“Il Governo sbaglia. Così fa abbassare la guardia ai vaccinati”. Intervista a Luca Ricolfi

Professor Luca Ricolfi, in un intervento su Repubblica la settimana scorsa ha detto chiaramente che il vaccino serve, ma da solo non basta. Lo ha sostenuto prima che venissero diffusi i primi studi in pre-print da parte delle autorità sanitarie sudafricane sull’andamento della variante Omicron, che confermerebbero una maggiore velocità di contagio. È ancora più preoccupato rispetto a 7 giorni fa?

Sì, perché seguo l’andamento dell’epidemia in Africa, e lì emerge una cosa terrificante: nei paesi in cui la variante Omicron ha già preso piede, il valore di Rt, che è già molto pericoloso quando raggiunge 1,4 o 1,5, sta viaggiando a valori vicini a 2 o 3. Un valore di Rt pari a 3 significa triplicazione dei casi in meno di una settimana, decuplicazione in 2 settimane, centuplicazione in un mese. Ma anche un valore di Rt pari a 2 non scherza: significa decuplicazione dei casi in 3 settimane. Per quel poco che si riesce a ricavare dai database dei sequenziamenti, Omicron è già piuttosto diffusa in Spagna e Francia, dove infatti Rt galoppa vicino a 1,5.

E in Italia?

In Italia ci vien detto che abbiamo poche decine di casi, ma ovviamente dipende dai pochi sequenziamenti. Secondo le ultime rilevazioni, il peso di Omicron è dell’1%, il che, su 500mila tamponi, fa 5mila casi.

La velocità di propagazione di Omicron però non è tutto. I virologi insegnano che la funzione principale dei vaccini è quella di proteggerci dalle ospedalizzazioni. Tutto sommato infettarsi e avere sintomi nulli o lievi non è un problema. Non crede?

Sì, a certe condizioni. Tutto dipende da due parametri, che nessuno conosce con precisione. Il primo è l’impatto della variante Omicron sul numero dei casi, il secondo è l’efficacia dei vaccini su di essa. Può darsi che i vaccini siano altrettanto efficaci che sulla Delta, e persino che la Omicron dia sintomi meno severi. Ma che succede se, a causa della sua facilità di trasmissione, il numero di infetti decuplica? Attualmente abbiamo 800 ricoverati in terapia intensiva, 8000 non potremmo in nessun modo sostenerli.

Quindi secondo lei non siamo ancora fuori dalla pandemia ma anzi dobbiamo continuare a stare attenti. Il Governo quindi sta sbagliando a lanciare un messaggio ottimista?

È un errore madornale. Oggi è difficile stabilire se siano più pericolosi i non vaccinati o i vaccinati. I non vaccinati contagiano di più e si ammalano di più, ma hanno il vantaggio di essere pochi. I vaccinati contagiano di meno, ma sono tanti (circa il triplo dei non vaccinati), e non di rado si credono invulnerabili. Il messaggio “sei stato bravo, hai avuto senso civico, ti premio lasciandoti fare quasi tutto quel che vuoi” sta determinando effetti catastrofici. La gente abbassa la guardia proprio perché è vaccinata. E fa malissimo, perché – stanti i ritardi del Governo nella campagna per la terza dose – la maggior parte dei vaccinati è ben poco protetta rispetto al rischio di infezione. Il dato cruciale di questa fase è l’illusione vaccinale, alimentata dalle autorità politiche e sanitarie: è da giugno che sappiamo che la copertura rispetto all’infezione dura solo 4-5 mesi, eppure il green pass ne dura ancora 12, e ne durerà ancora 9 dopo il 15 dicembre (nel frattempo, paradosso dei paradossi, i soggetti positivi possono girare con un green pass valido, perché al Ministero non hanno ancora trovato un modo di bloccarne la validità). È difficile dare dei numeri incontrovertibili ma, da stime che ho effettuato su dati americani, a me risulta che almeno metà dei contagi sono dovuti a interazioni vaccinato-vaccinato. Vaccinare va benissimo, ma pensare che basti significa non aver capito come funziona questa epidemia.

Lei dice che vaccinare è condizione necessaria, ma non sufficiente. Quali sono le ulteriori misure che dovrebbero essere prese per passare dal necessario al sufficiente?

Una misura ovvia, incredibilmente messa da parte, è il tracciamento elettronico, ovviamente con una App meno problematica di Immuni. Ma la via maestra è il controllo della qualità dell’aria.

Con quali strumenti?

Con i sensori della CO2 (anidride carbonica), i filtri di purificazione dell’aria e, ancor meglio, con la Ventilazione meccanica controllata (Vmc). Tutte soluzioni fin qui completamente ignorate, non saprei dire perché. Forse perché hanno un costo economico ed organizzativo non indifferente. Forse semplicemente perché, incredibilmente, ingegneri, chimici, fisici e statistici (il mio mestiere) sono stati esclusi dalla gestione dell’epidemia. I nostri modelli matematici dicevano chiaramente che, senza misure specifiche di contenimento, la stagione fredda e il passaggio alla vita al chiuso avrebbero triplicato o quadruplicato il numero dei casi, facendo così saltare il tracciamento.

La ventilazione dei luoghi chiusi è misura che esplicherà gli effetti nel medio periodo. A breve invece, in vista dell’inverno, che fare?

Nel breve periodo non si può fare quasi nulla, salvo mandare segnali di prudenza chiari, o con degli spot o con un messaggio del Presidente del Consiglio a reti unificate. Ad esempio dicendo che le interazioni negli ambienti chiusi sono molto pericolose anche per i vaccinati, e che sui mezzi pubblici tutti devono vigilare sull’uso delle mascherine. Possibilmente FFP2, e mai con il naso scoperto. Senso civico non è solo vaccinarsi, ma anche invitare gli altri al rispetto delle regole.

Il Governo però mi sembra andare in altra direzione, punta tutto sui vaccini. Punta ad allargare ancora la platea dei vaccinati nonché arrivare nel più breve tempo possibile a estendere la terza dose a tutti quelli che ne hanno diritto ovvero chi ha scavallato i 5 mesi dalla seconda iniezione. Neanche la terza dose ci basta per proteggerci?

Io spero che basti, almeno per qualche mese. Ma c’è un indizio che suggerisce che potrebbe non bastare.

Quale indizio?

L’andamento dell’epidemia in Israele, il paese che ha vaccinato di più ed è più avanti con la terza dose. Il 22 novembre in Israele il valore di Rt ha attraversato la soglia critica di 1, e da allora è sempre rimasto al di sopra. Ora è intorno a 1,2, più o meno come qui da noi in Italia. Può anche darsi che Israele sia semplicemente vittima della sua demografia, ossia dell’altissimo numero di bambini, ragazzi e giovani, vaccinabili e non vaccinabili. Tuttavia non possiamo escludere una eventualità più inquietante: e cioè che, con la variante Omicron, anche una vaccinazione (quasi) totale non sia sufficiente a fermare la diffusione del contagio. Ma la difficoltà di Israele di riportare sotto controllo l’epidemia non è l’unica fonte di preoccupazione. Prendiamo il Portogallo, la Spagna, e gli altri 4-5 paesi che hanno vaccinato quasi tutti. Come mai, nonostante il successo della campagna vaccinale, anche in essi il valore di Rt è abbondantemente sopra 1? La mia risposta è che, pur dando un apporto modesto all’occupazione degli ospedali, i vaccinati stanno contribuendo a riaccendere l’epidemia. E le misure premiali nei loro confronti, come il Green Pass e il Super Green Pass, non fanno che gettare benzina sul fuoco.

Non crede che le sue preoccupazioni possano essere strumentalizzate dalla ridotta dei No Vax?

Ma certo, tutto quel che si dice può essere strumentalizzato, anche l’informazione ufficiale viene regolarmente deformata, manipolata e ritorta contro la campagna vaccinale. I casi aumentano? È la dimostrazione che il green pass non funziona. Un terzo dei ricoverati in terapia intensiva sono vaccinati? È la dimostrazione che vaccinarsi non serve. La copertura anticorpale dei vaccini svanisce dopo 6 mesi? Dunque il vaccino non funziona. Perciò io capovolgo la domanda: dobbiamo nascondere i dati della situazione solo perché No Vax e Ni Vax possono usare quei dati a modo loro? Non è meglio dire tutta la verità, in modo da essere più attrezzati conto il virus? A me sembra che i governanti abbiano scelto un’altra strada. Sapendo che non ce la faranno a mantenere la promessa di tenere tutto aperto (“il green pass è libertà”), stanno costruendo il capro espiatorio perfetto per quando dovranno arrendersi di fronte al dilagare dell’epidemia. È un brutto clima quello che sta montando in Italia. Chi è scettico sul vaccino si sente vittima di sopraffazioni varie. E chi crede nel vaccino tende a scaricare sui soli non vaccinati la responsabilità di una situazione che, in realtà, dipende anche dai comportamenti dei vaccinati e dalle omissioni dei governi.

Dei No Vax lei sostiene che siano ormai considerati come perfetto capro espiatorio di tutti i mali. Però come si può dare credibilità a chi si paragona a Gesù o a chi come Giorgio Agamben o Massimo Cacciari, filosofi di grande spessore, si lascia andare a similitudini con gli anni del nazismo e del controllo totalitario sulle masse? Che credibilità possono avere?

Su questo vorrei essere chiarissimo. I paragoni con il nazismo, anche se formulati in modo metaforico o paradossale, sono inaccettabili, se non altro perché offendono le vittime dei veri regimi dittatoriali. Certe analisi statistiche, secondo cui i vaccinati si contagerebbero di più dei non vaccinati, sono semplicemente ridicole, come ampiamente dimostrato dagli esperti. E mi spingo oltre: già molti mesi fa, quando ancora scrivevo sul Messaggero, avevo sostenuto che parlare di discriminazione è un abuso di terminologia. Quello che io mi rifiuto di accettare, però, è che un argomento debba essere squalificato solo perché usato, o usabile, da parte dei No Vax. È un non-sequitur, un errore logico, come nella storiella del paziente psichiatrico che dice “il fatto che io sia paranoico non implica che io non sia perseguitato”. Ineccepibile! Il fatto che un argomento sia usato da un No Vax non implica che sia infondato.

Ma quali sarebbero gli argomenti No Vax fondati?

Intanto, mi sembra doveroso fare una precisazione: No Vax è un’etichetta di comodo, per dire non allineati al racconto ufficiale. Molte critiche al green pass e alla campagna vaccinale vengono da persone plurivaccinate. Ma non voglio eludere la domanda, e le dico quali sono, secondo me, le obiezioni sostenibili. Non dico necessariamente giuste, ma di cui ha perfettamente senso discutere senza demonizzarle.

  1. Il vaccino è stato testato nello spazio (miliardi di persone) ma non nel tempo (meno di 12 mesi).
  2. I dati sul rapporto rischi-benefici, specie per la fascia 5-11 anni, sono pochi, e insufficienti a dissolvere ogni dubbio e a prendere una decisione razionale.
  3. Il contributo dei vaccinati alla diffusione del virus è sottovalutato dalle autorità sanitarie e dai grandi media.
  4. È stato un errore puntare tutte le carte sulla campagna vaccinale, trascurando misure di contenimento su trasporti, scuole, ambienti chiusi in generale.
  5. Se avessimo usato massicciamente queste ultime armi, le restrizioni alla nostra liberà avrebbero potuto essere molto minori.

Soprattutto questa ultima considerazione mi pare degna di attenzione, se non altro perché presto potremmo accorgerci che tutto quel che non si è fatto in questi due anni dovremo comunque farlo d’ora in poi, se non vogliamo farci travolgere dal virus.

Lei mette in rilievo un dato incontrovertibile: in questi due anni abbiamo consapevolmente rinunciato a parte della nostra libertà. Affermazione oggettiva. Ma non è anche vero che la nostra libertà finisce dove comincia quella degli altri? Non considera un gesto di libertà vaccinarsi per contagiare un po’ meno gli altri o quanto meno per evitare che gli ospedali si riempiano e siano costretti a rinviare le ospedalizzazioni per altre malattie diverse dal Covid?

Sì, perfettamente d’accordo, vaccinarsi è fondamentalmente un gesto altruistico, per lo meno se compiuto da maggiorenni. Ma, per le persone razionali, il punto non è se aderire alla campagna vaccinale oppure no, se accettare restrizioni alla libertà oppure no. Il punto è se il quantum di illibertà che ci viene imposto sia eccessivo, ragionevole, o insufficiente. E su questo mi pare che siano soprattutto le posizioni politiche a fare la differenza.

In che senso? Chi si è mosso più saggiamente e chi meno nella gestione dell’epidemia?

Se lasciamo perdere i primi mesi della pandemia, in cui tutti hanno oscillato fra i due estremi “chiudiamo tutto” e “apriamo tutto”, la destra (più Italia Viva) è sempre stata più aperturista, e la sinistra più chiusurista. Alla luce di come sono andate le cose, mi pare chiaro che le posizioni anti-restrizioni della destra siano state incaute, e lo siano tuttora. Ma questo è solo un pezzo del discorso. Se guardiamo le cose in un orizzonte temporale più lungo, occorre riconoscere che la querelle sul quantum di apertura-chiusura non assolve nessuno: se avessimo aperto di più, come voleva la destra, le cose sarebbero andate ancora peggio, se avessimo chiuso ancora di più, come volevano i falchi del lockdown, non ne saremmo comunque usciti. Perché, a destra come a sinistra, è quasi sempre mancata la volontà di mettere in campo tutte le armi contro il virus, a partire da quelle più costose o più complicate: tamponi, tracciamento elettronico, messa in sicurezza degli ambienti chiusi, rafforzamento del trasporto locale, controlli capillari su treni, metropolitane e bus.

Non salva proprio nessuna forza politica?

Direi proprio di no. Ma la cosa che più mi colpisce è l’incoerenza di alcune posizioni. Prendiamo il duo Speranza-Ricciardi, o il Comitato tecnico scientifico, sempre schierati su posizioni di massima prudenza: perché non hanno mai fatto una battaglia per le misure alternative alle restrizioni, a partire dalla messa in sicurezza delle scuole? Ma un discorso simmetrico e speculare si potrebbe fare su Fratelli d’Italia, l’unica forza politica che quelle misure ha sempre e giustamente invocato: se erano consapevoli della gravità della situazione, e dell’insufficienza della campagna di vaccinazione, perché ogni volta che si è presentata l’alternativa aprire-chiudere si sono sempre schierati per l’aprire, contro le restrizioni?

Eppure dovrebbe essere chiaro a tutti: nel breve periodo le misure complesse non sono mai un’alternativa, perché la loro implementazione richiede mesi e mesi. Una forza politica responsabile dovrebbe accettare le misure restrittive quando non ne esistono altre immediatamente implementabili, e al tempo stesso pretendere il varo immediato di misure alternative, che daranno i loro frutti più avanti nel tempo.

Ultima domanda sullo stato dell’informazione in pandemia. Che ne pensa della tesi provocatoria dell’ex premier Mario Monti che ha invocato una “comunicazione di guerra” ovvero un filtro alle notizie da divulgare?

In un certo senso la penso all’opposto. A mio parere i maggiori media hanno già messo in atto una comunicazione di guerra. Il tratto distintivo fondamentale della comunicazione di guerra è che gli oppositori sono trattati come disertori. Ed io proprio questo ho visto, in innumerevoli occasioni: quando, per poter esprimere una sia pur minima critica alla linea ufficiale vaccinista, ci si sente obbligati a premettere che si è vaccinati e plurivaccinati, è già il segno che il dibattito non è libero, e che i dissidenti saranno trattati da disertori. Se devo fare un rimprovero all’informazione è di aver quasi sempre fatto rappresentare le posizioni critiche solo da macchiette ridicole, e non da studiosi seri. E soprattutto di avere idolatrato i virologi-infettivologi-immunologi-microbiologi, chiamati a pontificare su tutto, compresi molti argomenti su cui sarebbe stato molto più logico – e utile – interpellare ingegneri, fisici e statistici. Su una cosa, però, sono invece d’accordo con Monti, sempre che io abbia ben inteso il suo pensiero. Quel che è mancato quasi completamente in Italia è una informazione ufficiale autorevole e coerente, come ad esempio quella di Anthony Fauci negli Stati Uniti. Se ci fosse stata, non avremmo assistito inebetiti al festival dei virologi in tv, e non saremmo stati sommersi dai dubbi che hanno tormentato, e ancora tormentano, le nostre povere menti di cittadini senza potere e senza verità.

Intervista rilasciata a The Huffington Post, 13 dicembre 2021




Dal Green Pass alla Green Economy, tutti i disastri del nuovo “modello Italia”

Che Disperazione (vero nome del purtroppo-ministro Speranza) continui ad elogiare il demenziale sistema del Green Pass fa arrabbiare, ma non stupisce: dopotutto, egli non solo ne è il principale artefice, ma è anche quel tale che l’anno scorso, giusto di questi tempi, stava facendo ritirare da tutte le librerie d’Italia, in tutta fretta e cercando di non dare troppo nell’occhio, il libro autocelebrativo che aveva scritto durante l’estate invece di preoccuparsi di prevenire la prevedibilissima ripresa dell’epidemia, che proprio in quegli stessi giorni aveva ripreso a diffondersi esponenzialmente.

Che però anche un ministro tedesco lo elogi, come è accaduto pochi giorni fa, dicendo testualmente che «dall’Italia abbiamo molto da imparare», non solo stupisce, ma preoccupa molto. Non c’è dubbio, infatti, che in Italia la situazione quest’anno sia nettamente migliore non solo rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, ma anche a molti altri paesi europei (benché non a tutti). Tuttavia, ciò è dovuto assai più ai demeriti altrui che ai meriti nostri, dato che molti paesi europei, soprattutto dell’Est, che avevano fatto molto meglio di noi nella fase pre-vaccinale, hanno fin qui vaccinato pochissimo, mentre altri che stavano procedendo bene negli ultimi mesi hanno enormemente (i dati seguenti sono tutti tratti da Our World in Data, https://ourworldindata.org/).

Paradigmatico è il caso di Israele e Gran Bretagna, che dopo essere stati per lungo tempo in testa alla classifica, con un netto vantaggio su di noi, hanno poi frenato così bruscamente che mentre scrivo, cioè al 6 dicembre 2021, hanno rispettivamente il 62,2% e il 68,2% di completamente vaccinati contro il nostro 73,2% (la discrepanza dal dato ufficiale dell’85% si spiega col fatto che il governo, furbescamente, per alzare la percentuale si riferisce alla sola popolazione vaccinabile, non comprendente i minori di 12 anni: peccato solo che per il virus il motivo per cui uno non è vaccinato sia irrilevante).

E ancor peggio stanno facendo gli Stati Uniti, che sono attualmente appena al 59,5% nonostante fossero al 50,2% già a inizio agosto, il che significa che in oltre 4 mesi sono avanzati appena di un misero 9,3%. L’avesse fatto il “cattivone” Trump, ce lo ritroveremmo nei titoli di tutti i giornali e le televisioni un giorno sì e l’altro pure. Siccome invece l’ha fatto Biden, che è “buono” per definizione, nessuno dice nulla. Così funziona il nostro mondo…

Eppure, anche così non siamo affatto i migliori dell’Occidente, dove ben 7 paesi ci precedono: Portogallo (87,8%), Malta (83,9%), Islanda (81,9%), Spagna (80,5%), Danimarca (76,9%), Canada (76,5%) e Irlanda (73,3%). E ancor meno confortante ci apparirebbe poi la situazione se guardassimo anche al di fuori dei rassicuranti confini euro-atlantici in cui in genere ci piace rinchiuderci, supponendo, tanto spocchiosamente quanto infondatamente, che questo sia l’unico termine di paragone degno di noi.

Scopriremmo allora, con sorpresa mista a vergogna e (si spera) a qualche domanda, che al 6 dicembre 2021 l’Europa (58,7%) ha vaccinato addirittura meno del Sudamerica (59,7%) e che l’Italia, in particolare, ha meno vaccinati di Cile (84,4%), Cuba (82%) e Uruguay (76,3%) pur avendo un sistema sanitario di gran lunga migliore e, più in generale, essendo un paese molto più avanzato praticamente sotto ogni aspetto. E nel resto del mondo ci stanno davanti anche gli Emirati Arabi (88,4%), la Cina (74,5%) e perfino la Cambogia (79,1%), anche se il suo dato non è troppo affidabile, ma resta comunque piuttosto imbarazzante.

E ancor più imbarazzante è il paragone con i paesi virtuosi del Pacifico, che all’inizio, data la loro invidiabile situazione, se l’erano presa un po’ troppo comoda e per mesi erano rimasti nettamente alle nostre spalle. Ciononostante, a parte Taiwan, che è ancora un po’ indietro (59,4%), ma sta rimontando a ritmo vertiginoso (+22,5% nell’ultimo mese), gli altri sono ormai tutti giunti più o meno ai nostri stessi livelli di immunizzazione o perfino oltre (Singapore 91,9%, Corea del Sud 80,7%, Giappone 77,5%, Australia 73,9%, Nuova Zelanda 72,2%) pur avendo cominciato a fare sul serio solo da inizio giugno. In altre parole, hanno fatto in 6 mesi quello che noi abbiamo fatto in 11.

Insomma, c’è davvero poco di cui menar vanto e, men che meno, dar lezioni agli altri. E ancor peggio vanno le cose se consideriamo l’andamento globale dell’epidemia (che poi, alla fine, è l’unica cosa che conta).

Per il confronto con gli altri paesi avanzati dell’emisfero nord rimando all’analisi pubblicata da Luca Ricolfi su La Repubblica del 6 dicembre e disponibile anche su questo sito (Luca Ricolfi, Vaccinare non basta), che mostra come su 26 paesi considerati attualmente ci posizioniamo esattamente a metà classifica.

Qui invece voglio sottolineare il confronto con i paesi del Pacifico, che continua ad essere devastante, nonostante essi abbiano tutti pagato (ma la Nuova Zelanda, ancora una volta, meno di tutti) il ritardato inizio della campagna vaccinale con un numero di morti per loro inconsuetamente alto (benché sempre enormemente inferiore al nostro). Al 6 dicembre 2021, infatti, l’Italia aveva 2.227 morti per milione di abitanti (mpm), ovvero 253 volte più della Nuova Zelanda (8,8) e da 61 a 15 volte più di Taiwan (36), Corea del Sud (77), Australia (80), Singapore (130) e Giappone (146).

E si noti che il Giappone, che ha il risultato peggiore, avendo pasticciato più di tutti nella prima fase della campagna vaccinale (cfr. Silvia Milone, Il Giappone dal successo dei “cluster” al caos olimpico), attualmente ha quasi azzerato l’epidemia, con appena 5.332 contagi e 103 morti (cioè 42 contagi e 0,8 morti per milione di abitanti) dall’inizio di novembre a oggi, 6 dicembre 2021.

Questo certamente dipende dal fatto che, data la rapidità della somministrazione, lì i vaccini non hanno ancora iniziato a perdere di efficacia, ma smentisce anche la tesi che l’immunità di gregge sia irraggiungibile in senso assoluto: alla velocità a cui siamo andati noi certamente non lo è, ma andando appena un po’ più veloci del Giappone ci si potrebbe riuscire. Il problema è che le terze dosi finora sono finora andate non più velocemente, bensì più lentamente, principalmente perché il governo ancora una volta ha cantato vittoria troppo presto, smantellando prematuramente molte delle strutture con tanta fatica allestite per la campagna vaccinale, considerandola evidentemente già in fase terminale.

Se poi guardiamo al Sudamerica, dove la maggior parte dei paesi continua ad avere un numero globale di mpm pari o addirittura inferiore al nostro, c’è davvero da preoccuparsi, tanto più che le cose non migliorano neppure se ci limitiamo alla situazione più recente. Per esempio, per restare ai paesi sopra menzionati, dal 1° novembre ad oggi, a fronte dei nostri 35,3 mpm, Cuba ne ha avuti appena 7 e l’Uruguay 15,7, mentre solo il Cile sta leggermente peggio con 39,1 (e ricordiamoci che il Cile paga il fatto di aver usato molto il pessimo vaccino cinese, soprattutto all’inizio, quindi proprio per la fascia di popolazione più a rischio). Perfino il Perù (che uso sempre come termine di paragone privilegiato, dato che lo conosco benissimo e posso avere notizie di prima mano) ha avuto nell’ultimo mese 34,6 mpm, cioè un pelo meno di noi, nonostante la cronica inefficienza del sistema sanitario, lo stato di paralisi totale in cui versa da tempo il governo e il fatto che i vaccinati siano solo il 56,6%.

È vero che lì stanno andando verso l’estate mentre noi verso l’inverno, il che, come ormai sappiamo, fa una notevole differenza, ma in ogni caso il paragone resta imbarazzante. D’altronde, perfino la OMS ha finalmente ammesso che oggi l’epicentro della pandemia è l’Europa (come in realtà è sempre stata): il problema è perché, visto che in teoria siamo quelli meglio attrezzati di tutti per fronteggiarla.

Una prima risposta è che purtroppo i paesi europei, con l’Italia in testa, tanto per (non) cambiare, hanno puntato esclusivamente sui vaccini, mantenendo per il resto le solite misure preventive che fin qui hanno miseramente fallito, comprese quelle che la scienza (su cui i nostri governi dicono sempre di basarsi, ma che in realtà hanno sempre ignorato) ha da tempo dimostrato essere sostanzialmente inutili e che rappresentano quindi dei veri e propri casi di pseudoscienza istituzionale. Anzitutto, la disinfezione di mani e superfici, con addirittura, in qualche caso, un ritorno all’uso dei guanti, benché sia ormai accertato che i contagi per contatto sono estremamente rari. Poi l’obbligo di mascherina all’aperto, che è sempre la prima cosa che si fa appena i contagi risalgono (come anche ora), benché sia ormai accertato che i contagi avvengono quasi tutti al chiuso (e proprio per questo aumentano in inverno). Infine, gli pseudo-lockdown con chiusure selettive, che colpiscono sempre le attività a minore rischio di contagio e, di conseguenza, causano regolarmente più danni che benefici.

In compenso, nessuno si è ancora degnato di considerare misure alternative più efficaci, a cominciare dalle due citate da Ricolfi nel già menzionato su Repubblica: gli impianti di filtraggio dell’aria e il tracciamento elettronico dei contagi. Il risultato è che l’unico modo di depurare l’aria nei luoghi chiusi continua ad essere quello di aprire le finestre, come se fossimo un paese del Terzo Mondo e non uno dei più ricchi e progrediti del pianeta. Quanto al tracciamento dei contagi, la cosa più incredibile non è neanche che nessuno in Europa lo stia facendo seriamente (a cominciare dall’Italia, dove la mitica App Immuni è svanita nel nulla dopo aver prodotto il nulla), ma che i nostri governanti abbiano l’impudenza di ripeterci che bisogna continuare a farlo, quando non si è mai neanche cominciato.

Venendo ai vaccini, sicuramente pesa la loro perdita di efficacia nel tempo, che penalizza di più chi ha incominciato più presto, cioè proprio l’Europa e gli Stati Uniti, tuttavia questa spiegazione non basta. In primo luogo, infatti, i vaccini continuano fortunatamente a proteggerci con buona efficacia dalle conseguenze gravi, per cui il loro indebolimento influisce poco sul numero dei morti. In secondo luogo, bisogna considerare (cosa che invece non si fa quasi mai) che il rischio di contagiarsi per chi è vaccinato non dipende solo dall’efficacia intrinseca del vaccino, ma anche dal numero di persone infette con cui ciascuno entra in contatto.

È chiaro, perciò, che, oltre all’arrivo dell’inverno e al grave ritardo nella somministrazione della terza dose (a oggi siamo appena al 15,8%), l’altra causa determinante della risalita dei contagi e dei morti è la presenza di un numero ancora molto grande di persone non vaccinate (che almeno per i morti è anche la causa principale). Su questo punto cruciale il governo continua a gettare fumo negli occhi, vantando l’elevata percentuale di vaccinati e cercando di farci dimenticare che, per quanto quella dei non vaccinati sia assai più bassa, corrisponde a un valore assoluto ancora elevatissimo: al 6 dicembre erano circa 14 milioni, cioè quasi un quarto della popolazione italiana. Quindi, non solo non siamo stati così bravi come ci dicono, ma neanche il risultato fin qui ottenuto è così buono come ci dicono.

E purtroppo non si tratta solo di un problema di efficienza, perché i nostri governi continuano a commettere gravissimi errori concettuali, come già avevano fatto nella prima fase dell’epidemia (cfr. Paolo Musso, Il lockdown che non c’è mai stato e quello che ci vorrebbe). Prima, infatti, hanno puntato tutto sui vaccini (cosa già sbagliata di per sé), poi hanno involontariamente sabotato la propria stessa scelta con decisioni confuse e pasticciate.

Io ho almeno una decina di amici che non intendono vaccinarsi, ma solo due o tre di loro sono contrari ai vaccini in generale, mentre gli altri sono contrari soltanto a “questi” vaccini, in gran parte proprio a causa del comportamento dei governi, che nell’alimentare tale diffidenza ha pesato molto più delle tesi dei No-Vax (cfr. Paolo Musso, Se i Pro-Vax fanno più danni dei No-Vax).

Prima, infatti, è arrivata l’immotivata sospensione di AstraZeneca, voluta dalla Merkel e accettata supinamente da tutti gli altri governi europei contro il parere dell’EMA (la European Medicines Agency che sovrintende alle sperimentazioni dei farmaci). Poi c’è stata l’assurda decisione di proteggere per legge dalle cause per i possibili danni provocati dai vaccini non solo i medici (come era giusto), ma anche gli Stati, il che invece non ha alcun senso. Infine, è venuto lo scellerato regime del Green Pass, che sta causando un’enorme quantità di disagi a tutti, vaccinati e no, senza apportare benefici significativi, come peraltro era facilmente prevedibile (e infatti io l’avevo previsto, per filo e per segno, in un articolo pubblicato il 6 settembre, ma scritto addirittura a metà agosto: cfr. Paolo Musso).

Queste decisioni, benché ciascuna di esse sia stata presentata dai governi come un segno della loro scrupolosità e del loro rispetto per la libertà dei cittadini, sono state invece interpretate da gran parte di questi ultimi come un segno di sfiducia da parte dei governi nei confronti dei vaccini da loro stessi promossi. E siccome anche questo era facilmente prevedibile, viene da chiedersi com’è possibile che neanche uno dei nostri leader politici se ne sia reso conto, con tutti i fior di esperti di comunicazione che pagano profumatamente per gestire la loro immagine.

È perciò lecito il sospetto che, come già per gli errori precedenti, la vera motivazione sia stata la volontà di evitare di prendersi le responsabilità più scomode, scaricandole ancora una volta sui cittadini. E il sospetto si tramuta in certezza nel caso del Green Pass, che, contrariamente a ciò che, con sovrano sprezzo del ridicolo, continua a ripetere il nostro governo, non è affatto “una misura di prevenzione” e men che meno “uno strumento di libertà”, bensì, con ogni evidenza, un tentativo di introdurre surrettiziamente un obbligo vaccinale di fatto senza prendersi, appunto, la responsabilità di imporlo per legge.

La prova più evidente di ciò è che i luoghi in cui lo si è imposto per primo sono stati quelli a minore rischio di contagio, mentre quelli a rischio maggiore sono arrivati per ultimi e alcuni addirittura ne sono tuttora esenti. Avevo già detto che sarebbe andata a finire così nell’articolo sopra citato, ma se per caso aveste ancora dei dubbi date un’occhiata a queste due foto che ho scattato personalmente a fine ottobre, a soli due giorni di distanza, su due treni della linea Milano-Bologna, uno con obbligo di Green pass e uno no, e poi ditemi per favore come si può avere l’impudenza di sostenere che queste regole servono a prevenire i contagi. Eppure, questa impudenza il nostro governo ce l’ha.

La controprova viene dal confronto con la Spagna, che da subito ha detto ufficialmente che di Green Pass non ne vuol sapere, eppure dal 1° novembre a oggi ha avuto una media di soli 11,7 mpm contro i 35,3 dell’Italia (cioè appena un terzo), nonché i 27,7 della Francia, i 92,5 della Germania e i 154 dell’Austria, giusto per citare alcuni dei paesi che stanno facendo più ampio uso del Green Pass. Poi uno guarda le percentuali delle vaccinazioni e scopre che la Spagna è arrivata all’80,5%, mentre noi, come detto, siamo al 73,2%, la Francia al 70,2%, la Germania al 68,4% e l’Austria appena al 65,1%. La conclusione appare quindi inequivocabile: a proteggere è il vaccino e non il Green Pass.

Certo, se consideriamo solo i luoghi in cui si può entrare unicamente con esso e in cui per giunta vengono mantenute tutte le misure di sicurezza (che all’inizio il governo, mentendo per farci digerire meglio la misura, aveva promesso di togliere), è ben difficile che lì qualcuno si contagi. Tuttavia, considerando le cose globalmente, alla scala dell’intero paese e non solo di alcune specifiche situazioni, i suoi benefici sono molto limitati, mentre i danni sono enormi, soprattutto per il progressivo inasprimento dello scontro sociale che sta provocando, con i non vaccinati che si sentono perseguitati ingiustamente e i vaccinati che li accusano di essere il principale ostacolo al ritorno alla normalità.

Anche l’affermazione, ripetuta con ossessiva insistenza dal governo, che senza il Green Pass si tornerebbe alla chiusura delle attività commerciali e sociali è del tutto falsa. O meglio, è vera, ma solo perché il governo ha deciso così, ancora una volta arbitrariamente e senza seguire alcuna logica di prevenzione, dato che si tratta di attività molto meno rischiose di altre, come fabbriche, uffici, autobus, metropolitane e, appunto, treni regionali, che però non sono mai state realmente sospese, neanche durante lo pseudo-lockdown della prima fase (e infatti si è visto come è andata a finire).

Ma la cosa più grave è che, nonostante tutti i disagi che ha creato, il Green Pass non ha ancora raggiunto il suo vero obiettivo: quello di indurre tutti a vaccinarsi. E, continuando così, non lo raggiungerà mai. Certo, molti hanno ceduto alla pressione e si sono vaccinati, ma, come detto, mancano ancora all’appello 14 milioni di italiani, dei quali solo una minoranza sono bambini sotto i 12 anni e perciò (finora) non vaccinabili. La maggior parte sono invece adulti, che hanno deciso di non vaccinarsi e ben difficilmente lo faranno in futuro, perché appartengono a categorie (come pensionati, casalinghe, colf, badanti, lavoratori autonomi e altri ancora) che non possono essere controllate, a meno di trasformare davvero l’Italia in uno Stato di polizia, autorizzando quest’ultima ad entrare nelle case e negli studi privati anche senza un mandato.

La verità, evidente a chiunque tranne che, a quanto pare, ai nostri governanti, è che se si ritiene, a torto o a ragione, che tutti debbano vaccinarsi esiste una sola strada, limpida e chiara, per raggiungere l’obiettivo: imporre per legge l’obbligo vaccinale, come previsto dalla Costituzione, dopo un dibattito parlamentare altrettanto limpido e chiaro, dal quale risulti chiaro pure di chi sarà il merito se le cose andranno bene e di chi sarà la colpa se invece andranno male. Ma questo è esattamente ciò che non si vuole che accada e quindi si preferiscono le soluzioni pasticciate.

La cosa più paradossale è che la maggior parte delle persone ostili ai vaccini anti-Covid, compresi i miei amici di cui sopra, pur essendo (ovviamente) contrarie all’obbligo, lo ritengono in genere più accettabile del Green Pass, non solo perché sarebbe meno ipocrita, ma anche perché presenterebbe dei vantaggi anche per loro. Oggi, infatti, con la scusa che la vaccinazione è volontaria e che quindi chi ha paura può sempre non farla, non è previsto nessun motivo di esenzione, neppure per comprovate gravi allergie o perché, essendo guariti dal Covid, si ha già un numero molto elevato di anticorpi, il che è gravissimo (e inoltre fornisce ulteriori motivi di diffidenza agli scettici). L’instaurazione dell’obbligo vaccinale, invece, facendo cadere questa giustificazione, comporterebbe necessariamente la definizione delle situazioni in cui si può chiedere di essere esentati.

Come si vede, dunque, gli altri non hanno affatto “molto da imparare” da noi. Eppure, a causa dell’imperante pandemically correct, a cui non importa che le regole siano efficaci nella realtà, ma solo che siano ritenute tali da “color che sanno” (o presumono di sapere), stiamo ugualmente rischiando che si imponga di nuovo una sorta di “modello Italia”, altrettanto privo di fondamento del primo e altrettanto pericoloso. E ciò perfino se alla fine passasse l’obbligo vaccinale, cosa che da qualche giorno non è più fantascienza, non tanto perché la realtà stia finalmente imponendosi (come ho appena detto, oggi come oggi in Europa della realtà non frega niente a nessuno), ma perché è stato violato il tabù, dato che il 19 novembre l’Austria ha annunciato l’adozione dell’obbligo vaccinale a partire dal 1° febbraio 2022. E questo, invece, conta eccome.

Il pandemically correct, infatti, così come, più in generale, il politically correct, di cui rappresenta un sottogenere (cfr. Paolo Musso, Il virus dell’autoritarismo), non si forma attraverso un dibattito razionale, bensì seguendo un processo molto simile a quello che porta alla nascita degli “influencers”. Ciò non è casuale, perché tale processo in gran parte si svolge proprio attraverso Internet, ma anche la parte che passa per altri canali segue dinamiche analoghe: infatti, tra le varie proposte, ridotte rapidamente alla forma iper-semplificata di slogan, ad affermarsi sono quelle che hanno una maggiore capacità di attirare “followers”, non importa per quale motivo, purché siano tanti e in fretta.

Nonostante la sua rapidità, però, tale processo produce risultati estremamente difficili da cambiare, perché ben presto il sistema mediatico comincia a ripetere ossessivamente le idee più gettonate, che diventano così “regole” vincolanti, indipendentemente dal loro effettivo valore e perfino dal fatto che vengano esplicitamente proclamate tali a livello legislativo, perché chi prova a metterle in discussione viene immediatamente censurato e demonizzato dal sistema stesso. Si pensi che i “dogmi” del pandemically correct sono stati creati nel giro di non più di due settimane, tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 2020, e ci governano ancora adesso, sostanzialmente immutati, dopo quasi due anni e nonostante l’evidenza del loro fallimento.

Tuttavia, benché sia difficile, attraverso gli stessi meccanismi e con la stessa rapidità (e, purtroppo, anche con la stessa irrazionalità) tali regole possono anche essere sovvertite, se qualcuno riesce a lanciare una nuova “parola d’ordine” capace di attirare molti consensi con grande rapidità, prima che il linciaggio mediatico abbia il tempo di zittirlo. L’impressione è che l’Austria ce la stia facendo.

Al proposito è molto significativo che solo due giorni dopo, il 21 novembre, su La Stampa sia apparso un editoriale del direttore Massimo Giannini intitolato Fate presto sull’obbligo vaccinale in cui, con un ribaltone totale (ovviamente non riconosciuto come tale) della linea fin lì tenuta, si affermava che «il governo ha oggi un solo dovere, etico e politico: introdurre l’obbligo vaccinale. Subito. […] Lo dicono i numeri» (e, ça va sans dire, anche «la OMS» per bocca del suo direttore per l’Europa Hans Kluge).

Per la verità, i numeri lo dicevano anche il giorno prima, e quello prima ancora, e anche il mese prima, e anche l’anno prima: lo dicevano perfino prima che arrivassero i vaccini e, per vero, perfino prima ancora che esistessero (la OMS invece non lo diceva, ma tanto quel che dice la OMS vale meno di zero: e anche questo lo dicono i numeri, visto che fin qui non ne ha mai azzeccata una). Giannini sostiene di averlo detto anche lui fin dall’inizio «in diretta tv all’allora premier Conte» e poi «ribadito più volte al Ministro della Salute Speranza». Sarà (non guardo molto le trasmissioni sul virus perché servono solo ad alimentare la confusione), ma quel che è certo è che finora non l’aveva mai scritto sul quotidiano da lui diretto, né l’aveva mai fatto nessuno dei suoi collaboratori, tranne Sorgi in un breve articolo del 31 agosto.

Siccome è chiaro ormai da tempo che sul Covid i grandi giornali e le grandi televisioni spalleggiano sempre i governi e si muovono all’unisono con essi, una simile inversione di rotta da parte del quotidiano che più spazio ha dedicato al dibattito sul Green Pass, ma sempre ribadendo che la linea ufficiale del giornale era di totale sostegno, rappresenta un chiaro segnale che qualcosa è cambiato. E infatti solo tre giorni dopo Draghi, dopo avere anche lui elogiato gli italiani per i (presunti) straordinari risultati ottenuti, ha annunciato il Super Green Pass, accompagnato dall’introduzione dell’obbligo vaccinale per diverse categorie professionali, per alcune delle quali, come i dipendenti pubblici, non si vede la ragione di tale regime differenziato. Solo un’altra settimana e ha cominciato a parlarne pure la Von Der Layen. La strada sembra dunque segnata.

L’impressione è però che ci si voglia avvicinare gradualmente all’obbligo generalizzato, da una parte rendendo obbligatorio il Green Pass (e quindi, di fatto, il vaccino) per fare qualsiasi cosa e dall’altra ampliando progressivamente le categorie sottoposte anche all’obbligo formale, in modo che alla fine quest’ultimo tocchi il minor numero possibile di persone non vaccinate. E pazienza se, così facendo, si dimentica ancora una volta che «la legge fondamentale dell’epidemia è una sola: se vuoi fare qualcosa, più tardi lo fai più costerà caro a tutti» (Luca Ricolfi, La notte delle ninfee, La Nave di Teseo, Milano 2021, p. 21).

Il rischio più grave (che a questo punto è quasi una certezza) è però che il Green Pass diventi lo strumento per gestire anche la vaccinazione obbligatoria, benché ciò non abbia alcun senso, dato che, come già detto, la sua vera funzione è quella di essere un obbligo vaccinale camuffato, mentre la sua efficacia come strumento di prevenzione è pressoché nulla. Il problema è che in questo modo si rischia di renderlo permanente, soprattutto se l’evoluzione del virus rendesse necessari periodici richiami o aggiornamenti del vaccino, come succede con l’influenza. E una volta che la gente si sia abituata, inevitabilmente a qualcuno verrà in mente di usare il Green Pass anche per monitorare qualcos’altro e poi qualcos’altro ancora, aumentando sempre più l’invadenza, già ora intollerabile, dello Stato nella vita delle persone.

Sia chiaro che non penso che tutto ciò sia frutto di un piano elaborato a tavolino, anche perché se c’è una cosa che le nostre classi dirigenti hanno dimostrato in tutta questa vicenda è la loro totale incapacità di gestire un problema che tutto sommato all’inizio non era troppo complicato ed è stato reso tale soprattutto dai loro errori: figuriamoci quindi se sarebbero capaci di far funzionare cospirazioni tipo “il Grande Reset” o roba simile.

Tuttavia, è innegabile che nel nostro mondo esista una vera ossessione per la sicurezza, che ormai da tempo è arrivata a livelli di vera e propria psicosi, come si vede dal fatto che di fronte ad ogni problema si pretende sempre il “rischio zero”, benché sia una richiesta chiaramente impossibile e quindi chiaramente insensata. E la vicenda del Covid ha dimostrato che, pur mugugnando, mediamente la gente è disposta a rinunciare a parti sempre più ampie della propria libertà non solo in cambio della sicurezza, ma anche solo dell’illusione della sicurezza. Quindi il rischio vero non è che a un certo punto arrivi il Grande Fratello a imporci la sua tirannia, ma piuttosto che finiamo per autoimporcela da soli, per la convergenza tra diversi gruppi sociali (governi, burocrati, scienziati, giornalisti, cittadini, ecc.) che, pur diffidando gli uni degli altri, di fatto si muovono spontaneamente nella stessa direzione.

La cosa più inquietante, infatti, è che questo non è un fenomeno isolato. Per quanto mal gestita, prima o poi anche l’emergenza Covid finirà, come tutte le cose di questo mondo. Ma non resteremo “orfani”, perché c’è già pronta per noi un’altra emergenza: quella ecologica. Ancora una volta, non sto dicendo che tale emergenza non sia reale: lo è, ed è anche molto più seria di quella del Covid. Il problema è come verrà gestita: e ancora una volta i segnali che stanno arrivando non sono incoraggianti e ancora una volta vengono dall’Italia.

Solo qualche settimana fa, infatti, precisamente il 7 novembre, durante gli inconcludenti lavori della COP26, di fronte al «bla bla, bla» di Greta Thunberg e alle sue accuse ai politici ivi presenti di «non rappresentare nessuno», il nostro Ministro per la Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, ha replicato che il suo atteggiamento era «ipocrita» ed «eversivo» (o, secondo altre versioni, «quasi eversivo», ma la sostanza non cambia).

Ora, io non ho mai avuto nessuna particolare simpatia per Greta e meno ancora per il “gretinismo”, cioè la grottesca sceneggiata (questa sì veramente ipocrita) che ha visto per oltre due anni molti dei principali leader della Terra sottoporre le loro proposte ambientaliste al vaglio della ragazzina svedese, felici e contenti di essere da lei giudicati, benché ovviamente non avesse alcuna competenza per valutarle, salvo poi scaricarla (com’era ampiamente prevedibile) quando la sceneggiata suddetta non faceva più comodo. Ma molto, molto più grave è affermare che criticare i governi è “eversivo”, tanto più se tale sconcertante affermazione, degna in tutto e per tutto di uno Stato totalitario, viene rivolta dal ministro di uno dei paesi più potenti del mondo (ché tale è ancora, nonostante tutto, l’Italia) a una ragazzina di appena 18 anni.

E ancor più grave è che questa intollerabile intimidazione sia passata praticamente sotto silenzio, soprattutto se la confrontiamo con le interminabili risse scatenate da frasi infinitamente più innocue pronunciate da persone infinitamente meno autorevoli. Provate a pensare cosa sarebbe successo se Cingolani avesse risposto: «Ma cosa volete che ne capisca una donna di questi problemi?». Essendo state violate le regole del politically correct, avremmo assistito per almeno una settimana a infuocati dibattitti sui social e a indignati editoriali sui giornali di tutto il mondo. Invece, essendo state violate “soltanto” le regole della democrazia, nessuno ha detto una parola.

È facile vedere che l’atteggiamento di Cingolani nasce dalla stessa tendenza autoritaria “emergenziale”, già emersa prima del Covid e poi consolidatasi con esso, che si giustifica sempre con la scusa che i governi non possono essere criticati perché “siamo in guerra” (prima contro la crisi economica, ora contro il virus, fra poco contro i disastri ambientali). Di conseguenza, chi critica non è uno che sta esercitando (bene o male, non è questo il punto) il suo diritto di cittadino e, prima ancora, di essere umano pensante, ma un disertore o addirittura un sabotatore, quindi, in ultima analisi, un nemico dell’umanità, dato che i governi si pongono per definizione come i difensori dell’umanità stessa.

E infatti Cingolani ha giustificato la sua incredibile sparata esattamente così: affermando che i governi «stanno lavorando» e che «ci sono delle regole, c’è la democrazia che stabilisce chi sono i rappresentanti», cioè con considerazioni che eludono (o per inconsapevolezza o intenzionalmente: e non so quale delle due sia peggio) la sostanza dei problemi. È evidente, infatti, che Greta non intendeva certo mettere in discussione la legittimità formale delle loro cariche, ma il fatto che ciò che stanno facendo corrisponda a ciò per cui i cittadini hanno conferito loro tale legittimità. Ed è altrettanto evidente che, sia vero o no, aveva tutto il diritto di dirlo.

O meglio: dovrebbe essere evidente. Ma a quanto pare non lo è più. E quando i fondamenti stessi della democrazia cessano di essere evidenti, c’è davvero da preoccuparsi.




Vaccinare non basta

Come va l’epidemia nelle società avanzate?

Dipende dalla direzione in cui guardiamo. Il dato più drammatico è il tasso di mortalità (e di occupazione delle terapie intensive) nei paesi dell’Est Europa, che è quasi 14 volte quello dell’Italia. E’ verosimile che la ragione di questo squilibrio stia essenzialmente nella vaccinazione, che è in clamoroso ritardo nei paesi ex-comunisti. Ed è possibile che, alla radice di tale bassissima propensione a vaccinarsi, vi sia anche, se non soprattutto, la diffidenza dei cittadini di quei paesi verso lo stato centrale, una diffidenza maturata in 70 anni di dittatura e di invasione della vita privata.

Ma nelle altre società avanzate, occidentali e orientali, come vanno le cose?

Qui ci sono due sorprese, o meglio due dati, che contraddicono la narrazione oggi prevalente in Italia.

Il primo dato è che l’Italia non è affatto un’isola relativamente felice, e tantomeno un modello per gli altri paesi. Se guardiamo alla mortalità dell’ultimo mese, ci sono 13 paesi che stanno meglio di noi e 12 che stanno peggio (vedi grafico seguente). In breve: siamo a metà classifica. Lo stesso accade se, anziché guardare ai morti per abitante, guardiamo al valore di Rt: anche in questo caso, metà dei paesi ci precedono e metà ci seguono.

Il secondo dato è che, nella stragrande maggioranza dei paesi, il valore di Rt è maggiore di 1. Ossia: l’epidemia galoppa quasi ovunque. Ma soprattutto, e qui sta il lato sorprendete, galoppa indipendentemente dalla copertura vaccinale. Anche nei paesi che, come Portogallo e Spagna, hanno vaccinato quasi il 100% della popolazione vaccinabile, il valore di Rt è ampiamente sopra 1, e analogo a quello dell’Italia. A giudicare dai dati disponibili, la vaccinazione riduce drasticamente la mortalità, ma non ha alcun impatto apprezzabile sulla diffusione del contagio. Dunque vaccinare è necessario, ma non sufficiente.

Sulle ragioni che fanno sì che il pieno successo della campagna vaccinale non basti a fermare l’epidemia si può discutere a lungo, perché nessuno ha dati sufficienti a fornire una riposta incontrovertibile. Al momento la spiegazione che più mi convince, anche in quanto supportata da alcune analisi statistiche su dati americani, è che la capacità dei vaccinati di trasmettere l’infezione sia stata ampiamente sottovalutata. Detto in altre parole: si confonde la capacità dei vaccini di proteggere dalla morte e dalla malattia grave (che è indubbia e molto elevata) con la loro capacità di rallentare la trasmissione. Da questo punto di vista la strategia di “premiare i vaccinati”, lasciando loro la libertà di fare quasi tutto, o la scelta di rimandare la quarantena nelle classi scolastiche fino a quando non vi sia un focolaio di almeno tre studenti positivi, appare quantomeno imprudente. L’idea che la colpa sia (quasi) tutta dei non vaccinati, e che vaccinando (quasi) tutti le cose tornerebbero miracolosamente a posto, è incompatibile con i dati: se fosse corretta, non assisteremmo a una preoccupante espansione dei casi in Spagna, Portogallo, Irlanda, Danimarca, Malta, Islanda, tutti paesi che hanno vaccinato moltissimo.

Che fare, dunque?

Prima di tutto, prendere atto che non siamo i primi della classe. E poi avere il coraggio di farci la domanda cruciale: siamo sicuri che la ricetta italiana, fatta di vaccini + restrizioni, sia la strada giusta per tenere sotto controllo l’epidemia?

Io penso che non lo sia, e che anche l’Europa dovrebbe cominciare a riflettere sul problema. L’esperienza di due stagioni fredde e due stagioni calde dovrebbe averci insegnato che l’illusione di domare il virus prende forma e si consolida in estate, ma immancabilmente svanisce con l’autunno.

Puntare tutte le carte su vaccini e restrizioni significa tenere permanentemente sotto pressione il sistema sanitario (100 o 150 milioni di vaccinazioni all’anno non sono uno scherzo, come ha fatto notare il prof. Crisanti), con conseguente drammatica riduzione delle cure ordinarie, e chiamare periodicamente i cittadini (compresi i vaccinati) ad accettare pesanti restrizioni alla loro libertà, ogni qualvolta il generale inverno subentra al generale estate.

Possibile che non vi siano alternative? Possibile che, al di là della vaccinazione perpetua che ci si prospetta, quasi tutto l’onere dell’aggiustamento ricada sui cittadini?

In realtà le alternative diverse dalla diade vaccinazioni + sacrifici esistono, e sono state più volte indicate, non solo dagli studiosi. Non le ricorderò tutte, ma vorrei almeno ricordarne due: il tracciamento elettronico (del tutto abbandonato dopo il fallimento dell’app Immuni) e la messa in sicurezza degli ambienti chiusi, a partire da scuole, uffici, metropolitane, mediante filtri e ventilazione meccanica controllata (ne ha parlato pochi giorni fa l’ing. Buonanno su questo giornale).

L’elemento comune di tali interventi, snobbati non solo in Italia ma in buona parte d’Europa, è che non impattano né sul sistema sanitario (a differenza della vaccinazione di massa), né sulla nostra libertà (a differenza delle restrizioni). E, nel caso dell’approccio ingegneristico al controllo della qualità dell’aria negli ambienti chiusi, ci regalano una realistica speranza: quella di affrontare meno indifesi la stagione fredda, che è il vero tallone di Achille della lotta al virus.

Pubblicato su Repubblica del 6 dicembre 2021




Covid19, il sogno di un’estate senza fine

Modificando una condizione al contorno applicata ad un sistema termodinamico, esso evolve fino al raggiungimento di un nuovo equilibrio, compatibile con i nuovi vincoli del sistema.

E’ un principio basilare della termodinamica: ma che significa per noi?

Immaginate come sistema la nostra società di individui con la propria moltitudine di interazioni. E ritornate con la mente all’estate, quando il sistema era in equilibrio con bassa incidenza del virus, ridotta trasmissione, alta protezione da vaccinazione. Cosa è cambiato da un paio di mesi rispetto a questa condizione? Quali condizioni al contorno stanno spingendo il sistema verso una nuova condizione di equilibrio?

Le percentuali di vaccinazione sono cresciute ulteriormente, ma non si è tenuto conto che i vaccini hanno una efficacia che si riduce nel tempo, sia nella protezione contro l’infezione che contro la malattia. Stime recenti indicano un tempo di soli 3-4 mesi per una diminuzione sostanziale dell’efficacia all’infezione. Quindi la durata della protezione è di gran lunga inferiore al tempo necessario per vaccinare percentuali elevate di popolazione (in Italia abbiamo impiegato 9 mesi per vaccinare l’80% della popolazione) e, non potendo mai avere una copertura adeguata, saremmo sempre costretti ad inseguire le ondate.

Una diversa condizione al contorno è l’autunno (e ancor più l’inverno) con un aumento dell’interazione dei soggetti negli ambienti chiusi. E qui entra in gioco un errore importante che le autorità sanitarie continuano a commettere: infatti il virus si propaga quasi esclusivamente per aerosol e non con i droplets (goccioline) o le superfici. Una persona infetta (vaccinata o non vaccinata) emette il virus dalla bocca all’interno di particelle in grado di galleggiare in aria come del fumo: e queste non cadranno al suolo in prossimità della persona come il mondo medico ci ha raccontato.

Come ci difendiamo dal fumo di una sigaretta? All’aperto è facile, perché il rischio dipende solo dalla distanza e dal tempo di esposizione. Tempi di esposizione di qualche secondo all’emissione di un soggetto infetto rendono accettabili anche distanze inferiori al metro. Non c’è necessità di utilizzare mascherine in ambienti aperti se non per esposizioni di diversi minuti davanti ad un soggetto che parla. Il rischio di inalare una dose sufficiente di carica virale sospesa in aria è invece rilevante negli ambienti chiusi senza un intervento sull’ambiente.

Sono attualmente protetti gli ambienti chiusi? Assolutamente no, non lo sono mai stati neanche durante le precedenti ondate per il mancato coinvolgimento delle competenze ingegneristiche. Questo errore non lo commettiamo a casa nostra quando cuciniamo perché ci affidiamo agli ingegneri per ridurre la nostra esposizione al fumo (cappe aspiranti, ventilazione) pur sapendo che nuoce alla salute. Le nostre autorità purtroppo si sono affidate solo al vaccino, senza coinvolgere gli ingegneri.

Dalla storia sappiamo che tutte le epidemie passano, ma la storia può esserci di aiuto anche per acquisire la consapevolezza necessaria per affrontare le prossime. Nella Londra vittoriana John Snow (1813-1858) intuì che il contagio da colera avveniva attraverso l’acqua e non attraverso i miasmi millantati dalla comunità medica. Da allora gli ingegneri hanno messo in sicurezza l’acqua e oggi nessuno di noi utilizza dispositivi per purificare l’acqua, un bene primario. Non temiamo più agenti patogeni trasmessi dall’acqua, perché sappiamo come si trasmettono e come limitare il contagio.

Perché questo non dovrebbe essere valido anche per l’aria?

Gli ingegneri sono oggi in grado di mettere in sicurezza l’aria e ogni cittadino dovrebbe avere il diritto di respirare aria priva non solo di inquinanti, come è stabilito dal rapporto The Right to Breathe Clean Air (Il diritto di respirare aria pulita) delle Nazioni Unite, ma anche di agenti patogeni. E’ un dovere del gestore di ogni luogo pubblico o di lavoro garantire la sicurezza di chi entra in un ambiente. Visione questa opposta all’attuale, in cui la sicurezza di un individuo è delegata ai comportamenti non virtuosi ma spesso inconsapevoli dei cittadini.

Le rassicurazioni delle autorità sanitarie sull’evoluzione del nostro sistema non sono realistiche: senza una modifica sostanziale delle attuali condizioni che riduca in modo drastico i contagi negli ambienti chiusi, si arriverà a situazioni simili a quelle di altri paesi Europei, e la protezione della popolazione mediante percentuali ancora più elevate di vaccinati rischia di essere un miraggio. Il mancato coinvolgimento degli ingegneri (utili anche per uno smorzamento delle tensioni sociali) rende probabile il sopraggiungere delle temute chiusure con conseguenze pesanti sul piano sanitario ed economico. La risposta decisiva alla presenza di un virus endemico esiste: trasformare gli ambienti chiusi in ambienti simil-aperti che ci proteggano anche dalle nuove varianti in arrivo, come se vivessimo in una estate continua. Sembra fantascienza, ma anche la visione di Snow nell’Ottocento fu probabilmente considerata solo l’utopia di un sognatore.

Prof. Giorgio Buonanno
Università di Cassino e del Lazio Meridionale
Queensland University of Technology, Australia

Luca Ricolfi
Docente di Analisi dei dati
Università di Torino

 




Chi sono i No Green Pass? Molte conferme e qualche sorpresa

È ovvio che le manifestazioni dei No Green Pass, presenti in molte città italiane da diverse settimane, non vedano coinvolto che qualche migliaio di persone. Non tutti hanno voglia di scendere in piazza, sfidando magari le intemperie meteorologiche o delle forze dell’ordine, senza altro obiettivo concreto se non quello di cercare di sensibilizzare il governo a ritirare quelle misure da loro giudicate illiberali.

Ma se non sono molti coloro che si mobilitano “fisicamente”, dietro quei pochi ci sono milioni di italiani che, in qualche modo, la pensano più o meno come loro, ritengono cioè che il green pass sia “una misura esagerata che viola la libertà di chi non vuole farsi vaccinare”. Piuttosto interessante quindi cercare di capire chi sono, quali sono le loro caratteristiche in termini demografici e politici.

Utilizzando un campione sufficientemente numeroso di elettori (circa 4mila individui interrogati negli ultimi due mesi da Ipsos) è possibile tracciare un quadro significativo del loro profilo, confrontandolo poi con chi non si dichiara contrario al greenpass. La tipologia costruita ad hoc tiene conto di una ulteriore specificità, differenziando i “no green pass” non vaccinati da quelli invece vaccinati.

Avremo quindi tre tipi: il primo, che chiameremo “SI vax SI gp”, è composto da chi si è vaccinato ed è d’accordo con l’adozione del green pass (il gruppo più numeroso, pari al 70% circa degli intervistati); il secondo (“SI vax NO gp”) dai contrari al green pass ma vaccinati (18%); il terzo (“NO vax NO gp”) dai contrari sia al vaccino che al green pass (12%). Esiste per la verità anche uno gruppo molto ridotto (meno del 2%) di non vaccinati ma favorevoli al green pass, che ho tralasciato nell’analisi.

Occorre innanzitutto sottolineare come al trascorrere del tempo sia la seconda categoria, i vaccinati contrari al greenpass, quella a crescere in maniera significativa: se in ottobre erano soltanto il 10-12%, nelle ultime settimane arrivano infatti a superare il 20% della popolazione elettorale, mentre cala contestualmente il gruppo dei “non vaccinati”. E già questo pare un primo dato estremamente interessante: vanno cioè aumentando poco alla volta coloro che, pur vaccinati, reputano di fatto una sorta di attentato alla libertà (anche lavorativa) l’obbligo del passaporto verde. Potremmo identificarli con l’etichetta di “rivoltosi”, e mi sembra questa la categoria più interessante da analizzare, laddove il terzo gruppo (quello dei non-vaccinati), in tendenziale calo, è composto da individui le cui caratteristiche li fanno assomigliare maggiormente all’area più nota degli emarginati dalla politica (non-votanti, livelli di informazione e di scolarizzazione poco elevati, poco inseriti nel mondo del lavoro, casalinghe e disoccupati, convinti anti-europeisti, favorevoli al ritorno della lira).

Cosa contraddistingue dunque questi “rivoltosi”, rispetto alla fetta più rilevante della popolazione, quel 70% di “mainstream” che concorda con l’utilizzo del greenpass? Dal punto di vista del loro orientamento politico, sono tendenzialmente poco presenti gli elettori dei partiti di sinistra, di centro-sinistra e di Forza Italia, mentre le scelte più significative vanno in direzione del Movimento 5 stelle e, soprattutto, verso la Lega e Fratelli d’Italia, che sfiorano in questo gruppo il 30% nelle intenzioni di voto, oltre il doppio dei “mainstream”.

Sono anch’essi, in sintonia con i non vaccinati e con le parole d’ordine dei partiti di loro maggior riferimento, in prevalenza anti-Euro e anti-Europeisti e per il 70% pensano che le cose nel nostro Paese stiano andando in generale nella direzione sbagliata. Il loro livello di scolarizzazione non è molto dissimile dalla media italiana, con la presenza quindi di quote significative di laureati e diplomati, benché siano più numerosi coloro che si fermano alla scuola dell’obbligo. Sono ben inseriti nel mondo del lavoro, in particolare tra gli operai e gli autonomi con reddito relativamente più basso. Dal punto di vista generazionale, spicca la presenza tra i “rivoltosi” delle classi d’età relativamente più giovani, mentre tra le loro fonti d’informazione appare sovra-rappresentata la presenza dei social e del passaparola, dell’interazione tra amici e parenti per formarsi un’opinione, mentre meno presenti sono le fonti d’informazione più “ufficiali”, come i giornali cartacei e i telegiornali.

L’atteggiamento di decisa sfiducia nei confronti dell’attuale governo e delle principali istituzioni, italiane ed europee, è il tratto marcato che contraddistingue questo gruppo di elettori, certo meno agguerrito dei variegati manifestanti che quotidianamente (in forme quasi pre-politiche) scendono in piazza, al grido di “libertà”, ma che in qualche modo rappresenterebbero soltanto la punta di un iceberg di sentimenti diffusi nella popolazione. Sentimenti che paiono in costante crescita anche tra coloro che, forse di malavoglia, sono arrivati alla vaccinazione sospinti più dall’opinione pubblica dominante che da una reale convinzione dell’efficacia dei vaccini. Tanto che quasi il 70% tra loro si trova tuttora in disaccordo con la simbolica affermazione: “Oggi, il vaccino è la libertà”.

I milioni di italiani “rivoltosi” sembrano dunque rappresentare un’ondata di crescente profondo dissenso con la quale confrontarsi seriamente, nelle settimane a venire, per evitare che quell’iceberg emerga ancora più evidente nel mare della nostra società.