Vaccinazione, il privilegio italiano

In questi giorni di roventi polemiche sul Green Pass mi è capitato di leggere, a difesa del Green Pass stesso, che nel Regno Unito ne potrebbero fare a meno perché lì i non vaccinati sarebbero una esigua, trascurabile, minoranza, mentre da noi sarebbero un esercito.

Capisco che lo si possa credere, ma è del tutto falso. Nel Regno Unito i non vaccinati puri (nessuna dose) sono il 28.9%, da noi sono un po’ di meno (27.2%), e non molti di più come si è inclini a credere. Quanto ai doppiamente vaccinati, siamo in perfetta parità con il Regno Unito, a un soffio dal 65%.

Ma c’è di più. Gli altri due paesi modello, Israele e Stati Uniti, lodati per tanti mesi dai media di tutto il mondo, hanno anch’essi meno vaccinati dell’Italia: 63.3% di pienamente vaccinati in Israele, e appena il 53.0% negli Stati Uniti. Né le cose vanno tanto diversamente se, dai paesi modello, ci spostiamo su paesi più ordinari: anche Francia, Germania, Svezia hanno meno vaccinati di noi. Fra i paesi europei importanti, solo la Spagna ha una percentuale di completamente vaccinati decisamente superiore alla nostra (76% contro 65%).

Non saprei dire se la tendenza ad amplificare il pericolo NoVax abbia un’origine politica, o dipenda dal sensazionalismo dei media, certo è che – se ci atteniamo ai dati – tutto si può dire dell’Italia tranne che sia indietro con le vaccinazioni. Quel che dovremmo chiederci, semmai, è come abbiamo fatto a raggiungere il buon risultato che, fin qui, abbiamo conseguito. Una risposta possibile è che ci siamo liberati di Arcuri e lo abbiamo sostituito con il generale Figliuolo. Una seconda risposta è che il Green Pass è stato un efficacissimo (ancorché umiliante) escamotage dei nostri governanti: non potendo contare sul nostro senso civico, hanno puntato sul nostro bisogno di vacanze e di normalità. C’è però una terza risposta possibile, che quasi sempre si dimentica: in Italia la clamorosa mancanza di bambini e ragazzi rende molto più agevole che in altri paesi avvicinarsi a percentuali di copertura vaccinale elevate. Se non puoi vaccinare sotto una certa età, e sotto quella età ci sono quattro gatti perché le donne italiane non fanno figli, allora sei in vantaggio rispetto a paesi che, come Israele, hanno legioni di bambini e ragazzi, in quanto i tassi di fecondità femminile sono altissimi (gli under 12 sono il 10.1% in Italia, ma salgono al 23% in Israele).

Arrivati a questo punto, ci si potrebbe chiedere: se la maggior parte degli altri paesi hanno vaccinato meno dell’Italia e, a dispetto di questa circostanza, non adottano il Green Pass, perché noi ce lo infliggiamo? non potremmo sfruttare il nostro “vantaggio vaccinale” per tenere più aperta l’economia? perché limitare così gravemente la libertà di muoversi, di lavorare e di studiare?

Io penso che questa limitazione della libertà che viene imposta a una minoranza (di non vaccinati) per proteggere la maggioranza (dei vaccinati), abbia almeno due giustificazioni, una nobile e l’altra meno.

La giustificazione nobile è che, avendo avuto fin qui più morti per abitante di qualsiasi altra società avanzata (a parte il Belgio), l’Italia ha maturato delle soglie di allarme più severe di quelle di altri paesi. Non tutti lo sanno, ma in questo momento molti dei paesi cui veniamo invitati ad allinearci hanno un numero di morti per abitante molto superiore al nostro. Fatto 100 il numero di morti al giorno dell’Italia, la Spagna ne ha 160, la Francia 178, il Regno Unito 220, Israele 412, gli Stati Uniti addirittura 589 (solo la Germania sta meglio di noi, a livello 58). E cifre analoghe si potrebbero riportare per le ospedalizzazioni, o i ricoveri in terapia intensiva. In poche parole: questi meravigliosi paesi, paladini e custodi delle libertà individuali, stanno pagando un prezzo molto più alto del nostro sul terreno della salute.

C’è anche una giustificazione meno nobile, però. I nostri governanti sanno perfettamente che i prossimi 6 mesi saranno tremendi, perché vedranno l’alleanza (inedita!) fra variante delta e stagione fredda, con conseguente drastica riduzione del tempo di vita all’aperto e moltiplicazione delle interazioni negli ambienti chiusi. Ma sanno pure di non aver fatto quasi nulla sui tre versanti fondamentali: ricambio dell’aria nelle scuole, trasporti pubblici, protocolli di cura domiciliare. E’ quindi naturale che, temendo il peggio, si cautelino imponendo più restrizioni di quelle che appaiono immediatamente logiche e giustificate (anche se, voglio dirlo, trovo un po’ vile aspettare il voto di ottobre per renderle effettive).

Temo che il problema, e la difficoltà di prendere partito pro o contro il Green Pass, stia tutto qui. Per quanto mi riguarda, capisco molte delle obiezioni che i critici del Green Pass, a partire da molti miei colleghi docenti universitari, rivolgono al governo. Ma non posso non notare che, per non sentirci ora costretti ad accettare il Green Pass, avremmo dovuto prepararci da molto tempo a fare tutte le cose che (forse) lo avrebbero reso superfluo, e che nessun governo ha voluto fare. E ancor meno posso dimenticare che, nella battaglia per fare in tempo utile tutto ciò che andava fatto, siamo stati – chiunque fosse al governo – una piccolissima minoranza. Forse, se il mondo dell’università si fosse mobilitato allora, e lo avesse fatto con la forza che deriva dallo studio, dalla cultura e dall’indipendenza di giudizio, oggi non saremmo a questo punto.

  Pubblicato su Il Messaggero del 17 settembre 2021




Studenti allo sbaraglio

Oggi le scuole riaprono in dieci regioni, e 4 milioni di allievi tornano in classe. Nei prossimi giorni riapriranno anche le scuole delle altre regioni. Pure nell’Università i corsi stanno per ripartire. Insomma, la macchina dell’istruzione si sta rimettendo in moto.

Con quali regole?

A quel che si apprende dalle linee guida governative si tratta di regole molto deboli, tendenzialmente ancora più lasche di quelle del passato. Il distanziamento fra gli studenti è solo di 1 metro, e non è obbligatorio. Nell’università nessuna norma impedisce di tenere lezioni in aule occupate al 100%, il che mediamente significa distanziamento inferiore al metro. Gli studenti universitari devono prenotarsi ed essere vaccinati per accedere alle lezioni, ma non sono previsti controlli, se non a campione (il che fa presagire una replica dei controlli fantasma negli aeroporti). Le mascherine sono perlopiù obbligatorie, ma non necessariamente ffp2 (bastano le chirurgiche, che come si sa proteggono assai poco). Per il ricambio dell’aria ci si affida all’apertura di porte finestre, strada chiaramente poco percorribile nei mesi più pericolosi (da dicembre a febbraio). Quanto ai mezzi pubblici, dopo aver ipotizzato l’obbligatorietà del Green Pass e il ritorno in grande stile della figura del “controllore”, si è rapidamente fatto marcia indietro perché “è difficile fare i controlli” (esito ovvio e prevedibile, se ci si occupa del problema ad agosto per settembre, dopo un anno e mezzo dall’inizio dell’epidemia).

Come è possibile? Da almeno un anno sappiamo che il virus si trasmette con estrema facilità negli ambienti chiusi, che 1 metro di distanza non basta, e che il ricambio sistematico dell’aria è cruciale. Nonostante ciò, salvo alcune eccezioni (ad esempio quella della Regione Marche), quasi nulla è stato fatto sui due versanti fondamentali: diminuzione del numero di studenti per classe, attraverso l’aumento del numero di aule; aerazione dei locali, mediante filtri HEPA o impianti di VMC (ventilazione meccanica controllata). Eppure sono quasi due anni che è scoppiata l’epidemia, e di tempo ne abbiamo avuto tantissimo, anche grazie al fatto che per molti mesi le scuole e le università sono rimaste chiuse. Perché non è stato fatto niente?

Una risposta possibile è che i nostri politici semplicemente non ne siano capaci. Quando si tratta di varare misure complesse, anziché agire preferiscono tergiversare e, nel frattempo, scaricare gli oneri dell’aggiustamento sul settore privato (e sugli ospedali). E così si chiede alla gente di stare in casa, o agli operatori economici di controllare il rispetto delle regole, ma ci si guarda bene dall’intervenire nei contesti di diretta competenza della Pubblica Amministrazione: uffici pubblici, scuole, università, mezzi di trasporto. Nell’ambito della sfera pubblica, solo agli ospedali viene richiesto di contribuire direttamente alla lotta al Covid, spesso senza fornire loro tutti i mezzi necessari.

Ma c’è anche un’altra risposta possibile. Forse la ragione per cui scuole e università partono con misure di sicurezza davvero molto minimali è semplicemente che i nostri governanti, confortati dai pareri rassicuranti del Comitato tecnico-scientifico, pensano che tali misure siano sufficienti. Insomma, non è che non sono capaci di organizzare interventi complessi, è che sono convinti che tali interventi non siano necessari. Il grandioso obiettivo di non tornare alla DAD (didattica a distanza) sarebbe raggiungibile semplicemente spingendo l’acceleratore sulle vaccinazioni, e attenendosi alle blande misure previste per scuole e università. Secondo questo modo di ragionare, la situazione odierna sarebbe meno preoccupante di quella di un anno fa perché la maggior parte dei cittadini è vaccinata, gli ospedali non sono troppo sotto pressione, i rischi di ospedalizzazione e di morte si sono drasticamente ridotti.

Ma è ben riposta questa convinzione?

Spero vivamente di sbagliarmi, ma penso che non lo sia. E’ vero che, rispetto all’anno scorso, abbiamo l’arma in più del vaccino, ma è altrettanto vero che la variante delta, che ha ormai preso il sopravvento in Italia, controbilancia e verosimilmente supera l’impatto positivo del vaccino. A suggerire questa amara diagnosi sono i numeri di base dell’epidemia: a dispetto del vaccino e di una campagna di vaccinazione più che soddisfacente (giusto nei giorni scorsi abbiamo superato Israele), oggi gli ospedalizzati sono 3 volte quelli di 12 mesi fa, i contagiati giornalieri sono il quadruplo, i morti quotidiani e i ricoverati in terapia intensiva sono addirittura il quintuplo.

In concreto: il rientro dalle vacanze avviene con una circolazione del virus molto più intensa di quella di un anno fa. Né possiamo illuderci che a salvarci possa intervenire, nel giro di pochi mesi, la raggiunta immunità di gregge. Con vaccini come quelli attuali (che proteggono solo in parte dalla infezione), l’immunità di gregge è semplicemente impossibile, anche riuscissimo a vaccinare il 100% della popolazione. E’ abbastanza incredibile che, per riconoscere questa realtà, ben nota agli studiosi dai primi mesi dell’anno, si sia dovuto attendere fino a pochi giorni fa, quando Gianni Rezza (Direttore generale della Prevenzione al Ministero della Salute) ha finalmente ammesso che “l’immunità di gregge non è un obiettivo realistico”, in patente contrasto con centinaia di dichiarazioni e auspici delle autorità politiche e sanitarie nei mesi scorsi.

Ed eccoci al dubbio finale: come è possibile che, sapendo che il virus circola molto di più che un anno fa, e avendo finalmente preso atto che questi vaccini non potranno regalarci l’immunità di gregge, le misure adottate per riaprire scuole e università siano ancora più blande di quelle dell’anno scorso?

Pubblicato su Il Messaggero del 13 settembre 2021




Covid e tabù. L’informazione ai tempi della guerra contro il Covid

1 – Fare informazione in tempi di guerra

Oltre a fare il prof. universitario, di Sociologia e Analisi dei dati, negli ultimi 16 anni ho fatto il mestiere di editorialista. I quotidiani con cui ho collaborato, la Stampa, Il Sole 24 Ore, il Messaggero erano (e sono tuttora) politicamente poco caratterizzati. In concreto, vuol dire che potevo scrivere (quasi) tutto quel che mi passava per la testa.

Certo, mi è capitato di sentire qualche volta la pressione a non essere troppo crudo, ma mai ho avuto la sensazione che ci fossero cose vere che non si potevano dire.  O, più esattamente: mai ho avuto la sensazione che ci fosse, nei miei campi di studio, qualche risultato di ricerca di cui – sul quotidiano – era meglio non parlare. Anche nell’epoca del berlusconismo e dell’anti-berlusconismo, le cose erano filate lisce: si poteva essere pro o contro, e agli studiosi al massimo capitava di sentirsi dire che un certo risultato, una certa analisi, un certo dato potevano essere “strumentalizzati” dalla destra o dalla sinistra.

Oggi è ancora così?

Per certi versi credo di sì. Anche oggi, nessuno ti dice che cosa devi scrivere, e che cosa non puoi scrivere. Ma per altri versi sento che no, non è più così. Un clima come quello che si respira da 8-9 mesi a questa parte non mi è mai capitato di avvertirlo prima, forse perché non sono abbastanza vecchio per avere memoria di quel che può diventare il mestiere di editorialista indipendente quando scoppia una guerra.

Già, perché questo è successo: alla fine del 2020 l’Italia, come ogni altra nazione europea, ha dichiarato ufficialmente guerra al virus. E, nello stato di guerra, tutto cambia. La popolazione è chiamata a cooperare allo sforzo bellico, e chi è nella condizione di vestire la divisa (i maggiorenni) è tenuto ad arruolarsi (vaccinarsi). Chi rifiuta di farlo è considerato un disertore, chi non partecipa alla campagna di arruolamento, o lo fa esprimendo qualche riserva, viene visto come un disfattista. I media principali sono chiamati a dare il loro contributo a vincere la guerra che è stata dichiarata. Non era mai successo, dalla fine della seconda guerra mondiale, ossia dall’ultima guerra vera scoppiata in Europa.

Ed ecco il problema. Il lavoro dello studioso, se non è accecato dall’ideologia e dalla faziosità, non è quello di sostenere con tutti i mezzi una determinata causa, foss’anche la più nobile. Il lavoro dello studioso è di dire le cose come stanno, in base alle risultanze della ricerca scientifica. Se non fa questo, e decide che cosa dire e che cosa non dire in base all’opportunità politico-militare del momento, perde completamente la sua credibilità.

Ma dire le cose come stanno è difficile nel corso di una guerra, e lo è particolarmente sui media più autorevoli (stampa e tg), che – giustamente dal loro punto di vista – si sentono impegnati in una missione suprema, la guerra al Covid, non certo a dare ai propri lettori una rappresentazione accurata della realtà. Il guaio, per lo studioso, è che fra le molte cose vere o supportate dai dati ve ne sono parecchie che non tengono alto il morale delle truppe, o addirittura hanno effetti di demoralizzazione.

Né si pensi che tutto il problema stia nei mezzi di comunicazione ufficiali e a vasta diffusione, come i quotidiani nazionali e le reti tv. In questi mesi ho letto sul web migliaia di interventi, sia di tipo scientifico sia di tipo giornalistico, sul Covid e i vaccini, e quasi sempre, fin dalle prime righe, sono stato in grado di riconoscere l’intento primario dell’autore: o la difesa della vaccinazione, o la messa in dubbio della sua utilità e sicurezza.

Aut Aut. Mai il tentativo di raccontare l’intera verità, o perlomeno quello che fino a quel momento si sa dell’andamento dell’epidemia e dei mezzi per contrastarla.

2 – Dal fact checking al fake checking

Questa compulsione a prendere partito, riducendo al minimo i dubbi e le sfumature, è tanto più interessante quando si manifesta negli interventi di fact checking, i cui estensori ambirebbero ad un ruolo di giudici obiettivi e neutrali: anche lì, dopo poche righe, capisci dove si va a parare.

La pratica del fact checking, proliferata durante il Covid, meriterebbe uno studio a sé. In innumerevoli casi si è trasformata in una sorta di killeraggio a danno delle posizioni eterodosse, anche se sostenute da studiosi autorevoli, o supportate da pubblicazioni in riviste prestigiose.

Forse il caso più clamoroso di killeraggio è stato quello nei confronti degli scienziati che sostengono la tesi, minoritaria ma non del tutto priva di argomenti a supporto, secondo cui la vaccinazione di massa – in presenza di alti livelli di circolazione del virus – possa favorire la nascita di varianti resistenti ai vaccini stessi.

Questa tesi, giusta o sbagliata che sia, è stata completamente cancellata dalla comunicazione pubblica, perché avrebbe potuto instillare il dubbio che sia stata una follia, nell’autunno-inverno del 2020, non abbattere la circolazione del virus prima di iniziare la vaccinazione di massa; e ora potrebbe alimentare il sospetto che la vaccinazione non basti, e che l’era delle restrizioni e dei lockdown non sia affatto finita.

Nonostante gli sforzi per cancellarla e squalificarla, la tesi della pericolosità della vaccinazione di massa in condizioni di alta circolazione del virus sta faticosamente riemergendo nel dibattito scientifico, anche in sedi prestigiose come la rivista “Nature”. Forse, dovremmo smettere di parlare di fact checking, e prendere atto della mutazione: in epoca di guerra, il fact checking si è trasformato in fake checking, al servizio dell’ortodossia dominante.

Ricapitolando: la dichiarazione di guerra al Covid, scattata con l’inizio della campagna di vaccinazione (27 dicembre 2020), ha reso la vita difficile al dubbio e all’esercizio del senso critico, che pure dovrebbero essere – in una situazione in cui la scienza ha pochissime certezze – le modalità normali di comunicazione. Il tutto in favore di uno stile di comunicazione parziale ed omissivo, dove la chiave di volta non è ciò che si racconta, ma ciò di cui si preferisce tacere.

3 – Tre casi di sproporzionata disattenzione

Lo stile omissivo tocca sia la comunicazione provax, volta alla promozione della campagna vaccinale, sia quella nivax, volta a sollevare dubbi sulla vaccinazione (della comunicazione platealmente novax non mi occupo, essendo facilmente riconoscibile e poco interessante).

E’ il caso di notare, tuttavia, che vi sono anche omissioni che, almeno a prima vista, non hanno una evidente finalità pro o antivax. Sembrano, piuttosto, frutto di un mix di superficialità, disattenzione, gregarismo (il desiderio di parlare di ciò di cui parlano tutti, per parafrasare il romanzo di Francesco Piccolo).

Rientrano in questa categoria tre casi di “sproporzionata disattenzione” a ipotesi scientifiche interessanti e – se vere – potenzialmente ricche di conseguenze pratiche:

  1. la trasmissione aerea del virus (attraverso aerosol, anziché attraverso le goccioline);
  2. il ruolo protettivo della vitamina D;
  3. le basi genetiche della suscettibilità individuale al virus, nonché l’esistenza (da gennaio 2021) di un test per individuare gli italiani suscettibili (circa 1 su 6).

Sul primo punto (trasmissione mediante aerosol), il silenzio è durato circa un anno. Nonostante pubblicazioni scientifiche e appelli di centinaia di scienziati di decine di paesi, per tutto il 2020 l’Oms non ha mai voluto prendere seriamente atto di questa possibilità. In Italia, grazie a una lettera aperta del prof. Giorgio Buonanno, l’allarme sulla realtà della trasmissione mediante aerosol era scattato fin dal 27 marzo 2020 (pochi giorni dopo l’inizio del lockdown), ma è stato completamente ignorato dalle autorità sanitarie, e solo tardivamente preso in qualche considerazione dai mass media.

Sul secondo punto (vitamina D), salvo isolate eccezioni, l’attenzione dei media è stata sempre bassissima, e sostanzialmente succube del Ministero della Salute che, diversamente dalla comunità scientifica, ha sempre cercato di togliere ogni legittimità all’ipotesi di un nesso fra carenza di vitamina D e suscettibilità al Covid. Ancora oggi (settembre 2021), sul sito del Ministero, l’ipotesi è sbrigativamente derubricata a fake news.

Sul terzo punto (basi genetiche), l’esistenza di una copiosa letteratura scientifica, e l’indubbia importanza dell’esistenza di un test (dell’Università di Verona) per individuare i soggetti più a rischio, non sono bastati ad attirare l’interesse dei media e delle autorità sanitarie.

Naturalmente, è comprensibile che Oms, governi, e autorità varie abbiano provato a ignorare e screditare ipotesi che potevano risultare (o quanto meno apparire) in contrasto con le politiche adottate. Meno chiaro perché i media le abbiano quasi completamente ignorate.

4 – Cherry picking, il vizio comune di provax e nivax

Ma torniamo ai tabù dei media provax e nivax.

L’informazione provax è incapace di accettare qualsiasi notizia scientifica che vada contro il totem della vaccinazione, così smorzando il consenso del pubblico, o disturbando i piani del governo. Nell’estate 2021, ad esempio, in piena stagione turistica, è stata messa la sordina alle ricerche che dimostravano che anche i vaccinati possono trasmettere il virus, e che non è affatto vero che fra vaccinati non ci si infetta: l’imperativo categorico era rendere desiderabile la vaccinazione, e favorire il decollo del Green Pass. È presumibile che nascondere i limiti della vaccinazione possa aver spinto la vaccinazione stessa, ma è certo che magnificare acriticamente le virtù protettive dei vaccini ha contributo a ridurre la vigilanza e il rispetto delle regole di prudenza.

Non solo. Fra giugno e agosto la medesima sordina è stata imposta ad altre due notizie potenzialmente in grado di disturbare il manovratore: la notizia che Astra Zeneca, almeno nei primi mesi dalla seconda dose, è molto meno efficace di Pfizer, e la notizia che, dopo 6 mesi, l’efficacia di entrambi i vaccini è gravemente compromessa.

La prima notizia avrebbe reso difficile continuare a vaccinare con AstraZeneca, la seconda avrebbe impedito al governo di cavarsela portando da 9 a 12 mesi la validità del Green Pass, e lo avrebbe costretto ad avviare subito una campagna di rivaccinazione (come si apprestano a fare Israele, Regno Unito, Stati Uniti, Germania, Francia e molti altri paesi, europei e non).

È comprensibile che il Comitato tecnico-scientifico, che di fatto si muove come un organo politico, abbia dato il suo ok, ma è meno comprensibile che la stampa libera sia rimasta piuttosto quieta, come se lasciare scarsamente coperte milioni di persone (i vaccinati nei primi mesi 2021) non avesse costi umani seri, sotto forma di maggiori  ospedalizzazioni e maggiori decessi.

L’informazione nivax, d’altro canto, pare strutturalmente incapace di leggere i dati. Ogni sorta di espediente logico viene usato per mettere in dubbio l’efficacia del vaccino. Ogni notizia che, a prima vista, suggerisce che i vaccinati si ammalano più dei non vaccinati, viene sbandierata acriticamente.

È interessante rilevare i non sequitur, i trucchi, le ingenuità della anti-informazione nivax. Per esempio il salto logico: anche i vaccinati possono infettarsi e trasmettere il virus, dunque è inutile pretendere il Green Pass (come se uno dicesse: qualche automobilista muore nonostante abbia la cintura di sicurezza, quindi non imponiamo le cinture di sicurezza).

Ancora più interessanti le ingenuità alla Cacciari, miseramente franato sul “paradosso di Simpson”, una trappola statistica in cui si può cadere quando la relazione fra due variabili (vaccinazione e decesso) viene analizzata ignorando una terza variabile (l’età) che può capovolgere il segno della relazione. E infatti gli stessi dati invocati da Cacciari per insinuare che il vaccino non funziona, correttamente analizzati (dagli studiosi, ripresi dalla stampa provax), provano semmai l’esatto contrario.

Per non parlare dell’uso partigiano dell’argomento retorico “non ci sono prove incontrovertibili che…”, un grimaldello con il quale diventa possibile giustificare o squalificare ogni sorta di affermazione, dalla pericolosità potenziale dei vaccini (non ci sono prove di effetti negativi sulla fertilità), all’efficacia preventiva della vitamina D (non ci sono prove che funzioni), ai rischi della trasmissione del virus mediante aerosol (non ci sono prove che avvenga).

Eppure, ci si dovrebbe rendere conto che l’argomento della mancanza di prove incontrovertibili è puramente retorico: l’assenza di prove può essere usata, intercambiabilmente, a sostegno di una tesi (non ci sono prove che la terapia X funzioni) così come della tesi contraria (non ci sono prove che la terapia X non funzioni).

È il caso di notare che l’uso strumentale, da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità, dell’argomento “non ci sono prove incontrovertibili che…” ha impedito, per circa un anno, di riconoscere la possibilità e la pericolosità della trasmissione aerea (mediante aerosol), a dispetto degli innumerevoli studi, appelli e lettere aperte di centinaia di scienziati internazionali. Una cecità che, riducendo la vigilanza negli ambienti indoor, ha sicuramente aumentato, e non di poco, il numero dei morti per Covid.

Alle fine, quel che accomuna i due campi è l’omissione di informazioni rilevanti, e la selezione arbitraria di pezzi di informazione funzionali alla tesi che si vuole difendere, il cosiddetto cherry picking.

5 – Scelta vaccinale e razionalità

Si potrebbe pensare, arrivati a questo punto, che il modo di disinformare di provax e nivax si riduca alla scelta dei tasselli da mettere in campo o, se preferite, alla gestione dei tabù.

In realtà non è tutto, c’è anche la matematica, o meglio la scarsa dimestichezza con la matematica, la logica e la statistica necessarie per destreggiarsi nei meandri dell’epidemia (un esempio lo abbiamo già visto a proposto del paradosso di Simpson). Prendiamo la questione della vaccinazione dei più giovani, ragazzi e bambini. L’atteggiamento prevalente nell’informazione main stream è di presentare l’esitazione vaccinale (ossia la posizione di chi teme la vaccinazione e non ha ancora deciso se vaccinarsi, o se vaccinare i propri figli), come un atteggiamento irrazionale, frutto di ignoranza e disinformazione.

Ma la matematica della scelta razionale, sia nella sua versione utilitarista sia in quella della portfolio selection (che incorpora l’avversione al rischio nelle funzioni di utilità soggettiva), racconta tutta un’altra storia. Per giudicare non razionale la scelta di non vaccinarsi dovrebbero essere noti, come minimo, il rischio di ammalarsi gravemente e i rischi connessi a effetti avversi di breve, medio e lungo periodo. Poiché il primo (rischio di malattia grave) è bassissimo per i più giovani, e i secondi (rischi futuri) sono semplicemente sconosciuti, non c’è nulla di intrinsecamente irrazionale nell’evitare un rischio di entità sconosciuta per proteggersi da un rischio di entità nota e trascurabile, o comunque bassissima (per un under 18 il rischio di decesso per Covid è almeno 10 volte più basso di quello di morire per un incidente stradale).  Tanto è vero che, nelle scienze sociali, la scelta di non vaccinarsi viene tipicamente analizzata con gli strumenti della teoria dei giochi, ossia dentro il paradigma della rational choice.

Nel linguaggio della teoria della scelta razionale: il soggetto è costretto ad operare con probabilità soggettive, in una situazione che – tecnicamente – si definisce di incertezza, perché non solo è impossibile prevedere con esattezza le conseguenze dell’azione, ma non è neppure possibile assegnare delle probabilità obiettive ai vari esiti possibili. Se il soggetto percepisce i rischi futuri (sconosciuti) come superiori ai benefici (stimabili, e fortemente dipendenti dall’età) non si dà un modo scientifico di convincerlo a rifare i calcoli in altro modo. Si può solo tentare di persuaderlo che sopravvaluta i rischi del vaccino, e attendere che la scienza – forte di anni di sperimentazione sul campo – abbia gli elementi per risultare convincente.

Certo si può affermare che chi non si vaccina aumenta il rischio altrui, ma altrettanto bene si può obiettare che un genitore che autorizza la vaccinazione del figlio o della figlia minorenne ha una doppia responsabilità, verso la società ma anche verso la prole, di cui mai vorrebbe mettere a repentaglio l’integrità fisica futura. Nella mia esperienza, questa obiezione viene soprattutto dalle madri, indipendentemente dal livello di istruzione, e non è agevolmente controvertibile. La decisione di vaccinare o non vaccinare un bambino, che politici e mass media tendono a presentare come una questione di senso civico, rientra assai più plausibilmente nel campo delle “tragic choices”, per usare la classica formulazione di Guido Calabresi.

Insomma: la scelta di vaccinarsi è razionale, ma quella di non farlo può esserlo altrettanto, esattamente come può essere razionale tanto scommettere sul verificarsi di un evento quanto scommettere sul fatto che non si verifichi (la differenza la fanno le percezioni soggettive dei decisori, nonché le rispettive propensioni al rischio).

Personalmente propendo per la vaccinazione, ma trovo sorprendenti la superficialità, l’arroganza e il paternalismo con cui – in una parte non piccola della comunicazione pubblica – vengono squalificati coloro che esprimono dubbi.

6 – Due metriche per l’efficacia vaccinale

La mancanza di dimestichezza con la matematica gioca anche altri brutti tiri. Ad esempio, porta a sottovalutare le differenze di efficacia fra i vaccini. Mi spiego con un esempio. Se ci dicono che il vaccino A fornisce una protezione del 95%, e il vaccino B del 90%, tendenzialmente ci facciamo l’idea che fra i due vaccini non vi siano grandi differenze. Invece le differenze sono enormi: il vaccino A riduce il rischio di un fattore 20, il vaccino B di un fattore 10.

Il fattore di riduzione (f), infatti, è legato all’efficacia del vaccino (ε) dalla formula:

f = (1 – ε)-1

Se la si analizza attentamente, ci si rende conto che variazioni di efficacia apparentemente modeste, come quelle legate alla variante (delta piuttosto che alpha), al periodo di vaccinazione (primo o secondo trimestre del 2021), o al vaccino usato (Pfizer o AstraZenca), possono essere associate a enormi differenze nella protezione dal rischio, anche da una amplissima protezione 33 (efficacia del 97%) a una modesta protezione 3 (efficacia del 67%).

Che i mass media, quando parlano di efficacia, usino sempre la metrica di ε e non quella di f induce il pubblico a non percepire le grandissime differenze che possono sussistere fra situazioni e fra vaccini.

7 – L’aritmetica dell’immunità di gregge

Il caso più clamoroso di incomprensione dell’aritmetica dell’epidemia è però quello della cosiddetta immunità di gregge. Uno degli argomenti più ripetuti a favore della vaccinazione di massa è che, grazie ad essa, raggiungeremo l’immunità di gregge. L’argomento è spesso accompagnato da percentuali-obiettivo, tipo “dobbiamo vaccinare almeno il 70% degli italiani”, e dalla tesi secondo cui – proteggendo una certa percentuale della popolazione – anche i non vaccinati risulterebbero protetti (una curiosa applicazione del concetto di free rider).

Ma questi argomenti non sono semplicemente fuorvianti, sono del tutto errati. Intanto non è vero che, raggiunta la percentuale che garantisce l’immunità di gregge, i vaccinati proteggono anche i non vaccinati. Il significato della soglia di copertura vaccinale necessaria (70% nell’esempio) è solo che, se la si raggiunge (e se si adottano alcuni assunti semplificatori sulle interazioni sociali), l’epidemia si ferma, e se la si supera – prima o poi – l’epidemia si spegne. In altre parole: i non vaccinati continuano ad ammalarsi e morire, ma il numero di nuovi casi diventa sempre più piccolo, fino ad azzerarsi in un futuro più o meno lontano.

La formula standard per calcolare la copertura vaccinale (Vc) che garantisce l’immunità di gregge è:

Vc = 1-1/R0

dove R0 è il numero di riproduzione di base, ossia il numero medio di persone contagiate da un soggetto che si ammala. Il valore di R0 era circa 3 all’inizio dell’epidemia, è diventato circa 5 con la variante alpha, e circa 8 con la variante delta. In concreto, vuol dire che con il virus originario ci sarebbe bastato vaccinare 2/3 della popolazione, con la variante alpha (sopraggiunta nell’inverno 2020-2021) avremmo dovuto vaccinare l’80% della popolazione, con la variante delta (divenuta prevalente nella primavera del 2021) dovremmo vaccinare l’87.5% della popolazione. L’obiettivo è chiaramente irraggiungibile, a meno di imporre l’obbligo vaccinale e abbassare ancora un po’ l’età minima dei vaccinabili.

Ma supponiamo di farlo e che, con le buone o con le cattive, si riesca a vaccinare il 95% della popolazione. Basterebbe a spegnere l’epidemia?

La risposta è no, perché la formula dell’immunità di gregge vale per i vaccini sterilizzanti, che immunizzano completamente chi si vaccina. Il che vuol dire: chi si vaccina non può infettarsi, né trasmettere il virus ad altri. Se il vaccino è leaky, cioè non sterilizzante, vale una formula modificata:

Vc = (1-1/R0)/E

dove il termine E rappresenta quel che alcuni studiosi chiamano “efficienza vaccinale”, ossia la capacità media di impedire reinfezioni e trasmissione ad altri.

L’efficienza di un vaccino sterilizzante è per definizione 1, ossia è pari al 100%, e genera la prima formula, in cui E non compare. Quella di un vaccino leaky è difficile da calcolare, se non altro perché dipende dal mix di varianti presente in un dato momento in un certo luogo, ma certamente è ampiamente inferiore a 1.

Supponendo, ottimisticamente, che sia 0.80, il valore di Vc passa da 0.875 (per E=1) a 1.094, il che significa: non basta vaccinare l’87.5% della popolazione, ma occorrerebbe vaccinare il 109.4%.

Un risultato chiaramente assurdo, che però ha una interpretazione concreta molto chiara e tranchant: con un vaccino leaky, a meno che la sua efficienza sia pari o superiore all’87.5%, non basta neppure vaccinare l’intera popolazione.

Tutto questo è perfettamente noto agli specialisti e, dopo un articolo apparso su “Nature” nel 2021, è ormai dato per scontato nella letteratura scientifica. Nella comunicazione pubblica invece no, si continua a alimentare l’illusione che, se ci vaccineremo tutti, potremo usufruire dell’immunità di gregge.

Il tutto in un’epoca in cui non si fa che parlare di precision journalism, computer assisted reporting, data journalism, fact checking, eccetera eccetera. Forse c’è qualcosa che non va.


Riferimenti bibliografici

Aschwanden Ch.
2021   Five Reasons why COVID Herd Immunity is Probably Impossible, “Nature”, Vol. 591, 25 March.

Bauch C.T., Earn D.J.D.
2004   Vaccination and the Theory of Games, “Proceedings of the National Academy of Sciences, USA”, 101: 13391-4.

Bosshard M.
2021   La “sperimentalità” dei vaccini conto il Covid-19: un punto di vista giuridico, www.fondazionehume.it

Buonanno G.
2020   Lettera aperta, “L’inchiesta. Quotidiano del Lazio meridionale”, 27 marzo (www.linchiestaquotidiano.it).
2021   La gestione della trasmissione del SARS-CoV-2 e del conseguente rischio contagio: il punto di vista di un ingegnere, 2 aprile, www.fondazionehume.it.

Buonanno G., Morawska L, Stabile L.
2020   Quantitative Assessment of the Risk of Airborne Transmission of SARS-CoV-2 Infection: Prospective and Retrospective Applications, “Environment International”, 145, September.

Calabresi G., Bobbit Ph.
1978   Tragic Choices, New York, Norton.

Fine P., Eames K., Heymann D.L.
2011   “Herd Immunity”: A Rough Guide, “Clinical Infectious Diseases”, 52 (7).

Galvani A.P., Reluga T.C., Chapman G.B.
2007   Long-standing Influenza Vaccination Policy is in Accord with Individual Self-interest but not with the Utilitarian Optimum, Proceedings of the National Academy of Sciences, USA”, 104: 5692-7.

Gibson-Moore H.
2021   Vitamin D: What’s New a Year on from COVID-19 Outbreak?, “Nutriton Bulletin”, 46.

Harsanyi J.C.
1977   Rational Behavior and Bargaining Equilibrium in Games and Social Situations. Cambridge, Cambridge University Press.

Markowitz H.
1952   Portfolio Selection, “The Journal of Finance”, Vol. 7, No. 1, March.

Radujkovic A. et al.
2020   Vitamin Deficiency and Outcome of COVID-19 Patients, “Nutrients”, 12, 2757.

Rella S.A. et al.
2021   Rates of SARS-CoV-2 Transmission and Vaccination Impact the Fate of Vaccine-resistant Strains, “Nature”, Scientific Reports 11, 30 July.

Rhea E.M, et al.
2021   The S1 Protein of SARS-Cov-2 Crosses the Blood-Brain Barrier in Mice, “Nature”, vol. 24, March.

Zeberg H., Pääbo Sv.
2020   The Major Genetic Risk Factor for Severe Covid-19 is Inherited from Neanderthals, “Nature Neuroscience”, 30 Sept (published on line).




Meglio la vaccinazione obbligatoria che i pericolosi equivoci del Green Pass

Se c’è un aspetto sicuramente positivo nel dibattito sul Green Pass, per quanto caotico e a volte persino sguaiato sia, è che finalmente, dopo oltre un anno di pensiero unico “pandemically correct” imposto con ogni mezzo, compresi alcuni più adatti a un regime autoritario che a uno Stato democratico (cfr. Paolo Musso, Il virus dell’autoritarismo), si comincia a discutere non questo o quel dettaglio delle strategie dei governi occidentali, ma i loro presupposti di fondo. E ciò è un bene di per sé stesso, dato che molti dei suddetti presupposti sono erronei, come qui abbiamo più volte cercato di documentare.

Di ciò va dato merito soprattutto a Massimo Cacciari e Giorgio Agamben, che hanno dato fuoco alle polveri con il loro articolo A proposito del decreto sul “green pass”, pubblicato il 26/07/2021 sul sito dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, e al quotidiano La Stampa, che, nonostante la sua posizione ufficiale di sostegno incondizionato al governo, ha aperto le sue pagine a una discussione pubblica sul tema.

Se c’è invece un aspetto sicuramente negativo, è che purtroppo le critiche dei due filosofi, come del resto praticamente tutte le altre che si sono sentite finora, partono dalla premessa che i dubbi di chi non vuole vaccinarsi siano giustificati perché l’efficacia e la sicurezza dei vaccini non sarebbero ancora state dimostrate. Non voglio qui entrare nel merito della questione, anche se dopo miliardi di dosi inoculate è ormai abbastanza evidente che i rischi sono davvero minimi, mentre sull’efficacia si può discutere quanto i vaccini proteggano (il discorso è reso estremamente complesso dal fatto che, come è noto, la letalità del virus varia moltissimo a seconda dell’età), ma non che una protezione ci sia e che sia consistente.

Ma, ripeto, non voglio insistere su questo, perché ciò che vorrei qui sottolineare è che tale premessa è del tutto superflua, dato che le critiche di Cacciari e Agamben restano valide anche a prescindere da essa: infatti le condivido anch’io, che non soltanto mi sono vaccinato, ma sono addirittura favorevole all’obbligo di vaccinazione per tutti (che è tutt’altra cosa dal Green Pass). Sarebbe quindi opportuno concentrarsi solo su di esse, senza offrire a chi non vuole affrontarle un comodo pretesto per accomunarle impropriamente ai deliri negazionisti e complottisti dei No-Vax (come infatti quasi sempre è accaduto).

Perché parliamoci chiaro: contrariamente a ciò che il governo continua a sostenere, il Green Pass non è affatto uno strumento di prevenzione, dato che anche nei luoghi a cui si può accedere soltanto con esso continuano ad essere in vigore le stesse regole in base a cui abbiamo vissuto negli ultimi tempi. Di conseguenza, delle due l’una: o questa strategia era sbagliata, e allora il governo dovrebbe fare un pubblico mea culpa (di cui però non vi è traccia); oppure non lo era (come i dati dell’epidemia sembrano suggerire), e allora non si capisce perché mai dovremmo cambiarla. Non solo: tutto ciò dà l’impressione (errata, ma inevitabile) che il governo non creda realmente all’efficacia dei vaccini, il che fa aumentare la diffidenza verso i vaccini stessi e di conseguenza rende semmai più difficile la prevenzione.

A conferma di ciò, basta scorrere la lista dei luoghi accessibili solo col Green Pass per rendersi subito conto che non sono stati scelti quelli a maggior rischio sanitario (che sono anzitutto il trasporto pubblico locale e i luoghi di lavoro al chiuso, attualmente accessibili anche ai non vaccinati, a parte alcune particolari categorie), bensì quelli a minor rischio di scontro sociale, cioè quelli da cui essere esclusi rende la vita sgradevole, ma non impossibile: bar, ristoranti, cinema, teatri, musei, congressi, lunghi viaggi e – ahimè – lezioni universitarie, evidentemente considerate anch’esse parte del “superfluo”, secondo una mentalità tanto demenziale quanto purtroppo diffusa nel nostro paese.

Appare quindi evidente che il vero (e neanche tanto nascosto) obiettivo del Green Pass, come ha riconosciuto candidamente Andrea Crisanti, «è quello di indurre a vaccinarsi chi è riluttante o indeciso facendo leva su benefici personali che ne deriverebbero in termini di qualità di vita» (Green Pass e Terra piatta, su La Stampa, del 02/08/2021), dato che il loro numero (attualmente oltre 21 milioni di persone, allora quasi 30) è ancora troppo alto perché la campagna vaccinale possa avere pieno successo. Ciò che lascia stupiti è che Crisanti pensi che ciò sia cosa buona e giusta, pur avendo riconosciuto che si tratta di un metodo che viene usato intenzionalmente per forzare la gente a fare qualcosa che la legge non prescrive. Ciò è infatti inaccettabile per almeno due ragioni, una pratica e una di principio.

Anzitutto, dal punto di vista pratico, questa strategia rischia di rivelarsi un vero boomerang per il governo. Se è vero, infatti, che il primo annuncio dell’obbligo del Green Pass ha provocato un’impennata nelle richieste di vaccinazione, guardando agli avvenimenti di questi giorni sembra abbastanza chiaro che ciò abbia influito essenzialmente sui “pigri”, cioè su quelli che, pur non essendo contrari a vaccinarsi, non avevano particolarmente fretta di farlo. Per questo, come ha riconosciuto anche Marcello Sorgi, che pure l’aveva sempre difeso, «è prevedibile che [il Green Pass] non possa dare più risultati di quelli ottenuti» (dopo meno di un mese dalla sua introduzione!) e «ha anche influito negativamente sui contrari, rendendoli più esacerbati» (Ora ci vuole l’obbligo vaccinale, su La Stampa del 31/08/2021), fenomeno che rischia di accentuarsi ancor più nelle prossime settimane, quando con il ritorno a scuola e al lavoro i disagi diventeranno più pesanti.

Inoltre, la stessa legalità di questo strumento è molto dubbia, perché la Costituzione permette sì, come ha notato Zagrebelsky (Quell’obbligo è legittimo, su La Stampa del 06/08/2021), delle limitazioni agli spostamenti dei cittadini per ragioni sanitarie (art. 16), ma quelle imposte dal Green Pass vanno ben al di là di ciò, impedendo a chi non lo ha di usufruire di tutta una serie di servizi e in alcuni casi addirittura di svolgere il proprio lavoro. E come si potrà sanzionare costoro per “assenza ingiustificata” (come è già stato annunciato), quando è lo Stato che gli impedisce di lavorare perché non vaccinati, benché, per altro verso, gli riconosca il diritto di non vaccinarsi? Come si spiega che il Green Pass venga richiesto per svolgere certi lavori, ma non altri? Perché viene richiesto al ristorante, ma non nelle mense aziendali? Perché sui treni a lunga percorrenza e non su quelli regionali, molto più affollati? Perché gli studenti delle scuole potranno assistere alle lezioni anche senza, mentre quelli universitari no? E perché, di conseguenza, i docenti universitari saranno costretti a prolungare ulteriormente la deleteria didattica a distanza, che invece a scuola si vuole (giustamente) evitare a tutti i costi? A nessuna di tali domande sembra possibile dare una risposta sensata: e quando ciò accade, significa che il difetto è nel manico, cioè che è insensato il provvedimento che le provoca.

Per di più, ciò rischia di dar luogo a un’enorme quantità di azioni legali, che, prevedibilmente, avranno esiti diversi a seconda dell’orientamento politico dei magistrati, creando un guazzabuglio giuridico inestricabile che non aiuterà certo la velocizzazione della giustizia perseguita dalla riforma Cartabia. Peggio ancora, si rischia di causare fortissime tensioni sociali e anche episodi di violenza, che purtroppo hanno già iniziato a verificarsi e che nella situazione attuale sono l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno. E questo, considerando che stiamo parlando di oltre un terzo della popolazione italiana, è davvero giocare col fuoco.

Ma il problema più grave è quello di principio. Il Green Pass rappresenta infatti un drammatico ritorno allo sciagurato atteggiamento, tipico del governo Conte, di voler “rieducare” i cittadini con minacce, menzogne e furbate di bassa lega, anziché responsabilizzarli attraverso la verità e la trasparenza, cercando al contempo di scaricare su di essi le responsabilità più scomode, che un governo degno di questo nome dovrebbe invece avere il coraggio di assumersi in prima persona.

Prima si trattava del funzionamento delle misure di prevenzione, che hanno disastrosamente fallito, cosa che il governo precedente ha sempre cercato di imputare alle poche migliaia di persone che non le rispettavano, per evitare di doversi chiedere (e soprattutto di doverci spiegare) come mai i milioni e milioni di persone che le rispettavano continuavano lo stesso a morire. Oggi si tratta del funzionamento della campagna vaccinale, che invece, grazie al cielo (e alla cacciata di Conte), sta avendo un successo molto maggiore, ma ancora insufficiente per eliminare definitivamente il virus, del che il governo attuale, attraverso il Green Pass, sta cercando di scaricare la responsabilità sui cittadini che non vogliono vaccinarsi.

La differenza è che questa volta una responsabilità da parte dei cittadini in questione effettivamente esiste, ma ciò che invece resta (purtroppo) uguale è l’assurdo atteggiamento del governo, che prima li autorizza a comportarsi in un certo modo e poi li biasima e addirittura li sanziona perché lo fanno. Tale atteggiamento è stato purtroppo fatto suo perfino dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che in varie occasioni (per esempio durante la cosiddetta “cerimonia del ventaglio” del 28 luglio e nel discorso inaugurale al Meeting di Rimini del 20 agosto), ha dichiarato, in tono di aspro rimprovero verso i renitenti, che «vaccinarsi è un dovere morale e civico». Ora, questo modo di esprimersi può sembrare nobile se ci si ferma all’emotività suscitata dalle parole, senza riflettere sul loro significato (e infatti è stato acriticamente lodato da quasi tutti i mass media), ma in realtà rappresenta un equivoco pericolosissimo, perché uno Stato di diritto non può imporre “doveri morali”, ma solo doveri giuridici o nulla. E dispiace che anche Draghi, che per il resto sta facendo bene e che anche sul virus aveva fin qui tenuto un atteggiamento ben più corretto, si sia alla fine adeguato all’andazzo.

Intendiamoci: anch’io credo che nella situazione attuale non vaccinarsi sia un atto di egoismo (oltre che di autolesionismo) e l’ho pure detto a muso duro a diversi amici. Il punto, però, è che queste considerazioni appartengono a una sfera nella quale la politica non può e non deve intromettersi. Hanno quindi ragione Cacciari e Agamben a denunciare questo atteggiamento come intrinsecamente antidemocratico, mentre sbagliano quelli che ritengono che si tratti di una questione opinabile, dipendente dal «proprio concetto di libertà individuale» (Ma tu e i filosofi avete torto, su La Stampa del 29/07/2021). Neanche per sogno! Si tratta invece di un principio fondamentale e irrinunciabile, altrimenti si cade nello Stato etico e di qui nel totalitarismo.

Come si fa, infatti, a far rispettare un “dovere morale”, che per definizione non è giuridicamente sanzionabile? Ma è chiaro: attraverso la disapprovazione sociale, come accade tipicamente nei regimi autoritari, dove tutti sanno benissimo che chi non si conforma alle esortazioni morali del “caro leader” di turno viene inesorabilmente emarginato, anche se di per sé il suo comportamento non è proibito da nessuna legge. Il Green Pass si pone nella stessa logica, che rappresenta il brodo di coltura ideale per tutte le tendenze autoritarie, presenti purtroppo in abbondanza non solo nel calamitoso Speranza, ma anche in diversi altri componenti dell’attuale maggioranza, così come di quella precedente: perciò il rischio che si produca una deriva illiberale e antidemocratica è assolutamente reale e anzi in parte si sta già verificando.

In uno Stato democratico, invece, se il governo ritiene (come personalmente ritengo anch’io) che tutti dovrebbero vaccinarsi, allora deve prendersi la responsabilità di rendere la vaccinazione giuridicamente obbligatoria, per mezzo di una legge, che, ovviamente, dovrà essere discussa e approvata (o respinta) democraticamente in Parlamento.

Nonostante le apparenze, infatti, l’imposizione di un obbligo giuridico non è solo molto più efficace che l’imposizione di un obbligo morale, ma è anche molto più rispettoso della libertà, della dignità e della privacy delle persone. È più rispettoso della libertà perché un obbligo giuridico richiede solo l’adesione esteriore, mentre un obbligo morale richiede anche un’adesione interiore. È più rispettoso della dignità perché chi dissente da un obbligo giuridico è semplicemente uno che non è d’accordo con l’opinione della attuale maggioranza, che domani potrebbe cambiare, mentre chi dissente da un obbligo morale è per definizione una persona immorale, non solo oggi, ma anche domani e per sempre. Ed è più rispettoso della privacy perché richiede che venga controllato soltanto l’adempimento dell’obbligo in questione e non ogni singolo movimento delle persone.

Inoltre, diversamente dalla limitazione dei diritti dei cittadini prodotta dal Green Pass, l’imposizione di un trattamento sanitario obbligatorio è espressamente previsto dalla Costituzione (art. 32), con l’unico limite del «rispetto della persona umana», che non è certo violato dalla vaccinazione obbligatoria, dato che attualmente in Italia ne sono previste ben dieci (che comprendono, tra l’altro, malattie pericolosissime come la poliomielite, la difterite e il tetano, che proprio grazie all’obbligo vaccinale sono quasi completamente scomparse da tutti i paesi progrediti, senza contare il vaiolo, che da solo ha fatto più morti di tutte le guerre della storia messe insieme, mentre oggi è stato completamente eradicato dalla faccia della Terra).

Se invece il governo ritiene che ciò non sia opportuno, allora lo dica chiaramente e poi spieghi altrettanto chiaramente che il prezzo da pagare per la libertà di scelta è che il Covid resterà con noi ancora a lungo come malattia endemica “di nicchia” tra i non vaccinati, ai quali a questo punto dovrà essere concesso di vivere liberamente come tutti gli altri (perché Green Pass e stato di emergenza non possono certo essere mantenuti in eterno), con il conseguente rischio, basso, ma non trascurabile, che, continuando a circolare, sia pure “a bassa intensità”, a un certo punto il virus possa sviluppare una mutazione capace di eludere i vaccini e dare inizio a una nuova pandemia.

E con ciò giungiamo all’altro pericolosissimo equivoco giustamente segnalato da Cacciari e Agamben: quando e in base a quali criteri l’emergenza Covid verrà dichiarata conclusa? Infatti, l’altra giustificazione “ufficiale” del Green Pass è che si tratterebbe di una misura temporanea e di breve durata. Ma se il numero di persone che alla fine deciderà di vaccinarsi non dovesse essere sufficiente ad eliminare il contagio (almeno non in tempi brevi), ma solo a ridurlo, quando si riterrà che il livello di mortalità del Covid sarà divenuto tollerabile e che sarà dunque possibile conviverci senza più far uso di misure speciali, così come accade per molte altre malattie con cui conviviamo da moltissimo tempo?

Secondo logica, dato che nessuno si è mai sognato di dichiarare lo stato di emergenza a causa dell’influenza, questo momento dovrebbe arrivare quando la mortalità da Covid si sarà stabilizzata all’incirca sullo stesso livello, cioè (probabilmente) fra non molto, dato che praticamente ci siamo già arrivati. Ma purtroppo in questa sciagurata vicenda di logico c’è sempre stato ben poco e al proposito vi sono già state molte prese di posizione assai poco tranquillizzanti da parte di personaggi illustri e meno illustri.

Le più inquietanti, almeno fino ad ora, sono la dichiarazione resa il 7 agosto al TG1 delle 20 dal presidente dell’ISS Silvio Brusaferro e l’intervista rilasciata l’11 agosto a La Stampa dal direttore dell’Istituto Galeazzi, il virologo Fabrizio Pregliasco, che sono agli antipodi sulla mitica “immunità di gregge” (raggiungibile entro fine settembre per il primo, irraggiungibile per il secondo), ma concordano entrambi sulla futura necessità di “abituarsi a convivere col virus”. Tuttavia, mentre Brusaferro non specifica cosa ciò significherebbe, Pregliasco lo fa eccome: secondo lui, infatti, «possiamo raggiungere dei livelli minimi di sicurezza, ma questo ci obbligherà a continuare con il tracciamento e le altre misure» e potremo togliere le mascherine «non prima della fine del prossimo anno», il che evidentemente significa che se fosse per lui si potrebbe continuare anche dopo.

È perciò assolutamente reale e va preso molto sul serio il rischio che, di proroga in proroga, si vada avanti con lo stato di emergenza a tempo indeterminato anche con una mortalità bassissima, in nome della presunta “unicità” del Covid, che in realtà è una pura leggenda urbana, eppure ha orientato in modo tanto determinante quanto drammaticamente errato le nostre politiche di prevenzione (cfr. Paolo Musso, Quando il pandemically correct uccide). E c’è anche di peggio in agguato.

Infatti, una volta che la gente si sia abituata a considerare “inaccettabile” anche solo una decina di morti al giorno, che è meno di quanti ne faccia ogni anno l’influenza, il rischio è che, anziché cominciare a considerare il Covid come l’influenza, si cominci a considerare l’influenza (e magari anche altre malattie a basso rischio) come il Covid, col risultato di vivere in un perenne stato di emergenza, sacrificando così, in nome della “nuda vita”, cioè della pura sopravvivenza biologica (che in ogni caso è destinata prima o poi a finire), tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta, come giustamente denuncia da tempo Giorgio Agamben.

Se qualcuno pensasse che sia un’esagerazione, faccio presente che qualche settimana fa a Superquark un personaggio di cui non ricordo il nome ha detto testualmente che «della mascherina non potremo più fare a meno, perché dovremo usarla per proteggere gli altri ogni volta che avremo l’influenza». E sappiamo tutti perfettamente che Piero Angela, nonostante i suoi 92 anni, è ancora il deus ex machina incontrastato della divulgazione scientifica italiana. Di conseguenza, se una certa parola d’ordine inizia a girare nelle sue trasmissioni c’è una probabilità niente affatto trascurabile che ben presto si trasformi in una campagna mediatica in grande stile.

Vi sembra ancora un’esagerazione? E allora sappiate che nell’intervista prima citata Pregliasco continuava affermando che anche dopo la fine del Covid «sarebbe auspicabile che [le mascherine] si continuassero a tenere nei luoghi di lavoro o in caso di sintomi da malattie respiratorie come l’influenza o il raffreddore». Sì, avete letto bene: mascherine obbligatorie per il raffreddore! Uno scenario da incubo, che però, evidentemente, a lui non sembra affatto tale.

Ora, di fronte ad affermazioni del genere è davvero difficile, anche per un convinto anticomplottista come me, non sentirsi spinto a pensar male. Non sto dicendo, sia chiaro, che ci sia un “piano” costruito a tavolino per prolungare artificialmente l’epidemia (cosa a cui non credo nel modo più assoluto), ma solo che non tutti sembrano così ansiosi di voltar pagina al più presto, come sarebbe logico aspettarsi. E ciò induce a pensare che ci sia davvero qualcuno, non solo tra i politici, ma anche tra gli scienziati, che vede questa situazione non solo come un problema, ma anche come un’opportunità per “rieducare” (ovviamente per il loro bene!) gli “indisciplinati” cittadini italiani.

Non sono quindi Cacciari e Agamben ad avere le allucinazioni quando denunciano il rischio di un progressivo slittamento verso un vero e proprio “regime di controllo” a base sanitaria, certamente ancora democratico nella forma (non è questo che è in discussione), ma sempre più autoritario nella sostanza: ad averle, semmai, sono quelli che non vedono (o non vogliono vedere) i chiarissimi indizi del suo incombere.

Il fatto che provvedimenti analoghi siano stati adottati anche in altri paesi, primo fra tutti la Francia, lungi dal legittimare ciò che sta accadendo da noi, lo rende anzi ancor più preoccupante, perché dimostra che questa tentazione autoritaria rappresenta un problema culturale che investe ormai tutto l’Occidente; e non riguarda soltanto la destra, ma anche e anzi ancor più la sinistra e perfino il centro (cfr. ancora Paolo Musso, Il virus dell’autoritarismo, e Marco del Giudice, Dove va il politicamente corretto? Uno sguardo dagli USA).

Per scongiurare un tale pericolo occorre un cambiamento culturale profondo, perché profonde e antiche sono le sue radici, come cercherò di spiegare in un prossimo articolo. Tuttavia, la cosa in assoluto più importante ed urgente è tornare a dire le cose come stanno, senza più trucchetti, furberie e retropensieri assortiti. Come dice il Vangelo (Mt 5, 37): «Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più (Green Pass compreso) viene dal Maligno».




Verso la terza dose?

Nell’estate scorsa, in Italia, il Covid pareva quasi sconfitto. Conte faceva il pavone, il ministro Speranza scriveva il suo libro autocelebrativo (Perché guariremo), Zangrillo assicurava che il virus era “clinicamente morto”. Si è visto poi, appena riaperte le scuole, che quella estiva era stata solo una tregua, e il virus era tutt’altro che morto.

E oggi?

Oggi le cose sono profondamente cambiate, non solo in Italia. La variante delta, 2-3 volte più contagiosa del virus originario, ha reso la lotta alla pandemia molto più difficile. Nello stesso tempo, fortunatamente, la campagna di vaccinazione l’ha resa più facile.

Ma qual è il saldo finale?

Sfortunatamente è negativo: nella maggior parte dei paesi, la variante delta si rivela più forte del vaccino. Non già nel senso che il vaccino non funzioni contro di essa, ma nel senso che non basta. E’ un timore che avevo espresso diversi mesi fa, ma oggi quel timore è purtroppo divenuto una certezza: a dispetto del vaccino, i contagi, le ospedalizzazioni e i decessi di questa estate sono maggiori di quelli dell’estate scorsa non solo in Italia ma nella maggior parte delle società avanzate, con poche eccezioni. In breve: ci apprestiamo ad archiviare le vacanze estive in condizioni peggiori di quelle dell’anno scorso.

Come è stato possibile? Perché la vaccinazione di massa non è stata sufficiente a far arretrare l’epidemia?

Se diamo un’occhiata alla mappa del contagio nelle società avanzate, non è difficile rendersi conto che, in questa estate almeno, un fattore cruciale è stata la vocazione turistica di ogni paese. In questo momento l’epidemia galoppa nei paesi ad alto impatto turistico, come Spagna, Francia, Italia, Grecia, Croazia, mentre è ai minimi, talora addirittura al di sotto dei livelli dell’estate scorsa, nella maggior parte dei paesi (relativamente) meno attrattivi: non solo i paesi ex comunisti come Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, ma anche i paesi scandinavi e dell’area germanica. Si conferma così una verità difficile da digerire, specie per un paese come il nostro: il turismo internazionale è un potente moltiplicatore della circolazione del virus.

Se guardiamo più attentamente le cose, però, non possiamo non notare alcune anomalie, talora piccole, altre volte macroscopiche. C’è il caso dell’Islanda, che ha vaccinato quasi tutti e ciononostante è alle prese con un’esplosione del contagio. Anche in questo caso la spiegazione, verosimilmente, è l’apertura al turismo: l’epidemia è esplosa solo quando (fine giugno), per sfruttare la stagione turistica, il paese ha deciso di abolire tutte le misure di distanziamento e di autoprotezione, fidando esclusivamente nella vaccinazione: nel giro di pochissime settimane i casi sono passati da meno di 10 al giorno a più di 300, ossia 1 ogni mille abitanti (è come se noi ne avessimo 60 mila al giorno).

Ma ci sono anche tre anomalie macroscopiche: Israele, Regno Unito, Stati Uniti. Questi tre paesi sono stati i pionieri delle vaccinazioni, ma sono tutti e tre in grave difficoltà. Come mai?

La risposta che si sta facendo strada è: forse sono nei guai proprio perché sono partiti prima con le vaccinazioni. Il sospetto si è consolidato nelle ultime settimane quando diversi studi hanno mostrato che le persone vaccinate più precocemente (diciamo tra dicembre 2020 e febbraio-marzo 2021) presentavano un rischio di infezione sensibilmente più alto delle persone vaccinate più tardi. Questa osservazione, accoppiata con la scoperta di una rapida diminuzione degli anticorpi dopo il quarto mese dalla seconda dose, ha portato alla ribalta l’idea di procedere subito (fin da settembre) alla somministrazione di una terza dose di vaccino non solo ai soggetti più fragili o immunodepressi, ma anche a tutti gli altri, o perlomeno agli anziani.

E’ fondata l’ipotesi che sia opportuna una terza dose? E soprattutto: a partire da quando? E con quale vaccino?

La risposta spetta prevalentemente alle autorità sanitarie, che finora appaiono dubbiose e divise. E, stranamente, non hanno ancora risposto a una domanda fondamentale: come mai è evaporata la promessa di produrre vaccini a mRNA “riprogrammabili”, ossia rapidamente adattabili alle varianti che via via emergono? (a quel che si sa, solo ora Pfizer e Moderna stanno provando a sviluppare vaccini mirati sulla variante delta).

Quel che posso dire, come statistico, è solo che le evidenze empiriche provenienti dagli studi condotti in Israele, Regno Unito e Stati Uniti sono decisamente convincenti sul fatto che la protezione dal rischio di infettarsi diminuisca rapidamente (e non di poco) a partire da 4-5 mesi dalla seconda dose, ma sono ancora incerte per quanto riguarda l’entità precisa di tale diminuzione. Troppi, infatti, sono i fattori che possono distorcere le stime quando si lavora con dati osservativi (anziché sperimentali, come negli studi clinici randomizzati). I soggetti vaccinati per primi, ad esempio, sono diversi da quelli vaccinati successivamente non solo per le loro condizioni di salute e di esposizione al rischio, ma anche per il tipo di variante con cui hanno dovuto fare i conti (a gennaio dominava la alpha, da giugno domina la delta). Se non si vuole incorrere in clamorosi fraintendimenti dei dati (come è capitato di recente all’ingenuo Cacciari), occorre leggere con estrema cautela le stime sul crollo di efficacia dei vaccini dopo il quarto mese, e distinguere accuratamente l’efficacia rispetto all’infezione, il cui deterioramento è più marcato, e l’efficacia rispetto a malattia grave, ospedalizzazione e decesso, il cui deterioramento – fortunatamente – è molto meno ampio.

Quel che è certo, invece, è che la percentuale di copertura vaccinale (vaccinati con seconda dose rispetto alla popolazione vaccinabile), statistica spesso usata per dire quanto un paese è protetto, sta diventando una misura sempre più fuorviante. Un paese può aver vaccinato l’85% della sua popolazione vaccinabile (che sembra un’ottima percentuale), ma può essere gravemente scoperto perché la popolazione non vaccinabile è molto ampia, o perché troppi vaccinati stanno perdendo la protezione del vaccino, o per entrambi i motivi (è il caso di Israele, paese giovane, e che ha iniziato a vaccinare prima di altri). In altre parole: il tasso di protezione di un paese non è dato dalla quota di popolazione vaccinabile raggiunta con la seconda dose, ma dalla quota di popolazione totale (vaccinabile e non) che non solo è stata doppiamente vaccinata, ma non ha ancora gravemente compromesso il proprio grado di protezione.

Da questo punto di vista l’Italia è, per ora, in una posizione di vantaggio rispetto ad altri paesi: abbiamo pochissimi giovani, e abbiamo pochi vaccinati precoci (potremmo, ironicamente, chiamarlo “paradosso Arcuri”). E’ probabilmente questa la ragione per cui, rispetto agli altri paesi ad alto turismo, l’Italia ha oggi una situazione un po’ meno compromessa.

Quindi la domanda diventa: vogliamo metterci rapidamente in condizione di mantenere e accrescere il nostro grado di protezione, o preferiamo cullarci nell’illusione che i vaccini mantengano a lungo la loro efficacia?

Nel primo caso, la strada è inevitabilmente quella di iniziare molto presto a somministrare terze dosi, come già stanno facendo o si apprestano a fare Israele, Regno Unito, Stati Uniti, Germania, Francia e vari altri paesi. Nel secondo caso la strada è quella su cui si sta orientando in questi giorni il Governo: somministrare le terze dosi solo ad una piccola parte della popolazione e, per gli altri, stabilire per legge che l’efficacia del vaccino dura 12 mesi (anziché 9 come si credeva, o 6 come suggeriscono le analisi più recenti).

Temo che, come quasi sempre abbiamo fatto in passato, anche questa volta troveremo più comodo cambiare le soglie di pericolo, piuttosto che limitare in modo effettivo i pericoli: cambiare la scadenza del Green Pass è più facile, e forse più popolare, che organizzare una campagna di rivaccinazione di massa.

 

Pubblicato su Il Messaggero del 28 agosto 2021