza condurre analisi cliniche (dunque attività fisica) su chi riceve il farmaco.

Che per il nostro legislatore la nozione di “sperimentazione” si estenda anche a semplici “studi” di dati clinici – dunque senza che sia necessario condurre indagini o esami fisici su chi riceve il farmaco – trova conferma nella previsione della sottospecie di sperimentazione – definita “sperimentazione non interventistica” – che viene descritta come “uno studio nel quale i medicinali sono prescritti secondo le indicazioni dell’autorizzazione all’immissione in commercio ove l’assegnazione del paziente ad una determinata strategia terapeutica non è decisa in anticipo da un protocollo di sperimentazione, rientra nella normale pratica clinica e la decisione di prescrivere il medicinale è del tutto indipendente da quella di includere il paziente nello studio, e nella quale ai pazienti non si applica nessuna procedura supplementare di diagnosi o monitoraggio”. Anche questa forma di studio (senza indagine medica e senza definizione di protocolli aggiuntivi) viene infatti definita “sperimentazione” dalla normativa nazionale italiana.

Pare insomma che il nostro diritto regolatorio nazionale adotti una nozione di sperimentazione di tipo formalistico, nel senso che – per aversi sperimentazione – non è necessario lo svolgimento di esami clinici sui soggetti che assumono il farmaco, ma sarebbe sufficiente anche la semplice raccolta e analisi di dati relativi agli effetti dei farmaci, senza la predisposizione di protocolli specifici all’uopo. Questa impostazione si spiega peraltro con il fatto che il legislatore nazionale ha inteso adottare per il settore farmaceutico un concetto di massima precauzione, considerando cioè ancora in fase sperimentale qualunque farmaco che sia ancora soggetto ad una qualunque forma di verifica degli effetti precedente alla sua piena commerciabilità con una autorizzazione ordinaria.

Questa considerazione è importante in quanto, come vedremo meglio infra, la somministrazione al pubblico di vaccini autorizzati in via condizionata resta sottoposta a farmacovigilanza e raccolta dati aggiuntivi anche in vista della formazione del dossier finale per la concessione dell’AIC definitiva: attività che, di conseguenza, potrebbe essere ritenuta una ipotesi di “sperimentazione non interventistica”. E tanto potrebbe essere a sua volta sufficiente per considerare come “medicinale sperimentale” il farmaco oggetto di autorizzazione  condizionata, in quanto di farmaco ancora oggetto a studi volti a ottenere ulteriori informazioni di natura clinica (ad esempio effetti avversi) sulla forma già autorizzata al commercio del farmaco stesso, in vista della sua autorizzazione ordinaria. Come vedremo tra poco, peraltro, i vaccini anti-covid in realtà – prima della concessione della autorizzazione definitiva – sono soggetti ad almeno un test clinico vero e proprio (uno studio randomizzato contro placebo, in cieco per l’osservatore), dunque a procedure che paiono rientrare nel concetto di sperimentazione con esame clinico propriamente detto.

Esaurito l’esame del nostro diritto nazionale – ed esaminata la direttiva che verrà sostituita dal regolamento – passiamo finalmente al contenuto del regolamento che, come si è anticipato, dovrebbe entrare in vigore nel prossimo futuro per disciplinare in modo uniforme ed organico la materia.

L’art. 2.2.3 del regolamento definisce come “sperimentazione clinica a basso livello di intervento” l’attività che segue: “una sperimentazione clinica che soddisfa tutte le seguenti condizioni: a) i medicinali sperimentali, ad esclusione dei placebo, sono autorizzati; b) in base al protocollo della sperimentazione clinica, i) i medicinali sperimentali sono utilizzati in conformità alle condizioni dell’autorizzazione all’immissione in commercio; o ii) l’impiego di medicinali sperimentali è basato su elementi di evidenza scientifica e supportato da pubblicazioni scientifiche sulla sicurezza e l’efficacia di tali medicinali sperimentali in uno qualsiasi degli Stati membri interessati; e c) le procedure diagnostiche o di monitoraggio aggiuntive pongono solo rischi o oneri aggiuntivi minimi per la sicurezza dei soggetti rispetto alla normale pratica clinica in qualsiasi Stato membro interessato”.

Qui il punto cui fare attenzione è la lettera c): come si è già avuto modo di accennare, dopo la concessione dell’autorizzazione condizionata, le case farmaceutiche – insieme al SSN – stanno proseguendo nella raccolta di dati clinici sui vaccini, ad esempio sugli effetti avversi, per completare il fascicolo sugli effetti a medio periodo del farmaco che consentirà la concessione dell’autorizzazione ordinaria. Orbene: se la procedura di raccolta dati implica procedure diverse (e ulteriori) rispetto a quelle di normale farmacovigilanza per i farmaci autorizzati ordinariamente, è legittimo sostenere che vi sia “monitoraggio aggiuntivo” rispetto alla normale pratica clinica dello stato membro. E se vi è un monitoraggio aggiuntivo, ricadremmo allora nell’ambito della definizione di sperimentazione a basso livello di intervento secondo il regolamento e – di conseguenza – i vaccini autorizzati in via condizionata sarebbero annoverabili tra i farmaci sperimentali.

A tale riguardo può essere allora il caso di segnalare che il regolamento N. 507/2006 della Commissione del 29 marzo 2006 sulle autorizzazioni in deroga dei farmaci dispone – all’art. 5 – che “Il titolare di un’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata ha l’obbligo specifico di completare gli studi in corso o di condurre nuovi studi al fine di confermare che il rapporto rischio/beneficio è positivo e di fornire i dati supplementari di cui all’articolo 4, paragrafo 1. Possono essere imposti obblighi specifici anche in relazione alla raccolta di dati di farmacovigilanza. 2. Gli obblighi specifici di cui al paragrafo 1 e il calendario per soddisfarli sono chiaramente precisati nell’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata. 3. Gli obblighi specifici e il calendario per soddisfarli sono resi pubblici dall’Agenzia”. Questo significa, in sostanza – che per capire se i cosiddetti vaccini covid sono ancora in corso di sperimentazione (a basso livello di intervento) secondo il regolamento UE n. 536/2014 – occorre capire se, nel concedere le autorizzazioni condizionate per questi vaccini, sono stati previsti dall’ente regolatore specifici obblighi di monitoraggio: se la risposta è sì, sono farmaci sperimentali, altrimenti no.

Assume dunque rilevanza in tal senso quello che si legge in questa dichiarazione ufficiale pubblicata dalla Commissione Europea, in particolare nelle frasi che seguono: “Inoltre, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) e l’Agenzia europea per i medicinali (EMA), in stretta collaborazione con la Commissione, gli Stati membri e i partner europei e internazionali, stanno istituendo attività rafforzate di monitoraggio per l’efficacia, la copertura, la sicurezza e l’impatto dei vaccini, compresi studi specifici per i vaccini anti-covid-19. Questi studi di monitoraggio supplementari e indipendenti vengono proposti per raccogliere e analizzare i dati sulla vaccinazione forniti dalle autorità pubbliche di tutti gli Stati membri sull’efficacia e la sicurezza dei vaccini. Gli studi contribuiranno a definire la sicurezza e l’efficacia del vaccino durante il suo ciclo di vita. Questi dati supplementari possono essere utilizzati anche per integrare eventuali azioni normative, ad esempio modifiche delle condizioni d’uso, avvertenze e relative modifiche delle informazioni sul prodotto per gli operatori sanitari e i pazienti” (n.d.r. le enfasi sono aggiunte). Insomma, pare proprio che – quanto meno stando a sentire la stessa Commissione UE – per i vaccini di cui stiamo parlano sono state previste procedure di monitoraggio aggiuntive rispetto a quelle per altri farmaci (e, per quanto si legge, anche rispetto a quella per altri vaccini) di guisa che – fino alla concessione dell’AIC ordinaria – i vaccini autorizzati in via condizionata potrebbero ben considerarsi come farmaci sottoposti a sperimentazione clinica a basso livello di intervento, ai sensi del regolamento 536/2014.

L’impressione resta confermata quando scendiamo nel dettaglio dei singoli casi ed esaminiamo le autorizzazioni condizionate concesse sui vaccini. Se prendiamo ad esempio l’AIC di Moderna [in italiano], leggiamo – inter alia – quanto segue: “OBBLIGO SPECIFICO DI COMPLETARE LE ATTIVITÀ POST-AUTORIZZATIVE PER L’AUTORIZZAZIONE ALL’IMMISSIONE IN COMMERCIO SUBORDINATA A CONDIZIONI. La presente autorizzazione all’immissione in commercio è subordinata a condizioni; pertanto ai sensi dell’articolo 14 a del Regolamento 726/2004/CE e successive modifiche, il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio deve completare, entro la tempistica stabilita, le seguenti attività: Descrizione Tempistica Al fine di completare la caratterizzazione del principio attivo e dei processi di produzione del prodotto finito, il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio deve fornire dati aggiuntivi. Gennaio 2021 Al fine di confermare la coerenza del principio attivo e del processo di produzione del prodotto finito (scale iniziali e finali), il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio deve fornire dati aggiuntivi di comparabilità e validazione. Aprile 2021 I rapporti ad interim saranno forniti su base mensile prima di tale data. Al fine di garantire una qualità costante del prodotto, il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio deve fornire informazioni aggiuntive sulla stabilità del principio attivo e del prodotto finito, ed esaminare il principio attivo e le specifiche del prodotto finito a seguito di ulteriori esperienze di produzione. Giugno 2021 Al fine di confermare l’efficacia e la sicurezza di COVID-19 Vaccine Moderna, il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio deve presentare la Relazione finale dello studio clinico per lo studio mRNA- 1273-P301 randomizzato, controllato con placebo, in cieco per l’osservatore Dicembre 2022”. Si noti che lo stesso tipo di sperimentazione aggiuntiva (dunque anche quella che consiste in uno studio clinico randomizzato verso placebo in cieco) è prevista per il vaccino Pfizer.

L’esame delle specifiche AIC conferma che una serie di specifiche attività aggiuntive di monitoraggio degli effetti dei vaccini – rispetto a quanto accade con le autorizzazioni ordinarie – sono state previste dall’ente regolatore a carico dei produttori in sede di concessione dell’autorizzazione condizionata. E risulta anche – in particolare – che almeno una di queste attività di verifica aggiuntiva – consistendo in uno “studio clinico randomizzato, controllato con placebo, in cieco per l’osservatore” – presenti tutti i crismi per essere considerata una forma di sperimentazione clinica propriamente detta. Le considerazioni che precedono portano dunque a concludere che – sulla base di una interpretazione del concetto di farmaco sperimentale che voglia restare coerente col diritto regolatorio farmaceutico applicabile nel nostro paese (sia quello di fonte nazionale attualmente in vigore, sia quello dell’UE attualmente in vigore e sia infine quello di prossima entrata in vigore) – i cosiddetti vaccini contro il covid, sino all’avvenuta concessione dell’AIC definitiva, sono farmaci soggetti ad attività di sperimentazione sia clinica sia clinica a basso livello di intervento. Il che consentirebbe di classificarli come farmaci sperimentali.

Ma l’esame non può esaurirsi qui, giacché – come si diceva – il diritto si deve interpreta a seconda della funzione delle norme che si applicano. E nel caso dei vaccini anti-covid, in realtà, il dibattito sulla “sperimentalità” sorge essenzialmente per verificare l’applicabilità di alcuni principi e norme – costituzionali e di diritto internazionale – che prevedono dei limiti per i pubblici poteri di imporre obblighi di somministrazione di farmaci sperimentali.

Per completare l’indagine, dunque, occorre capire se la nozione di farmaco sperimentale desumibile dall’esame delle fonti di diritto regolatorio farmaceutico consente di soddisfare la ratio delle norme che prevedono quelle forme di cautela per la somministrazione di farmaci sperimentali. E qui occorre partire dalla considerazione che tanto le norme internazionali anzidette quanto quelle, di diritto farmaceutico, che disciplinano l’attività di sperimentazione  – sono accomunate dal fatto di ispirarsi al principio di piena volontarietà del consenso, in forza del quale – chi assume questa particolare categoria di farmaci – deve aver maturato la propria decisione in piena libertà, ossia – per un verso – dopo aver ottenuto una corretta, veritiera e adeguata informazione sulle possibili conseguenze per la sua salute e – per altro verso – senza aver subito coartazioni o pressioni di alcun genere per indurlo ad assumerlo. Si noti infatti che alcune delle normative di diritto regolatorio UE e nazionale citate in precedenza contengono disposizioni relative alla necessità del consenso informato di chi è coinvolto nell’attività di sperimentazione dei farmaci.

Questo consente di sostenere che tutte queste normative – tanto quelle regolatorie quanto quelle, di natura costituzionale o di fonte internazionale, che pongono limiti alla potestà degli stati di imporre la somministrazione di farmaci sperimentali – sono tutte quante ispirate a un principio di massima precauzione, mirando in ultima analisi a tutelare i cittadini, ma anche la salute pubblica, contro i rischi generati dal fatto che un farmaco ancora in fase di sperimentazione presenta normalmente dei margini di rischio per la salute superiori rispetto a quelli relativi a farmaci già completamente sperimentati, di guisa che nessuno deve essere in qualche modo costretto o indotto a esporsi a quel rischio se non in piena ed assoluta libertà e dopo una corretta informazione sulle possibili conseguenza dell’assunzione. Se però questa è la prospettiva comune che ispira tutte le norme di cui stiamo parlando (sia quelle di fonte internazionale e/o costituzionali, sia quelle contenute in norme di diritto regolatorio) è allora possibile considerare come farmaco sperimentale, ai fini dell’applicazione di tutte queste norme (dunque anche di quelle non regolatorie), ogni sostanza che contiene un principio attivo che – secondo l’ordinamento applicabile nello stato di riferimento – non si può considerare abbastanza sicuro da poter essere messo in commercio su larga scala senza la necessità di condurre ulteriori studi.

Se le cose stanno in questi termini, la “sperimentalità” di un farmaco autorizzato in via condizionata negli stati dell’UE (e in Italia) potrebbe allora essere fatta discendere dalla constatazione che, nonostante la concessione dell’autorizzazione condizionata, questi farmaci devono comunque ottenere – sulla base di studi degli effetti a medio periodo e di sperimentazioni cliniche aggiuntive (che, come si è visto poc’anzi, nel caso di due vaccini contro il covid includono uno “studio clinico randomizzato, controllato con placebo, in cieco per l’osservatore”) – una successiva autorizzazione definitiva, che ha lo specifico scopo di confermare la sicurezza del farmaco stesso, certificata dall’AIC definitiva.

E qui il diavolo, come spesso accade con le questioni legali, sta nei dettagli: i vaccini anti-covid hanno infatti superato anche la cosiddetta fase 3 della sperimentazione clinica, dunque – per capire si tratta di farmaci ritenuti dal legislatore sicuri “come” gli altri farmaci, vale a dire quelli autorizzati in via ordinaria – occorrerebbe condurre una analisi differenziale tra gli studi richiesti alle case farmaceutiche per la concessione dell’autorizzazione definitiva e quelli solitamente richiesti per i farmaci a valle della concessione di una autorizzazione ordinaria. Se vi è una significativa differenza, nel senso che per le autorizzazioni condizionate in genere (o per quelle sui vaccini in particolare) vengono (o sono state specificamente) richieste verifiche aggiuntive rispetto a quelle per i farmaci ordinari, questo sarebbe un indizio nel senso della minore sicurezza del farmaco autorizzato in via condizionata rispetto al farmaco autorizzato in via ordinaria (dunque del fatto che il primo sia un farmaco sperimentale ai fini delle norme che vietano obblighi di somministrazione senza il consenso del soggetto che riceve il farmaco). Se invece gli studi post-autorizzazione che sono stati richiesti per i vaccini anti-covid sono sostanzialmente i medesimi rispetto a quelli normalmente richiesti per i farmaci autorizzati in via ordinaria, se ne dovrebbe concludere che la sicurezza di questi farmaci sia analoga rispetto ai farmaci autorizzati in via ordinaria (e che dunque i vaccini contro il covid non sono sperimentali ai fini dell’applicazione delle norme di cui stiamo discutendo).

Nel contesto di un’analisi che voglia tuttavia essere davvero “sostanziale” non possono tuttavia essere trascurati due argomenti. Il primo è che lo stesso fatto che esista una autorizzazione condizionata (anticipata) concessa solo in situazioni particolari, più rapida e diversa rispetto a quella definitiva, potrebbe confermare che – in astratto – si tratta di una autorizzazione che (proprio perché più rapida) garantisce un margine minore di sicurezza rispetto ad un farmaco autorizzato in via ordinaria. In sostanza: un farmaco autorizzato in via condizionata dovrebbe in certa misura “presumersi” meno sicuro rispetto a quelli autorizzati in via ordinaria. Che dunque i farmaci autorizzati in deroga siano in certa misura più rischiosi di quelli autorizzati in via ordinaria è difficile da negare (altrimenti non avrebbe senso concedere autorizzazioni condizionate), restando semmai da capire in quale misura essi siano più pericolosi (e – soprattutto – se questa misura può essere ritenuta a sua volta tale da far scattare i divieti di coercizione alla loro sperimentazione).

A tale ultimo riguardo, potrebbe allora assumere rilevanza il fatto che le case farmaceutiche abbiano preteso dagli Stati un manleva che li mettesse al riparo da pretese relative ai danni da effetti avversi (e che gli Stati l’hanno concessa). Per altro verso, qui da noi in Italia, per lo specifico caso dei vaccini contro il covid è stato previsto anche uno scudo penale (in particolare una specifica causa di non punibilità per lesioni colpose e omicidio colposo), derogando – con una norma eccezionale – alle disposizioni del nostro codice penale. Orbene: nessuna di queste cautelare viene predisposta in relazione ai farmaci autorizzati in via ordinaria, dunque dimostrando che tanto le case farmaceutiche quanto gli stati temono gli effetti collaterali di questi vaccini in misura sensibilmente maggiore di quanto non temano gli effetti collaterali dei farmaci autorizzati in via ordinaria. Ma, si badi bene, pare che li temano anche in misura maggiore rispetto ad altri farmaci autorizzati in deroga, per i quali a chi scrive non consta che, in passato, siano mai stati previsti scudi penali o manleve eccezionali di tale incisività. La prudenza mostrata dalle case farmaceutiche (così come, se possibile ancora più significativa, la ampia disponibilità dello stato a concedere “salvacondotti” in relazione ai danni da effetti avversi dei vaccini) non può dunque essere ignorata, rappresentando un forte argomento “sostanziale” a conferma del fatto che, con i vaccini anti-covid autorizzati in deroga, un rischio maggiore per la salute dei cittadini non solo esiste, ma deve ritenersi tutt’altro che remoto o trascurabile.

Quest’ultima considerazione confermerebbe insomma – per comportamenti concludenti – la tesi, già sostenibile sulla base dell’esame delle norme di diritto regolatorio farmaceutico, per cui i cosiddetti vaccini anti-covid sarebbero non solo farmaci sperimentali, ma anche farmaci che – rispetto a quelli autorizzati in via ordinaria – sono connotati da un grado di rischio aggiuntivo per la salute di entità tale da consentire l’applicazione delle norme in tema di necessità, per la loro somministrazione, di un consenso libero e informato di chi riceve il corrispondente trattamento.

A conclusione di questo lungo e complesso discorso è possibile affermare che esistono degli argomenti – desumibili tanto dal diritto regolatorio farmaceutico UE e nazionale quanto dalla ratio delle norme che pongono limiti alle sperimentazioni farmaceutiche senza il pieno e libero consenso di chi riceve il farmaco – per sostenere che, sino all’avvenuta concessione delle AIC definitive, i vaccini anti-covid rientrino nella categoria dei farmaci sperimentali, così come per sostenere che una parte delle attività di verifica alle quali questi vaccini sono soggetti in vista dell’ottenimento dell’autorizzazione definitiva al commercio rientrino nel concetto di attività sperimentale (sotto il profilo della sperimentazione clinica propriamente detta, o come sperimentazione clinica a basso livello di intervento o come sperimentazione non interventistica). Infine, vi sono argomenti anche per sostenere che questi vaccini presentino apprezzabili margini di rischio per la salute rispetto ai farmaci autorizzati in via ordinaria (ma, forse, anche rispetto ad altri farmaci autorizzati in deroga in passato). Tutto questo induce a supporre che si tratti di farmaci che potrebbero anche rientrare nel concetto di farmaco o trattamento sperimentale rilevante ai fini dell’applicazione delle normative che – a diverso titolo e con diversa fonte – impongono ai pubblici poteri restrizioni e limiti all’imposizione di obblighi di somministrazione. Del resto è verosimile supporre che proprio simili considerazioni abbiano sinora consigliato al Governo estrema prudenza nel porre degli obblighi vaccinali generalizzati, preferendovi l’escamotage della pressione indiretta via green pass.




Rave party, perché le istituzioni stanno a guardare

Il rave party che, nel comune di Valentano, ha devastato un’azienda agricola, provocato un morto, danneggiato le attività turistiche, messo a repentaglio la salute pubblica, ha giustamente sollevato parecchi interrogativi. Perché il Ministero dell’interno non ne sapeva nulla? Perché, una volta occupata illegalmente l’area, le forze dell’ordine hanno atteso ben cinque giorni prima di intervenire? Perché in Francia (il paese a partire dal quale vengono organizzati la maggior parte dei rave) la legge punisce i rave, mentre in Italia la Corte Costituzionale (con sentenza del 21 luglio 2017) ha ribadito che l’articolo 17 della Costituzione li tutela in quanto manifestazioni della libertà di riunione?

Sono domande giuste e naturali, ma possono anche essere fuorvianti. Se ci facciamo solo questo genere di domande, rischiamo di non cogliere l’aspetto più inquietante di questa vicenda. Che non è che le autorità abbiano chiuso un occhio in questa particolare circostanza, ma che lo stiano facendo sistematicamente da almeno 15 mesi, ossia da quando – nel maggio dell’anno scorso – è terminato l’unico vero lockdown, quello di marzo e aprile 2020.

Da allora la linea è sempre stata la medesima: emettere ogni sorta di obbligo e divieto, e farne rispettare solo alcuni.

Quali?

Fondamentalmente quelli che gravano sul settore privato: bar, ristoranti, palestre, parchi, esercizi commerciali, aziende. Quanto agli altri, che competerebbero all’autorità pubblica, nada de nada: nessun intervento incisivo sull’edilizia scolastica, nessun intervento sul trasporto locale, nessuna sorveglianza sugli assembramenti da movida, festeggiamenti calcistici, discoteche abusive, affollamenti vari sui traghetti, nelle isole, nei luoghi di vacanza. In breve: si è scelto di chiudere un occhio.

Di qui alcune conseguenze, tutte prevedibili. La gente ha capito subito che alcune regole erano grida manzoniane, che si potevano tranquillamente ignorare visto che nessuna autorità si prendeva la briga di farle rispettare. Nel nostro paese, come ha notato Carlo Nordio nei giorni scorsi, è montato un sentimento di ingiustizia, una frattura fra quanti sono costretti all’osservanza scrupolosa delle norme e quanti le possono impunemente trasgredire. E infine, conseguenza capitale, l’inerzia delle autorità politico-sanitarie ha confezionato una bomba a orologeria ad alto potenziale, pronta a deflagrare in autunno.

Poiché non a tutti è chiaro come tale bomba sanitaria sia stata predisposta, mi soffermo brevemente sull’aritmetica dell’epidemia. In un anno, ossia fra l’estate scorsa e oggi, il tasso di letalità del Covid si è ridotto di un fattore 4, grazie all’efficacia dei vaccini nel prevenire ospedalizzazione e decesso; ma il numero di contagiati è aumentato di circa 12 volte, grazie alla scelta politica di puntare sul green pass e chiudere un occhio sul rispetto delle regole. Il combinato disposto di questi due input è la triplicazione del tasso di mortalità: se oggi i morti per abitante sono 3 volte quelli di un anno fa è perché il freno dei vaccini (1/4 di letalità) è stato annullato e sovrastato dall’acceleratore del contagio (cresciuti di 12 volte). Né le cose vanno meglio se ragioniamo sul numero dei ricoveri ospedalieri o sulle terapie intensive, che nel giro di un anno sono circa quadruplicati.

Perché dico che quella che ci hanno preparato è una bomba a orologeria?

La ragione è semplice. Nell’autunno scorso, il disastro è stato innescato dal triplice impulso del rientro dalle vacanze, della ripresa del lavoro, del ritorno a scuola (e verosimilmente pure dall’appuntamento elettorale). Oggi siamo più preparati di allora a fronteggiare il disastro perché 1 italiano su 3 è vaccinato, ma in compenso l’onda che ci travolgerà è molto più alta (circa 12 volte più alta!) perché il virus circola molto di più. E’ come se allora fossimo stati sorpresi da una mareggiata, e oggi ci sentissimo più sicuri perché ci hanno dato un salvagente, e non volessimo capire che quel che è in arrivo è uno tsunami, non una mareggiata.

E qui torniamo alla domanda delle domande: perché non lo vogliamo capire? O meglio: perché chi ci governa ha scelto di non dircelo, e di lasciar correre il virus?

Temo che la risposta sia la stessa che si deve dare alla domanda sul rave di Valentano e sulle innumerevoli altre violazioni su cui, specie in questi mesi estivi, si è scientemente preferito lasciar correre. Ed è una risposta di natura sociologica o, se preferite, di natura storico-antropologica.

Nelle nostre società, ricche e arrivate, il divertimento, la vacanza, l’evasione, il rito dell’aperitivo sono assurti – nella coscienza dei cittadini, non meno che in quella dei governanti – a diritti fondamentali e inviolabili della persona. Nel caso dei giovani, categoria che ormai si prolunga ben oltre il traguardo della maggiore età, questo diritto fondamentale si arricchisce dell’ulteriore diritto a consumare il divertimento in massa, in forme più o meno sfrenate, di cui il ballo e i suoi annessi (alcol e sostanze) sono le manifestazioni più tipiche. Può succedere così che, in tv, una ragazzina milanese di 10 anni affermi, seriamente e senza un filo di ironia, che non andare al ristorante per ben due mesi “è stato terribile”, come se avesse subito un’aggressione o uno stupro. E che decine e decine di giovani intervistati sfilino ogni sera in tv a spiegarci che sì, lo sanno perfettamente che ballare è pericoloso e proibito, ma che loro no, proprio non possono farne a meno, dopo mesi di chiusure, limitazioni, sofferenze inenarrabili.

Eppure dovrebbero sapere che, nella storia dell’umanità e delle civiltà, non è mai esistita una generazione di giovani con tanti privilegi come quelli goduti da quella attuale. Buona parte dei loro padri, nonni e bisnonni dovevano andare in guerra, o iniziavano a lavorare a 14 anni,  non avevano alcuna “paghetta”, né le innumerevoli protezioni, esenzioni e facilitazioni che genitori e insegnanti di oggi riservano a ragazzi e ragazze. In un mondo normale, gli adulti glielo ricorderebbero, e la classe dirigente non spenderebbe il suo tempo a compatirli e a descriverne le indicibili sofferenze. Qualcuno troverebbe il coraggio di spiegare che sì, per tutti è stato ed è difficile, ma certi comportamenti, di cui il rave di Valentano è solo l’esempio più eclatante, hanno un costo tragico in termini di vite umane sacrificate. E che è esistito un tempo, neanche poi così remoto, in cui la maggioranza dei giovani era in grado di divertirsi e corteggiare senza sballarsi.

Quel tempo è finito, ma con esso è finito anche il tempo della solidarietà, una parola vuota che ha perso ogni concretezza e riferimento al mondo reale. Se solidarietà e spirito civico avessero ancora un posto nelle nostre vite, il rispetto delle elementari regole di prudenza sarebbe la norma, i nostri governanti e i media la smetterebbero di adularci (“durante il Covid gli italiani si sono comportati molto bene”), le violazioni delle regole sarebbero sanzionate con prontezza e severità. E forse, in questi giorni, anziché assistere a surreali dibattiti sulla crudeltà del Green pass e l’inaccettabile chiusura delle discoteche, vedremmo fiumi di ragazzi e ragazze, legioni di femministe, cortei di militanti LGBT, sfilare uniti a sostegno delle vittime delle violenze islamiche in Afghanistan. Una tragedia troppo lontana e vera per suscitare qualche emozione in una società arrivata.

Pubblicato su Il Messaggero del 21 agosto 2021




La prova di autunno

L’evoluzione dell’epidemia nelle ultime settimane riserva molte buone notizie, e altrettante cattive. E’ una situazione ideale per il cosiddetto cherry picking, che consiste nel selezionare solo i dati che supportano la posizione che si intende difendere: se vuoi rassicurare, selezioni solo le buone notizie, se vuoi terrorizzare solo quelle cattive.

Proviamo invece a non fare cherry picking, e a riferire sia le buone sia le cattive notizie, cominciando dalle buone.

La notizia più importante è che, fra le società avanzate (e in particolare nell’Unione Europea),  l’Italia è in questo momento uno dei paesi in cui il tasso di mortalità è più basso. Fra i grandi paesi con istituzioni occidentali fanno meglio dell’Italia solo Giappone, Australia e Canada, la Germania è pressappoco alla pari, mentre fanno decisamente peggio Francia, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti, Israele. La circostanza interessante è che Israele, Regno Unito e Spagna hanno vaccinato più di noi, e cionondimeno hanno un tasso di mortalità più alto, nonché una dinamica della mortalità più preoccupante. Difficile spiegare perché, ma il minimo che si possa dire è che, evidentemente, vaccinare a tappeto può non essere sufficiente. Una conclusione supportata anche da un altro caso, piccolo ma significativo: l’Islanda ha vaccinato quasi tutta la popolazione vaccinabile (più ancora di Israele), ma questo non le ha impedito di registrare un’impennata dei nuovi casi non appena – a fine giugno –  ha deciso di riaprire le frontiere al turismo.

C’è anche un’altra buona notizia: il tasso di letalità del Covid (rischio di morire se contagiati) è diminuito sensibilmente rispetto all’anno scorso. Impossibile, con i dati disponibili, stabilire esattamente di quanto, ma è verosimile che la diminuzione sia almeno in parte imputabile ai vaccini (una parte della diminuzione è invece dovuta, banalmente, all’abbassamento dell’età mediana dei contagiati).

Le buone notizie importanti, però, si fermano qui, mentre quelle cattive abbondano.

La prima è che in questa estate la percentuale di persone contagiate, anche tenendo conto del diverso numero di tamponi, risulta molto più alta di quella dell’estate scorsa. Ciò è dovuto, innanzitutto, alle condizioni di riapertura: quando, a maggio, abbiamo riaperto le attività, il numero di contagiati era almeno 5 volte più alto che nel maggio 2020. Di qui una curva epidemica 2021 costantemente più alta di quella del 2020. In concreto ciò ha comportato una sorta di lotta fra le due forze fondamentali che governano l’epidemia: la probabilità di contrarre il virus, molto più elevata che l’anno scorso, e la probabilità di morire una volta contratto il virus (letalità), in discesa grazie ai vaccini.

Ma chi ha vinto?

Purtroppo ha vinto la probabilità di contrarre il virus, che è aumentata più di quanto sia diminuito il tasso di letalità. Noi oggi abbiamo un numero di morti giornaliero che è il triplo di quello di un anno fa, e un numero di ricoverati in terapia intensiva che è addirittura il sestuplo. Certo, qualcuno può provare a rassicurarci dicendo che a morire o finire in terapia intensiva sono prevalentemente i non vaccinati, ma resta il fatto che oggi – a dispetto dei vaccini – si muore molto di più che un anno fa.

La ragione di fondo è che il vaccino, pur efficace nel mitigare il decorso della malattia, non lo è a sufficienza nel limitare il contagio in presenza di una variante ad alta trasmissibilità come la variante indiana (o delta), massicciamente presente in Italia. E, se il numero di contagiati aumenta a ritmi insostenibili come quelli delle ultime settimane (Rt=1.5), anche il numero di decessi è destinato a riprendere la sua corsa, come del resto già si vede dai dati degli ultimi giorni.

Che succederà?

Quello che possiamo dire con ragionevole certezza è che, di qui all’inizio dell’autunno, le principali condizioni che determinano la dinamica dell’epidemia saranno in peggioramento. Il rientro dalle ferie infatti comporta, in successione: minore tempo trascorso all’aperto, trasmissione del virus dai giovani (per lo più asintomatici) agli adulti e agli anziani, maggiori possibilità di contagio a scuola e sui mezzi pubblici, per tacere dei rischi dell’appuntamento elettorale (3-4 ottobre). In breve: l’unica forza in contro-tendenza sarà il completamento della campagna vaccinale.

Così stando le cose è facile prevedere che, ancora una volta, la politica si troverà costretta a ricorrere a chiusure delle attività economiche, limitazioni della mobilità, didattica a distanza. In altre parole: l’ennesimo sacrificio sarà richiesto ai cittadini, e in particolare al settore privato.

Si sarebbe potuto evitare?

Forse sì, ma solo con una politica radicalmente diversa. La politica attuata da entrambi i governi che hanno gestito l’epidemia è stata basata su due pilastri: lasciar correre il virus finché gli ospedali sono vicini al collasso, scaricare sul settore privato i costi dell’aggiustamento. Ma con questi pilastri, domare l’epidemia è semplicemente impossibile, e salvare l’economia diventa difficile.

Il vero problema, infatti, è che cosa succede nella stagione fredda, quando la circolazione del virus non è più frenata dalla vita all’aperto. Non è detto che basterebbe, ma stupisce che quasi nulla si sia fatto per garantire la purificazione dell’aria nelle scuole, per diminuire gli assembramenti sui mezzi pubblici, per coinvolgere i medici di base nella gestione dei malati Covid. Eppure qualcosa si poteva fare, sia l’anno scorso che quest’anno, pensandoci in tempo. Se si fosse fatto qualcosa, i sacrifici richiesti ai lavoratori autonomi e al mondo della scuola sarebbero stati molto minori, e ora potremmo affrontare il rientro dalle vacanze con maggiore tranquillità.

Come mai quasi nulla è stato fatto, nonostante le proposte cruciali su scuola, trasporti e cure domiciliari siano state ripetutamente avanzate sia dagli studiosi, sia dall’opposizione parlamentare?

E’ una domanda alla quale non so fornire una risposta.

Pubblicato su Il Messaggero del 14 agosto 2021




Green Pass, la discriminazione non c’entra

Negli Stati Uniti, da qualche anno, l’accusa di “discriminazione” è divenuta ricorrente, onnipresente, ma soprattutto pervasiva. Di discriminazione si parla ormai sempre più sovente non solo per denunciare trattamenti differenziati in funzione di razza e genere, ma per segnalare qualsiasi disuguaglianza, indipendentemente dai meccanismi che l’hanno prodotta. Quanto all’Europa, la parola discriminazione è improvvisamente venuta alla ribalta nelle settimane scorse in relazione all’obbligo vaccinale (per determinate categorie, come medici e docenti) e al green pass come condizione di accesso a determinati servizi e attività fondamentali (come spostarsi o assistere a una lezione).

Ma che cosa è un atto discriminatorio? E che cosa non può essere ragionevolmente considerato un atto discriminatorio?

Nella tradizione delle scienze sociali il prototipo della discriminazione è l’esclusione, o la penalizzazione, di qualcuno in base a un carattere ascritto, come l’essere di un certo genere o di una certa etnia (non ti assumo perché sei nero, non ti promuovo perché sei donna, eccetera).

Per estensione, si parla di discriminazione quando l’esclusione o la penalizzazione sono semplicemente arbitrarie, ossia non giustificate dal gioco che si sta giocando. In questa accezione più ampia, non occorre che a determinare la esclusione o la penalizzazione sia un carattere ascritto, che il soggetto non può cambiare (genere, etnia, luogo di nascita, eccetera), ma basta che la base della discriminazione sia non pertinente: in un esame di stato da avvocato conta la preparazione, non può contare il fatto che il candidato sia vestito in modo casual o classico, sia gay o eterosessuale, sia bello o sia brutto.

Analogamente, non si può parlare di discriminazione se chi non ha la patente non può guidare un’auto, se un atleta maschio non può gareggiare con una atleta femmina, se un laureato in legge non può aprire uno studio da dentista. In tutti questi casi ci sono delle (ovvie) ragioni di sicurezza, equità, salute, che impongono determinate esclusioni: escludere, di per sé, non implica discriminare.

Ma nemmeno, a rigore, si può parlare di discriminazione per il solo fatto che una categoria è sottorappresentata in determinate posizioni più o meno ambite. Per parlare in modo non ideologico di discriminazione occorre provare che la sotto-rappresentazione sia frutto di abusi o usi distorti delle regole del gioco. Se determinate asimmetrie sono il frutto della divisione del lavoro, delle preferenze individuali, o della logica di determinate attività economiche, parlare di discriminazione è un abuso di linguaggio. Quindi, in questi casi, l’esistenza di una discriminazione è una eventualità da stabilire sulla base di evidenze empiriche, non certo sulla base della sotto o sovra-rappresentazione di determinate categorie.

Può accadere, quindi, che determinati squilibri siano (anche) frutto di discriminazione, e altri non lo siano. Non credo sia difficile dimostrare che vi è un po’ di discriminazione anti-femminile nell’accademia; credo sia difficile dimostrare che vi sia discriminazione antifemminile in ambito politico; credo sia impossibile dimostrare che vi sia discriminazione anti-femminile nell’assegnazione delle medaglie Fields (equivalenti al Nobel) della matematica.

E’ anche per queste ragioni che nelle società liberal-democratiche che ancora credono  nell’eguaglianza delle opportunità, la politica delle “quote” a favore di specifiche categorie come le donne, i neri, o altre etnie e gruppi può legittimamente essere considerata contro-discriminatoria, nella misura in cui impone un handicap ingiustificato a chi non fa parte delle categorie protette.

E il green pass? E’ discriminatorio pretendere la vaccinazione (o il tampone negativo) per esercitare diritti fondamentali come spostarsi, assistere a una lezione, e persino lavorare? E’ giusto che chi non vuole vaccinarsi, o non può permettersi tamponi ad ogni piè sospinto, sia fortemente limitato nelle sue libertà?

La mia riposta è che forse è ingiusto, ma non è “discriminatorio”. La discriminazione è una esclusione (o penalizzazione) arbitraria di una specifica categoria di persone pre-esistente. Se dico che chi non vuole prendere la patente non può guidare un’auto non sto discriminando la categoria dei “renitenti alla patente”, sto solo dicendo che per accedere a certi diritti (guidare un’auto) ci vogliono certi requisiti, più o meno sensati. I presunti discriminati sono semplicemente coloro che non intendono prendere la patente.

Il fatto che sia alquanto improprio parlare di discriminazione, però, non implica affatto che la richiesta di una patente (il green pass) per restare normali cittadini sia giustificata. Una norma può essere sbagliata, o eccessiva, senza essere discriminatoria. E’ il caso delle norme che non sono proporzionate rispetto agli scopi che si prefiggono.

Facciamo un esempio innocente: il limite di velocità in autostrada. A nessuno viene in mente che il limite di 130 sia discriminatorio verso gli italiani (parecchi milioni) che si sentono Niki Lauda e vorrebbero correre più forte. Però, se le nostre autorità ponessero il limite a 90 km all’ora adducendo l’argomento che così si risparmierebbero un sacco di morti sarebbe lecito chiedere loro se il costo per l’economia e per la qualità della nostra vita non sarebbe eccessivo. E, viceversa, se alzassero il limite a 180 km l’ora per lasciarci più liberi di scorrazzare sarebbe lecito chiedere loro se il costo in morti e feriti per incidenti stradali non sarebbe eccessivo.

La questione del green pass è molto più complessa e complicata, ma dal punto di vista logico è analoga a quella dei limiti di velocità: è un problema di bilanciamento fra salute e diritti individuali. Dove la complessità risiede in tre nodi inestricabili.

Primo, l’importanza relativa che ciascuno di noi dà alla protezione della salute e alla difesa dei diritti individuali varia da persona a persona, anche a seconda della sua condizione oggettiva (essere percettori di reddito fisso oppure no).

Secondo, l’entità del rischio che corriamo (varianti future ed efficacia delle misure di contenimento) è sconosciuta, e nessuno scienziato è in grado di valutarla con ragionevole approssimazione.

Terzo, allo stato attuale delle conoscenze, l’efficacia delle restrizioni connesse al green pass è impossibile da calcolare in modo affidabile.

E’ facile rendersi conto che, con un tale spettro di incertezze, la tenzone fra favorevoli e sfavorevoli al green pass non è razionalmente decidibile. Una cosa però la possiamo dire: la discriminazione non c’entra.

Pubblicato su Il Messaggero del 7 agosto 2021




Manzoni (non viene più insegnato bene e dunque) non insegna più

Un vecchio detto dice che, quasi sempre, chi intende coprire un errore invece di ammetterlo, ne commette uno più grosso. Ebbene, la mia impressione è che questo detto si attagli alla perfezione al modo in cui i nostri Governi stanno gestendo la questione Covid. Il famoso green pass rappresenta l’ultimo anello di una catena di errori, sempre più gravi, commessi da un Esecutivo, che – sul tema della reazione al Covid – si sta avvitando su sé stesso, incapace di trovare la forza di rimediare – ponendosi in netta discontinuità col Conte II – a scelte precedenti che si erano dimostrate non soddisfacenti. Ma vediamo di partire dal principio.

L’Italia, come l’Europa che (purtroppo) dalla famosa riunione dell’aprile 2020 ne ha seguito l’esempio, ha ridotto la propria reazione al covid al binomio “lockdown e vaccini”. O meglio: solo lockdown – senza promuovere autopsie per capire l’eziologia della malattia e senza indicare protocolli di cura precoce per i malati, in modo da evitare i ricoveri – in attesa che arrivassero i messia-vaccini. La scelta politica alla base di questa scelta era forse quella di evitare attività troppo onerose sotto il profilo finanziario e di mantenere in sicurezza il sistema sanitario – reso molto fragile da decenni di tagli e austerità nonché dal mancato ricambio generazionale dei medici – piuttosto che preoccuparsi di curare efficacemente i cittadini. Insomma: spendere il meno possibile (ricordiamo tutti l’ex Ministro Gualtieri che sosteneva nel 2020 che 3,6 miliardi di euro sarebbero stati sufficienti per reagire all’epidemia, quando poi ne son stati spesi quasi duecento) e scaricare il grosso del costo sociale dell’epidemia su alcune categorie (piccole partite iva e giovani), tutelando altre (pensionati, impiego pubblico e – ma solo per un certo tempo – dipendenti privati). Risultato: un tasso di mortalità tra i più alti al mondo, per non parlare delle devastazioni economiche e sociali causate dalle chiusure. Quando poi i vaccini (o, per essere più precisi, le prime terapie a base di mRNA) sono arrivati, il Ministero dalla Salute e, di riflesso, il Governo erano già prigionieri di una trappola normativa dalla quale era ormai impossibile liberarsi se non – appunto – rinnegando su tutta la linea la strategia precedente. Ma vediamo di capire il perché.

Le autorizzazioni all’immissione in commercio dei cosiddetti vaccini per il covid (di tutti i vaccini covid) sono infatti autorizzazioni “condizionate”. La vulgata – quando parla di vaccini “sperimentali” – non va infatti molto lontano dalla verità, considerando che quelli che vengono chiamati vaccini covid, in realtà, sono terapie non ancora sperimentate in misura sufficiente da generare la documentazione clinica necessaria per concedere l’autorizzazione al commercio da parte delle agenzie preposte alla verifica della sicurezza dei farmaci (l’EMA europea e l’AIFA italiana). I test completi per il rilascio di un’autorizzazione ordinaria in relazione a queste terapie saranno infatti disponibili solo entro dicembre del 2023, dunque – in sostanza – i vaccini covid sono stati messi in commercio più e meno tre anni prima di quando lo sarebbero stati in una situazione ordinaria. Si noti peraltro che terapie di questo genere (che si basano tutte sull’uso di RNA messaggero), non solo sono state poco sperimentate per il covid, ma non risultano mai essere state utilizzate in passato in alcun farmaco autorizzato per uso umano. Insomma, questi vaccini – per un verso – rappresentano il primo tentativo di applicare certe tecnologie mediche all’uomo e – per altro verso – non sono stati sperimentati in misura tale da fornire le garanzie di sicurezza normalmente ritenute sufficienti nell’UE per mettere in commercio un farmaco. Tutto questo spiega del resto assai bene perché tutte le case farmaceutiche abbiano preteso che gli stati accettassero di escludere ogni loro responsabilità per eventuali conseguenze dannose dei vaccini in capo chi li avrebbe assunti. Anche lo stato, del resto, si è ben curato di evitare di assumere alcuna responsabilità per i vaccini, di guisa che il malcapitato che, assunto il farmaco, dovesse subire una reazione avversa – in teoria – non ha nessuno cui chiedere i danni. Che dunque si tratti di trattamenti sanitari che implicano un rischio sanitario maggiore di un normale farmaco (e che lo implichino perché non sono stati sottoposti alle sperimentazioni ritenute sufficienti per considerare un farmaco sicuro in misura tale da poter essere assunto su larga scala) mi pare un dato di fatto difficile da negare.

La possibilità di distribuire i vaccini dunque si fonda sul fatto che, anche prima che i test sperimentali normali siano completati, i regolamenti comunitari prevedono che si possa in via eccezionale autorizzare la commercializzazione anticipata di farmaci ad uso umano a patto che vengano rispettate alcune condizioni, tra cui quella dell’urgenza del trattamento sanitario. L’autorizzazione condizionata di un farmaco ancora in fase di sperimentazione ha infatti la funzione di rendere prioritaria la procedura di autorizzazione, in modo da sveltire l’approvazione di trattamenti efficaci per porre rimedio a situazioni di emergenza sanitaria. In particolare il regolamento in questione prevede che un’autorizzazione condizionata possa essere concessa per farmaci che rispondono a quella che viene definita come esigenza medica non soddisfatta. Ed è proprio in relazione alla sussistenza (e, soprattutto, permanenza) di questa condizione che è scattata la trappola normativa di cui si parlava in precedenza.

Il concetto di “esigenza medica non soddisfatta” – in parole povere – significa che, per autorizzare un farmaco provvisoriamente, non deve esistere alcuna terapia “ordinaria” ritenuta efficace per la malattia che quel farmaco vorrebbe curare. Se dunque una cura efficace per i Covid, mediante la somministrazione di farmaci autorizzati, già esistesse – e in particolare se Ministero della salute o AIFA riconoscessero in via ufficiale questo – verrebbero meno i requisiti per le autorizzazioni condizionate all’immissione al commercio dei vaccini. In sintesi: se si trova una cura per il Covid certificata come efficace e che prevede la somministrazione di farmaci già autorizzati in via ordinaria, verrebbe giù tutto il castello costruito attorno alla ricetta “lockdown fino ai vaccini”. Questo spiega perché il Ministro Speranza non vuole modificare il famigerato protocollo della “tachipirina e vigile attesa”, tanto da mantenere un rigoroso silenzio sul punto anche di fronte a una interrogazione parlamentare sul punto – a lui diretta – approvata a larga maggioranza in parlamento. Ed ecco qui manifestarsi il primo caso di errore più grande (insistere solo sui vaccini senza prendere in considerazioni protocolli di cura precoce domiciliare, nonostante ne siano stati proposti diversi) per non voler ammettere un errore precedente (impostare la reazione al covid solo in termini di lockdown con cura ospedaliera dei casi più gravi in attesa dei vaccini). Ma andiamo avanti con la storia.

I vaccini sperimentali (o, se preferite, autorizzati in deroga) – come è noto – alla fine sono arrivati e, col governo Draghi, le fasce più a rischio (ossia dai sessant’anni in su) sono state vaccinate con una copertura piuttosto ampia. Nel frattempo è però arrivata anche la famigerata variante Delta che, per quel che si capisce, “buca” il vaccino quanto a contagio anche se, stando ai primi dati dei paesi in cui si è diffusa, non provoca sintomi gravi in misura comparabile alle varianti precedenti. Dunque questa estate abbiamo un aumento di contagi a fronte di pochi malati gravi e di pochissimi morti.

In realtà il fatto di avere una popolazione già “molto vaccinata” nelle categorie a rischio, crea un problema di verifica dei dati: non si riesce a capire in particolare quanto l’assenza di effetti sintomatici gravi sia dovuta ai vaccini e quanto invece al fatto che questa variante sia meno aggressiva rispetto alle precedenti (o magari al fatto che sia intervenuta in un periodo, quello estivo, in cui anche il clima alle nostre latitudini aiuta a combattere la malattia). Anche su questo versante, peraltro, il Governo – e il teatro mediatico che lo sostiene – è partito in quarta affermando che il merito del minore impatto sanitario della variante Delta sia certamente da collegarsi solo ai vaccini. Ma si tratta di affermazione che appare fondata – più che su una prova empirica – sulla tautologia per cui siccome i vaccini non possono non essere efficaci (altrimenti il Governo perde la faccia) allora il minore impatto della variante Delta non può che derivare dal fatto che i vaccini sono efficaci. Ovviamente anche qui fa capolino la tendenza del potere politico ad evitare di mettere in dubbio la correttezza della propria attività passata: anche qui, per evitare il rischio di dover cambiare strategia (di fatto ammettendo un errore passato), il Governo commette infatti l’errore (gravissimo in questa fase di attacco delle varianti) di non verificare adeguatamente se davvero sono i vaccini ad aver disattivato la variante Delta o se per caso questa variante non rappresenta un primo passo della naturale evoluzione dell’epidemia verso l’endemia. Ottenere e analizzare questi dati è però essenziale per modulare la reazione al Covid in vista dell’autunno. Eppure CTS e Governo paiono avere una certa allergia a condividere i dati su cui fondano i loro vaticini, non consentendo dunque a nessuno di capire davvero su cosa stiano davvero fondando le loro scelte.

Fatto sta che, quanto meno per ora, i dati sui decessi e sulle ospedalizzazioni causati dalla variante Delta non destano troppe preoccupazioni. In una simile situazione, non si comprende allora – quanto meno sotto il profilo del rischio sanitario – l’isteria (davvero al limite della psicosi collettiva) che si è creata intorno al cosiddetto green pass alla francese: se gli anziani italiani infatti sono già stati vaccinati in larga parte e se la variante Delta non morde come le precedenti (come parrebbe dimostrare, specie all’estero, l’aumento dei contagi in assenza di aumenti di sintomatologie gravi), a che serve far pressione sui giovani e sulle fasce di età a rischio meno elevato per indurre anche loro a vaccinarsi? A nulla, verrebbe da rispondere, se non a vendere più dosi vaccino (sarà un caso, ovviamente, la stipula di un contratto da 900 milioni di dosi tra UE e Pfizer fino al 2023, con opzione di altre 900 milioni di dosi). Il punto vero è che obbligare (indirettamente) ai vaccini tutta la popolazione, oltre che inutile, per le fasce di età più giovani potrebbe risultare dannoso.

E qui non stiamo parlando solo dei danni alla salute dei più giovani in ipotesi provocati da possibili reazioni avverse gravi (come trombosi e miocarditi), ma anche di possibili responsabilità giuridiche in capo al Governo e/o al Ministero della Salute per i provvedimenti adottati. Ma vediamo di capire dove sta il problema. Il punto da cui partire è chiedersi perché mai, se fosse vero – come vanno dicendo alcuni costituzionalisti – che gli obblighi vaccinali possono essere imposti per legge, il governo non dispone direttamente un obbligo in tal senso per decreto legge (da convertire poi alle camere) invece che adottare strumenti di coercizione indiretta come il green pass alla francese.

La risposta è duplice: per un verso, in presenza di un obbligo vaccinale imposto dall’autorità, non avrebbero più alcun valore legale le rinunce sottoscritte dai vaccinati che escludono le responsabilità dei vari soggetti coinvolti nella filiera del vaccino. Il consenso alla rinuncia a un diritto da parte di chi fosse obbligato a rinunciare per potere adempiere all’obbligo vaccinale non è infatti valido secondo gli stessi principi generali del diritto civile in tema di vizi del consenso contrattuale. Questo significa che, non solo lo stato, ma anche le case farmaceutiche – in caso di obbligo legale di vaccinazione – sarebbero chiamati ad assumersi la responsabilità per eventuali effetti avversi (il vaccino in fin dei conti è autorizzato in deroga, dunque presenta per definizione un rischio aumentato, dunque tale da classificare la sua somministrazione come attività pericolosa). In una simile situazione il rischio che il Governo intende scongiurare è che le farmaceutiche, le sole ad avere un’idea chiara dei rischi reali che implicano queste terapie, in caso di obbligo (e conseguente eliminazione della manleva a loro favore) decidano di sospendere le forniture, dunque facendo cadere di nuovo tutto il castello di carte costruito intorno alla portata salvifica del vaccino. A quanto risulta dei leaks allo stato disponibili, infatti, i contratti negoziati dall’UE con le farmaceutiche sono tanto sbilanciati a favore di queste ultime da consentire loro di sospendere le forniture in presenza di un mutato quadro di rischio. E anche qui, dunque, ecco che un errore più grande (non imporre un obbligo vaccinale, ricorrendo all’espediente del green pass) viene commesso per evitare di mostrare l’errore commesso in precedenza (reagire al covid con una strategia che, di fatto, rende i governi totalmente dipendenti dalle scelte delle case farmaceutiche).

La seconda ragione per cui il Governo preferisce evitare di imporre obblighi vaccinali diretti va invece ricondotta di nuovo al fatto che si tratta di terapie in fase di sperimentazione, di guisa che non è affatto detto che sia del tutto legittimo una loro imposizione per legge, nonostante l’art. 32 Cost. ammetta espressamente trattamenti sanitari obbligatori e, in passato, siano stati adottati provvedimenti che hanno imposto vaccini a certe categorie di persone. Questo accade perché i vaccini sinora imposti per legge (come ad esempio quelli che condizionano l’accesso alla scuola dei bambini) erano tutti farmaci immessi in commercio dopo il ciclo ordinario di sperimentazione, dunque ampiamente collaudati, mentre quelli anti covid non lo sono ancora. Ed esistono infatti almeno due fonti normative internazionali – un regolamento comunitario sulle attività di sperimentazione medica (accessibile in italiano qui) e il cosiddetto codice di Norimberga (la cui tradizione italiana è accessibile qui) – secondo cui qualunque forma di sperimentazione sull’uomo è possibile solo con il pieno ed informato consenso di chi vi si sottopone. Si può dunque obiettare che assumere farmaci ancora in fase di sperimentazione sia qualcosa di diverso dallo sperimentarli, ma a mio modesto parere la considerazione fondamentale da cui partire per trattare la questione è che assumere un farmaco ancora non autorizzato in via ordinaria espone il cittadino a rischi per la salute del tutto analoghi a quelli che correrebbe se accettasse di partecipare alla sua sperimentazione clinica su quel farmaco, di guisa che le due situazioni ben difficilmente potrebbero essere trattate diversamente sotto il profilo della necessità di garantire la piena libertà di esporsi o non esporsi ad un rischio per la salute.

Va aggiunto che anche il regolamento dell’UE sul green pass (Regolamento 2021/953 che definisce, a livello sovranazionale, un quadro di regole comuni, direttamente applicabile in tutti gli Stati europei, per il rilascio di certificati COVID digitali) che varrà per spostarsi tra Stati dell’UE è piuttosto chiaro (si veda in particolare il considerando 36) nel senso che il green pass europeo deve evitare ogni forma di discriminazione anche nei confronti di chi abbia scelto liberamente di non vaccinarsi. E se è vero che il green pass europeo è cosa diversa da quello nazionale, è però anche vero che gli stessi ambienti e soggetti che si dichiarano ora a favore delle restrizioni ai non vaccinati sono per lo più gli stessi ambienti e soggetti che, su ogni altro tema dello scibile umano, si sgolano per ricordare che i principi di diritto dell’UE devono sempre prevalere sul diritto nazionale. Ma non basta.

Nella recente risoluzione n. 2361, l’assemblea permanente del Consiglio D’Europa ha sancito che – così come gli obblighi vaccinali non sono accettabili alla luce della convenzione europea dei diritti umani (CEDU) – per la stessa ragione gli stati devono comunque garantire la liberta ai cittadini di non vaccinarsi, così come devono evitare discriminazioni – o pressioni indirette – nei confronti di chi sceglie liberamente di non assumere il vaccino. Traducendo liberamente, il punto 7.3.1 della risoluzione (accessibile qui), recita infatti che “ci si deve assicurare che i cittadini siano informati che la vaccinazione non è obbligatoria e che nessuno sia sotto pressione politica, sociale o altro se non desiderano vaccinarsi” mentre il punto 7.3.2 aggiunge “Ci si deve assicurare che nessuno subisca discriminazioni per non essere stato vaccinato a causa di possibili rischi per la propria salute o perché non vuole essere vaccinato”. Più chiaro di così è davvero difficile dirlo. E’ vero che la risoluzione in questione non è un atto vincolante. Ma altrettanto vero è che la risoluzione fornisce una sorta di interpretazione autentica della CEDU e la CEDU è invece una convenzione di diritto internazionale umanitario che ben può esplicare i propri effetti anche nel nostro ordinamento, per il tramite dell’art. 10 (e forse anche 11) della nostra Costituzione.

Tralasciando dunque la questione della prevalenza del diritto UE su quello nazionale (che parrebbe poter valere o non valere a seconda dell’opportunità politica), occorre considerare che sia il codice di Norimberga che, soprattutto, la risoluzione del Consiglio d’Europa che interpreta la CEDU sono fonti di diritto umanitario internazionale. Per questa ragione, gli organi di uno stato che venisse accusato di averli violati rischiano in futuro di andare incontro a problemi seri. La legge che imponesse obblighi (diretti o indiretti che siano) in violazione delle due convenzioni, infatti, avrebbe i crismi per la promulgazione (non ostandovi, come si diceva, il tenore letterale dell’art. 32 Cost.). Ma il punto è che quando le norme internazionali che si assumono violate da una legge nazionale riguardano la tutela dei diritti umani cosiddetti universali (quali quelli sanciti dalla CEDU o dal codice di Norimberga), la reazione dell’ordinamento alla loro violazione potrebbe non consistere solo nell’eventuale abrogazione postuma della legge da parte della Corte costituzionale nazionale (in applicazione dell’art. 10 Cost.) o in un semplice annullamento delle sanzioni da parte dei TAR o dei Giudici di pace (come avvenuto con le misure restrittive disposte coi DPCM). Vi sarebbero infatti rischi penali – per effetto di una disapplicazione da parte dei giudici penali nazionali dell’atto normativo illegittimo in forza appunto delle norme di diritto umanitario – per gli organi politici che hanno deciso di porre certi limiti (o che li hanno avallati), che a quel punto non potrebbero neppure valersi della scudo rappresentato dall’aver agito in esecuzione di un mandato politico o nell’esercizio delle proprie prerogative istituzionali. Quando si tratta di potenziali violazioni di diritti umani, infatti, questa causa di non punibilità non necessariamente viene ritenuta applicabile.

Peraltro – qui – il mandato politico potrebbe anche difettare a monte, considerando che, essendo l’Italia in stato di emergenza, il governo – se non prevede passaggi parlamentari a sostegno dei provvedimenti che adotta – si deve assumere la piena responsabilità di quel che decide. Ed ecco manifestarsi qui un altro “errore storico” nella gestione “all’italiana” dell’emergenza covid, rappresentato dalla scelta di affidare gravissime decisioni sulle libertà individuali a organi non rappresentativi come la cabina di regia o il CTS o lo stesso Presidente del Consiglio (con Conte) e Consigli dei Ministri (con Draghi). Certe responsabilità politiche (implicando una limitazione delle libertà fondamentali dei cittadini) se le dovrebbe infatti assumere l’organo che rappresenta la sovranità popolare, dunque il Parlamento, non certo l’Esecutivo o – peggio ancora – comitati consultivi che non hanno alcun rilievo costituzionale. Ma, si dirà, in fin dei conti i decreti legge vengono poi convertiti dalle camere, dunque ci sarebbe almeno ex post una copertura politica democratica per il loro contenuto. Il che è certamente vero, salvo per il fatto che – di decreto legge in decreto legge – si crea una singolare dinamica normativa per cui il parlamento non viene mai messo in grado di legiferare per il futuro, potendo solo decidere di ratificare quel che si è già deciso per il passato. Il che – quando si vanno a comprimere fortemente e per mesi e mesi dei diritti fondamentali dei cittadini – potrebbe anche destare qualche perplessità in termini di effettività della “copertura parlamentare” di certi provvedimenti.

E tutto questo, si badi, a non voler considerare che, già sotto il profilo del nostro diritto costituzionale nazionale, qualunque obbligo terapeutico imposto per legge – così come qualunque limitazione di diritti fondamentali finalizzata a incentivare l’assunzione di terapie (specie se ancora sperimentali) – deve comunque essere proporzionato al rischio che intende scongiurare. E disporre obblighi e restrizioni di vario genere con gli ospedali vuoti e le terapie intensive semi-deserte e con una copertura vaccinale, nelle fasce di età a maggiore rischio, assai elevata, pone dei seri interrogativi in termini di proporzionalità e ragionevolezza nel contemperamento degli interessi in conflitto.

Al là dei profili formali relativi al tipo di provvedimento normativo utilizzato (il Decreto Legge) e dei dubbi di diritto interno, unionista e internazionale sulla legittimità dei provvedimenti in questione, il Governo – nel merito – ha alla fine scelto di non disporre un obbligo diretto a vaccinarsi, sostituendovi una serie di restrizioni alla vita sociale di chi non si vaccina. Scelta pilatesca, che dunque non risolve il problema della legittimità delle restrizioni, ma semmai lo sposta dal “se” al “quanto” o, meglio, al “cosa” viene condizionato al green pass. E’ infatti piuttosto evidente – senza che occorra spendere toppe parole al riguardo (anche se stranamente insigni costituzionalisti non se ne sono resi conto) – che se il possesso di un lasciapassare condiziona l’accesso ad attività che siano svolte con frequenza e che possano essere ritenute essenziali per una vita normale (considerando che un tampone rapido costa non meno di trenta euro), è infatti chiaro – dicevamo – che in un simile situazione l’obbligo di green pass crea un apartheid sanitario che si risolve in un obbligo vaccinale di fatto, implicando i medesimi effetti in termini di coercizione della volontà individuale che avrebbe – ad esempio – una sanzione amministrativa pecuniaria posta a presidio dell’inottemperanza a un obbligo diretto. Si noti peraltro che questo obbligo indiretto sarebbe in realtà anche gravemente discriminatorio, risultando assai più incisivo nei confronti delle fasce di popolazione con meno disponibilità economiche, che – avendo pochi soldi in tasca (specie in periodo di crisi come quello che stiamo attraversando) – non possono permettersi il lusso di sostituire la vaccinazione con tamponi troppo frequenti.

Pensiamo allora a un lasciapassare che condizioni ad esempio l’accesso a centri commerciali, negozi, banche e supermercati. Ma pensiamo anche all’accesso a mezzi pubblici, treni o aerei o, ancora, alla scuola o alle strutture sanitarie o agli uffici pubblici. Si tratta di altrettante attività essenziali per la vita normale del cittadino e che vengono svolte con frequenza. Se queste attività fossero consentite dietro presentazione del green pass, saremmo certamente  presenza in un obbligo indiretto di vaccinazione, specie appunto per le fasce meno abbienti della popolazione.

Ed ecco materializzarsi il terzo errore (più grave) commesso per coprire gli errori precedenti (meno gravi): pensare – furbescamente – che un obbligo vaccinale indiretto via green pass possa mettere al riparo Governo, Ministro, CTS e cabina di regia dalle conseguenze di eventuali censure di illegittimità costituzionale (o del diritto unionista o di norme di diritto internazionale umanitario) che, invece, colpirebbero quasi certamente un obbligo vaccinale vero e proprio. L’errore, si badi, qui è soprattutto politico: al di là del rischio di subire processi di vario genere in futuro, non fanno infatti certo una bella figura di fronte al paese delle istituzioni che – durante un periodo di crisi sociale ed economica che dura ormai da due anni – si nascondono dietro a trucchi normativi per evitare di assumersi la responsabilità di decisioni che influiranno in modo assai incisivo sulla vita e sui diritti di milioni di cittadini.

Si noti infatti bene che Macron, in Francia, dopo aver tirato per primo il sasso nello stagno ha subito fatto macchina indietro (il primo ministro francese ha infatti dichiarato che il provvedimento sul green pass dovrà passare per una legge ordinaria discussa dall’assemblea nazionale e verrà in ogni caso sottoposto alla corte costituzionale per una verifica di legittimità) e che nel regno unito e in Germania – così come nella grande parte degli altri stati europei – nessuno ha mai seriamente avanzato la proposta di imporre green pass nei termini in cui se ne parla da noi. Del resto, viene da chiedersi perche nessuno – e dico nessuno – dei Signori al Governo, specie di quelli che sostengono che vaccinarsi sarebbe una sorta di dovere civile (categoria che invero appartiene al dominio dell’etica e che dunque non dovrebbe affatto interessare a chi governa uno stato che voglia definirsi laico) – abbia proposto di premiare i vaccinati per il loro supposto “impegno civico” invece che punire i non vaccinati per aver esercitato il loro diritto a non vaccinarsi. Un’impostazione premiale ben congegnata (magari meno goffa dei cento dollari per capita offerti dal Governo USA per vaccinarsi), in luogo di quella punitiva adottata col green pass, avrebbe infatti conseguito l’obiettivo utile, risultando meno divisiva a livello sociale, migliore in termini di immagine per lo stesso Governo nonché – infine – meno problematica in termini di compatibilità con la costituzione e le norme di diritto internazionale umanitario. La cosa è tanto evidente che, davvero, il fatto che nessun esponente politico l’abbia proposta fa sorgere il sospetto che il green pass abbia ragioni del tutto diverse da quelle dichiarate.

In effetti, da quando c’è il Covid, i nostri governi (ma, va detto, anche quelli di quasi tutti gli altri paesi europei) paiono non volersi lasciar scappare alcuna occasione per limitare le libertà dei cittadini, specie quando si può far danno ai piccoli esercenti e imprenditori e al settore del turismo (o, in generale, contribuire ad affossare ancora di più la nostra, già alquanto precaria, situazione economica). Al di là della sempre più manifesta vena repressiva (o deflattiva, se – come me – preferite il complottismo economico) di chi ci governa, viene davvero da chiedersi perché mai – nel giro di un paio di settimane – i nostri governanti abbiano tirato fuori dal cappello un sistema odioso come quello dell’apartheid sanitario, oltretutto a rischio di violazione di norme di diritto internazionale umanitario e che presenta aspetti critici in termini di proporzionalità costituzionale, in assenza di un rischio attuale e concreto (contagi in aumento, ma ospedalizzazioni e morti stabili), quando – come si diceva – sarebbe bastato concedere degli incentivi premiali a vaccinati vecchi e nuovi e si sarebbe risolto il problema.

Secondo alcuni la questione del green pass sarebbe una scusa per far passare l’ennesima proroga dello stato di emergenza anche in assenza di vera emergenza (proroga che servirebbe al governo per proseguire nella sua agenda di “riforme” tagliando fuori il parlamento dalle scelte importanti fino a fine anno). Secondo altri, sarebbe solo un modo per creare uno strumento giuridico con cui – nel prossimo futuro –  introdurre forme di controllo della vita dei cittadini anche per esigenze diverse rispetto a quelle dell’emergenza sanitaria, in sostanza inaugurando un sistema di crediti sociali “alla cinese”. Non manca infatti chi sottolinea come lo strumento di controllo in questione sia stato proposto solo in Italia e in Francia, ossia nei due stati che – una volta che sarà finito il quatitative easing della BCE (che da ottobre, data delle elezioni in Germania, finirà verosimilmente nel mirino del neo insediato Governo tedesco) – potrebbero trovarsi ad affrontare l’alternativa tra un abbandono dell’area Euro (o una sua profonda riforma) e un default alla greca. A volersi esercitare con un po’ di sano complottiamo geopolitico, dunque, si potrebbe anche leggere la mossa di Macron (intervenuta, si badi bene, poco dopo un incontro a Parigi con il Presidente Matterella) poi seguita da Draghi, proprio come il tentativo di introdurre strumenti di controllo sociale per sterilizzare eventuali derive sovraniste (e anti Euro) nei due stati che – per peso economico e per situazione di bilancio pubblico – potrebbero nel futuro mettere in crisi il sistema, ove non si prestassero ad applicare ai relativi popoli l’austerità “alla Greca” che rappresenta lo strumento con cui l’UE regola i conti con gli Stati che non si prestano alle sue ricette rigoriste e deflattive.

Ammetto che la teoria in questione mi affascina non poco, ma personalmente mi sono fatto un’idea diversa delle motivazioni che potrebbero celarsi dietro alle ultime decisioni. Troppo spesso, nella storia umana, decisioni grandi e tragiche sono state in realtà l’esito ultimo della combinazione di tante piccolezze umane.

Non serve infatti certo un genio per capire che tutti quelli che hanno sostenuto sin qui la linea “lockdown e vaccini” (ossia in primis Speranza, ISS e CTS ma prima Conte e, ora, anche Draghi) temono soprattutto che – di fronte ad ennesime varianti del covid, magari in autunno e magari meno “blande” in termini di sintomi rispetto alla Delta – i governi (e i governatori delle regioni) potrebbero disporre nuovi blocchi e restrizioni. Ecco allora che creare una classe di untori da accusare (i non vaccinati, appunto, prontamente ribattezzati no vax) rappresenta la migliore – in quanto storicamente ben sperimentata – delle scuse per non dover ammettere di aver insistito per due anni con una strategia di reazione all’epidemia del tutto inadeguata di fronte ad un virus ad alto tasso di mutazione. La realtà è infatti che – in un anno e mezzo di “emergenza” – il Governo, nonostante i suoi pieni poteri e una serie di scostamenti di bilancio da capogiro autorizzati via via dal parlamento, ha fatto poco o nulla per potenziare il tracciamento o per promuovere terapie precoci domiciliari che evitassero ai pazienti di aggravarsi in misura tale da richiedere ospedalizzazione. Ma si è fatto ben poco – quasi nulla – anche per potenziare i trasporti pubblici e le strutture sanitarie (sia in termini di medicina territoriale che di posti letto che, salvo qualche raro esempio, di reparti intensivi). Di fatto, insomma, il Governo – nonostante i pieni poteri e risorse finanziarie aggiuntive assai ingenti – ha reagito al Covid solo imponendo restrizioni alle libertà dei cittadini e terrorizzandoli con la retorica della peste manzoniana: prima sotto forma di divieti di spostamento e chiusure di attività (a colori) e ora per mezzo di obblighi più e meno diretti di trattamenti sanitari ancora sperimentali (e costosi). Il tutto – si noti bene, perché è significativo – mentre quello stesso Governo ci stava facendo indebitare fino alla gola con l’UE, e parliamo di decine e decine di miliardi di euro, onde promuovere agende certamente non essenziali in periodo pandemico (quali la transizione verde e digitale).

Questa essendo la situazione, è chiaro che se alla fine i vaccini davvero non dovessero scongiurare un’ennesima ondata autunnale provocata da qualche nuova variante del virus, il nostro Governo si troverebbe con ogni probabilità costretto a disporre degli ennesimi lockdown (magari chiamandoli in altro modo). Si noti che questo rischio è tutt’altro che remoto: la variante Delta sta contagiando alla grande anche i vaccinati (e anche i vaccinati contagiano, di guisa che i portatori di green pass, a essere onesti, propagheranno il virus forse pure di più dei perfidi no green pass che se ne staranno più isolati per effetto dei divieti). Ma, si sostiene, è proprio il vaccino impedisce alla variante Delta di far danni gravi. Eppure – come si diceva – manca in realtà allo stato la controprova che sia davvero il vaccino (e non la minore forza del virus variato) a causare questa minore gravità della malattia. Del resto, tutti i vaccini sono stati elaborati per contrastare la variante di Wuhan, dunque non dovrebbe stupire che funzionino meno contro altre varianti. Ecco dunque spiegato perché il Governo teme che l’avvento in autunno di un’eventuale Variante Gamma (magari più aggressiva della Delta i termini di sintomi) potrebbe obbligarlo a chiusure e restrizioni, che smentirebbero mesi di fanfara e grancassa ad ogni ora e a reti unificate sulla portata salvifica dei vaccini. Per non parlare delle dichiarazioni rese dallo stesso Mario Draghi in diretta nazionale, che ormai lo vincolano a garantire la salvezza del popolo dal virus per via vaccinale.

Il rischio per Draghi e Speranza – in caso di recrudescenza dell’epidemia – è dunque quello di aver fatto l’ennesima promessa di Pinocchio, dopo le famigerate chiusure di Conte a ottobre per salvare il Natale e quelle di febbraio per salvare la Pasqua. Ennesimo promessa infranta che – a questo giro – colpirebbe una popolazione prostrata da ben due anni di crisi nera, in un momento in cui non si potranno più garantire ristori economici (il quantitative easing della BCE non può durare in eterno, specie dopo le elezioni tedesche di ottobre), quando ci saranno stati un mare di licenziamenti (già siamo arrivati a 750.000 occupati in meno rispetto al periodo pre-covid e agosto e settembre saranno un bagno di sangue sotto questo profilo) e – soprattutto – quando staranno venendo meno anche gli ultimi divieti di licenziamento.

Ebbene: nei palazzi del potere sanno perfettamente che quando non mantieni troppe volte le promesse (specie di fronte a un popolo incattivito da quasi due anni di sofferenza), o dai al popolo un capro espiatorio con cui prendersela, o il popolo se la prende con te. Del resto, stanno facendo la stesa cosa da più di vent’anni con i piccoli  evasori fiscali, e funziona a meraviglia, perché non dovrebbero farlo anche con i non vaccinati? Ecco dunque a cosa serve soprattutto il Green Pass. Ed ecco spiegato perché non hanno optato per la soluzione “diplomatica” delle misure premiali per chi sceglie di vaccinarsi. Ma ecco spiegato anche lo stormire di fronde mediatico contro i perfidi no vax e  – infine – alcune discutibili dichiarazioni rese in conferenza stampa dallo stesso Draghi (in particolare quelle per cui tra vaccinati non ci si contagerebbe e che se uno si contagia e non è vaccinato alla fine muore). L’apartheid sanitario serve infatti a creare uno stigma sociale intorno ai non vaccinati, trasformandoli nel capro espiatorio da dare in pasto, all’occorrenza, a un popolo di vaccinati incattiviti per l’eventuale nuovo lockdown autunnale, onde distrarlo dal fatto che – se ciò davvero dovesse accadere – saremmo di fronte al totale e clamoroso fallimento della strategia dei lockdown senza cure nella (vigile) attesa dei vaccini.

Nell’attesa dei nuovi farmaci a base di anticorpi monoclonali (le cui autorizzazioni sono attese per fine anno), che dovrebbero – a quando si capisce – consentire cure domiciliari o quanto meno precoci (costose a sufficienza per essere gradite alla farmaceutiche) occorre infatti cautelarsi. Se infatti i nuovi farmaci funzioneranno, a quel punto si potrà cambiare narrazione rispetto a quella della vaccinazione come unica salvezza, ma siccome non v’è certezza che questo accada, occorre prima creare i presupposti per dare la colpa delle eventuali restrizioni autunnali ai perfidi no vax. A tale riguardo occorre peraltro ribadire che – a rigor di logica – saranno con ogni probabilità proprio i vaccinati (che sono la maggioranza della popolazione e non sono immuni a contagio e contagiosità) che quest’autunno, circolando per luoghi affollati grazie al loro green pass, costituiranno il più probabile veicolo di un contagio, di cui – però – verranno accusati solo i non vaccinati, invece costretti ad un maggiore isolamento. Cornuti e mazziati i no vax e solo mazziati i vaccinati, a solo beneficio di un Governo che intende autoassolversi creando colpevoli immaginari.

Se invece in autunno, al di là dei contagi, non ci sarà la temuta impennata di ospedalizzazioni, terapie intensive e decessi, ecco che Speranza, Draghi & Co. potranno sostenere trionfanti – aiutati dalla solita grancassa mediatica – che il merito è stato tutto del pass vaccinale, appuntandosi sul petto con orgoglio la medaglia dei salvatori della patria (e magari – quanto al Ministro – pubblicando finalmente il famoso libro). Con la mossa del green pass, in sostanza, Governo e Ministero rischiano il meno possibile (di certo assai meno che se avessero previsto un obbligo vaccinale) e – soprattutto – hanno trovato il modo di non perdere troppo consenso politico, qualunque cosa accada a ottobre. Dal loro punto di vista è certamente la strategia ideale. Se poi sia anche quella migliore per il paese o per sconfiggere l’epidemia, non saprei dire, ma so che in certi ambienti non dovrebbe essere cosa che interessa più di tanto.

Se però questo è lo scenario – a meno che, come io spero, il covid non si estingua naturalmente al secondo anno come ha fatto a suo tempo la spagnola – sarà chiaro che una vera fine dell’emergenza sanitaria non è possibile senza un rimpasto di governo che tocchi il Ministero della Salute, sia nei suoi vertici che in quel sottobosco di “consiglieri e comitati” che vaticinano ormai da mesi sull’epidemia, presentando invariabilmente dati e scenari apocalittici – quasi sempre smentiti a posteriori dei fatti – solo per giustificare il protrarsi di una strategia (chiusure e vaccini a oltranza) che si sta rivelando sempre più fallimentare. Finché infatti staranno al timone gli stessi uomini che sinora hanno imposto sempre la medesima (errata) strategia, saranno essi stessi a spingere verso errori sempre più grandi (arrivando financo a mentire per sostenere le loro tesi) pur di non dover ammettere che, alla fine, potrebbe essere proprio l’impostazione di fondo ad essere sbagliata. Incolpare una parte del popolo per gli errori che derivano da scelte politiche – mettendo gli italiani gli uni contro gli altri in un momento di grave crisi economica e sociale – è stato probabilmente solo l’ultimo espediente in ordine di tempo escogitato per nascondere ai cittadini le verità scomode. Ovviamente fomentare l’odio sociale a scopo politico in momenti di grave crisi nazionale non è condotta da statisti. Ma i nostri governanti – a questo punto Draghi incluso, spiace dirlo, specie considerando il contenuto di certe affermazioni rese nella conferenza stampa con cui ha annunciato il green pass – come statisti vanno rimandati in blocco a settembre (in tutti i sensi e sperando che ad agosto non riescano a far peggio di quanto hanno già fatto sinora).

Nel frattempo non mi resta che augurare buone vacanze, estesi rigorosamente sia ai vaccinati che ai non vaccinati.