Covid, siamo i peggiori in Europa. Intervista a Luca Ricolfi

Cosa dicono i dati del vostro osservatorio della Fondazione Hume: l’epidemia sta scemando?
“Scemando” è una parola forte, che allude a una prossima fine. No, non sta scemando, sta solo rallentando un po’. Voglio essere più preciso, nei limiti dei dati forniti dalla Protezione Civile. Fatto 1 il numero medio di contagi a luglio, adesso siamo più o meno a 25 volte tanti. Certo, un po’ meglio che 2 settimane fa, quando eravamo a quota 29. Ma i progressi restano molto modesti e, soprattutto, lentissimi.
Questo vuol dire che il rischio di incontrare una persona contagiosa è circa 25 volte quello di luglio.

La seconda ondata era inevitabile?
No, era evitabilissima, come dimostra inequivocabilmente il fatto che più di un terzo (10 su 27) delle società avanzate l’ha evitata (vedi grafico). E fra le società che l’hanno evitata, 4 sono in Europa.

Ma allora non siamo i più bravi in Europa?
No, in questo momento (bimestre ottobre-novembre) siamo i peggiori dopo il Belgio (vedi grafico).
La favola del “modello italiano” è, a mio parere, la più grandiosa bufala della pandemia, un falso colpevolmente accreditato dalla maggior parte dei media, giornali-radio-tv.

Ma come ha potuto reggere, se era una bufala?
Ci soni due fattori, uno politico e l’altro tecnico. Il fattore politico è che la maggior parte della stampa e della tv pubblica ha un occhio di riguardo per il Governo. In Italia la stampa è libera, anzi liberissima, ma questo significa anche liberissima di ignorare i fatti, di seguire le convenienze, di non fare vere inchieste, di non tallonare il potere.
Il fattore tecnico è che non è facile leggere i dati, se almeno non ci si sforza un po’. Confrontare i paesi in base ai numeri assoluti (anziché per abitante) è un’ingenuità imperdonabile. Ma anche usare i dati giornalieri dei nuovi casi, enormemente influenzati dalla politica dei tamponi e dalla capacità diagnostica di ogni paese, vuol dire rinunciare a capire quel che succede davvero.

Che dati dovremmo usare, allora?
I decessi per abitante e il quoziente di positività (al netto delle persone ritestate) sono gli indicatori meno inaffidabili nei confronti internazionali.

Cosa avremmo potuto copiare e imparare dalle esperienze degli altri paesi?
Prima di tutto dobbiamo renderci conto che non c’è un unico modo di vincere il Covid. Ci sono paesi che hanno usato soprattutto i tamponi di massa, altri il lockdown precoce, altri mascherine e tracciamento. Altri ancora il senso civico, a quanto pare: quasi tutti i paesi europei senza seconda ondata sono della galassia del Nord, dall’Islanda alla Norvegia, dalla Finlandia alla Danimarca, paradisi del welfare e della cultura civica.
Fra i paesi a noi più vicini, e con noi più comparabili, il caso di maggiore (relativo) successo è la Germania, dove la seconda ondata è molto più modesta che da noi. Lì la chiave è stata la forza del sistema sanitario, ma ancora più cruciale è stata la politica dei tamponi.

Che relazione c’è tra numero di tamponi e decessi?
Incredibilmente stretta. Ho appena finito di stimare l’elasticità dei decessi per abitante e dei tamponi per abitante nella prima fase dell’epidemia. Ebbene, il valore è circa -2. Il che, in concreto, significa: se raddoppi il numero dei tamponi la mortalità si riduce del quadruplo. Ancora più in concreto: se i tamponi passano da 100 a 200 i morti passano da 100 a 25.

La Svezia non ha fatto nessun lockdown e ha meno morti di noi. Ma numero abitanti e territorio diversi da quelli italiano. Sono fattori che incidono sulle curve?
In parte sì. Le mie analisi statistiche mostrano che il numero dei morti per abitante è molto sensibile alla distribuzione geografica della popolazione: a parità di altre condizioni si muore di più nelle aree urbane, e di meno in quelle agricole, specie se remote.
Non è facile dire se, nel caso della Svezia, il sorprendente contenimento della mortalità (a dispetto del mancato lockdown) sia dovuto anche alla geografia interna del paese, o sia da imputare soprattutto ad altri fattori, come la qualità del sistema sanitario, la politica dei tamponi, la bassa socialità, l’elevato senso civico.
Ci sto lavorando, ma finché non ho dei risultati robusti preferisco non azzardare alcuna ipotesi.

Il governo si accinge ad allentare con il nuovo dpcm alcune misure, salvo poi stringere sugli spostamenti tra le regioni a ridosso del natale. Che strategia intravede?
La solita: tergiversare sfogliando la margherita del “riapriamo?”, ”chiudiamo?”, con il solo scopo di massimizzare il consenso. O meglio: minimizzare lo scontento. Di strategia ne vedo una sola: pregare Domine Iddio che il vaccino funzioni, arrivi in quantità adeguata, sia accettato dalla maggioranza degli italiani.
E’ questo il pericolo più grande: l’attesa messianica del vaccino avrà l’effetto di convincere i politici che, ancora una volta, possono non mettere mano alle 10 cose – dai tamponi alla riorganizzazione della medicina di base (vedi petizione sul sito della Fondazione Hume) – che non hanno saputo fare nel semestre di tregua maggio-ottobre.

La scuola è stata la prima a chiudere a marzo e tra gli ultimi settori a riaprire, salvo poi richiudere. Ora che si riparte con le lezioni in presenza il 7 di gennaio, ci saranno condizioni diverse? 
Penso che un po’ di scaglionamento degli orari, e un po’ di limiti all’affollamento sui mezzi pubblici, finiremo per vederli, prima o poi. Sui test rapidi prevedo solita confusione e disorganizzazione. Sui dispositivi di sanificazione dell’aria, fondamentali negli ambienti chiusi, temo che non vedremo quasi nulla. O meglio: vedremo i soliti studenti con la coperta di lana portata da casa, per poter aprire la finestra d’inverno.

Un recente sondaggio di Swg dice che gli italiani preferirebbero non allentare le misure restrittive e che anche sacrificare il Natale non sarebbe poi grave.
Mah, i sondaggi vanno interpretati, una domanda non basta a capire quel che davvero vuole la gente. Tendo a pensare che a bramare la riapertura siano più gli esercenti che i cittadini, e che i cittadini stiano soppesando i pro e i contro: il rischio che a gennaio tutto ricominci frena gli entusiasmi per riapertura e feste natalizie. La gente ha paura della terza ondata.
Sfortunatamente governo e media sono riusciti a far passare il messaggio che tutto dipende da noi comuni cittadini. E a nascondere il fatto che, invece, molto dipende da loro, ossia dalle scelte (e dalle omissioni) della politica.

Il Covid e la gestione che ne è stata fatta in Italia hanno avuto un impatto psicologico sulle persone? (ho spezzato la domanda)
Un qualche impatto senz’altro, il difficile è dire di che tipo. Senza dati di qualità è impossibile capire che tipo di impatto: depressione? spinte suicidarie? frustrazione ? rabbia? rassegnazione?
L’unica conseguenza psicologica che si riconosce ad occhio nudo è l’azzeramento di qualsiasi piano proiettato nel futuro: una condizione esistenziale mortificante, e un vero disastro per il tessuto produttivo del Paese, posto che fare impresa significa precisamente fare sconnesse sul futuro.

Lei che Natale farà?
Nulla cambierà. Sono già in lockdown e ci resterò. L’alternativa è fra un Natale a due (Paola ed io) e un natale a tre (con nostro figlio), se il governo ci concederà spostamenti interregionali.
Il lato buono, uno dei pochissimi lati buoni, del lockdown natalizio è la tendenziale scomparsa dei regali di Natale generalizzati (non solo ai bambini), una prassi che negli ultimi decenni aveva assunto dimensioni patologiche.

Dobbiamo prepararci a una terza ondata?
Fino a poco fa temevo l’arrivo di una terza ondata. Ora non la escludo ma ritengo più probabile un altro scenario, basato sullo stop and go. Rinunciamo a quasi-azzerare il virus, e ci disponiamo a chiudere e riaprire a più riprese, a fisarmonica, magari con un algoritmo che ci dice quando e che cosa fare, togliendo i politici dall’imbarazzo di spiegare e motivare quel che ci impongono.
La realtà è che è impossibile fare previsioni, l’evoluzione dell’epidemia dipende poco dal virus (che è quel che è, e ha le sue leggi di propagazione) e molto dalla politica. E la politica non è prevedibile, perché è un mix di tentennamenti e di decisioni scarsamente informate.
La Merkel ha una laurea in fisica e un dottorato in meccanica quantistica. Quando parla della funzione esponenziale, di R0 e di Rt, sa esattamente di che cosa sta parlando, ed ha persino il coraggio di farlo davanti ai suoi cittadini.
Notata la differenza?

Intervista di Alessandra Ricciardi a Luca Ricolfi, ItaliaOggi, 3 dicembre 2020




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

La temperatura dell’epidemia continua a scendere. Il termometro di oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 dell’11 dicembre) segna 134.5 gradi pseudo-Kelvin ed è in calo di 3.7 gradi.

Questo miglioramento si deve essenzialmente all’andamento dei nuovi contagi, in calo ormai da circa quattro settimane (nell’ultima settimana si sono registrati +116 mila nuovi casi rispetto ai 150 mila della settimana precedente). Sono invece rimasti sostanzialmente stabili gli ingressi ospedalieri e i decessi.

La riduzione settimanale della temperatura è pari a -28.5 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 9 dicembre) la temperatura dell’epidemia è scesa di ben 7.1 gradi passando da 150.3 a 143.2 gradi pseudo-Kelvin.

La diminuzione è frutto del miglioramento di tutte e tre le componenti alla base dell’indice (nuovi casi, decessi, ingressi ospedalieri). A calare sono soprattutto i nuovi contagi (nell’ultima settimana si sono registrati +128 mila nuovi casi rispetto ai 160 mila della settimana precedente). Continua ad essere significativa la diminuzione dei decessi (+4.6 mila decessi nell’ultima settimana rispetto ai 5.0 mila di quella precedente).

La riduzione settimanale della temperatura è pari a -26.3 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Il termometro di oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 8 dicembre) segna 150.3 gradi pseudo-Kelvin ed è sceso di 4.5 gradi.

Anche oggi, il miglioramento della temperatura si deve soprattutto al calo dei nuovi contagi (nell’ultima settimana si sono registrati +136 mila nuovi casi rispetto ai 165 mila della settimana precedente). Significativo però è anche il contributo dei decessi che hanno finalmente iniziato a diminuire (+4.8 mila decessi nell’ultima settimana rispetto ai 5.0 mila di quella precedente). Sono rimasti sostanzialmente stabili gli inglesi ospedalieri stimati.

La riduzione settimanale della temperatura è pari a -23.2 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Lockdown a rilento

C’è un certo strabismo, ultimamente, nella comunicazione sul Covid. Il messaggio principale è che dobbiamo stare rinchiusi, e che se ci rinchiudono è “per il nostro bene”, come si dice ai bambini per fargli accettare qualche sacrificio. Il numero dei morti (che viaggia verso quota 1000 al giorno) serve assai bene allo scopo.

C’è però anche un messaggio secondario, che accomuna una parte dei media, qualche analista ingenuo, una parte (minoritaria) del governo, e sostanzialmente tutta l’opposizione: le misure sono eccessive, la curva epidemica sta già piegando verso il basso, le terapie intensive si stanno svuotando, è già tempo di allentare un po’ il freno.

Due visioni opposte, insomma.

E allora proviamo a vedere come stanno le cose. Consideriamo il numero di persone contagiose (in grado di trasmettere il virus) nel mese di giugno, e chiediamoci di quanto è aumentato il loro numero nel tempo. La risposta è che, posto a 100 il numero di soggetti contagiosi a giugno, nella prima settimana di settembre erano 250, nella prima di ottobre erano diventati 500, e nella prima settimana di novembre – quando è decollato il semi-lockdown in corso, erano 2500, a dispetto delle (blande) misure adottate nel corso di ottobre. Dopo due settimane di semi-lockdown la curva epidemica era ulteriormente salita (il nostro numero-indice a base giugno segnava quasi 3000), e solo negli ultimi 10-15 giorni ha cominciato a scendere. Ora siamo a circa 2500, cioè allo stesso livello di un mese fa: il semi-lockdown è stato così blando che, nella prima settimana di dicembre, siamo messi più o meno come lo eravamo nella prima settimana di novembre. In breve, siamo ancora lontanissimi dalla situazione di giugno.

Eppure, ci viene obiettato, le terapie intensive si stanno svuotando, il sistema sanitario non è più sotto pressione come fino a poche settimane fa. Dimenticano che, con 7-800 morti al giorno, le terapie intensive cominciano (lentamente) a svuotarsi semplicemente perché il numero di decessi è ancora più grande del numero di nuovo ingressi: se entrano 700 pazienti al giorno, ma ne escono in quanto deceduti 750, si “liberano” 50 posti. Non mi sembra un bel modo di “alleggerire” la pressione sul sistema sanitario.

La realtà è che, per ora, il semi-lockdown sta dando risultati estremamente deludenti. Il valore di Rt è sceso finalmente sotto la soglia critica 1, ma lo ha fatto in una misura così piccola da rendere lentissimo il percorso di abbassamento della curva epidemica. Al ritmo attuale, occorrono 5-6 mesi di chiusura per riportare il numero di infetti al livello di sicurezza raggiunto a giugno. E anche si tornasse a un lockdown totale, come quello attuato dal 22 marzo al 3 maggio, di mesi ne occorrerebbero 2.

E’ una situazione paradossale. Il governo si vanta di non avere imposto un lockdown generalizzato, duro come quello di marzo. L’opposizione, anziché fare due conti e obiettare che di questo passo andiamo a finire a Pasqua, non trova di meglio che invocare aperture, veglioni, sciate e messe in presenza: un insperato assist al governo, che ne esce con l’aureola della saggezza e della prudenza.

Che cos’è che non va?

Non va che non ci stanno dicendo le cose come stanno. Ai ritmi attuali il semi-lockdown ci porterà, dopo l’Epifania, a quota 1400, ossia 14 volte più contagiati che a giugno. E anche immaginando che il valore di Rt dovesse essere abbastanza simile a quello toccato nel lockdown di marzo, tutto quel che potremmo sperare entro l’Epifania è di arrivare vicino a quota 500, dunque 5 volte il numero di contagiati di giugno. Insomma, in una situazione di rischio non trascurabile.

Dunque, dove ci stanno portando?

Temo che stiano navigando a vista, come hanno fatto dal primo giorno. Non possono fare un lockdown totale, perché hanno promesso di non farlo, e comunque non basterebbe. Non possono aprire, o allentare il lockdown come pretende l’opposizione, perché sarebbe un disastro. Non possono ammettere che a gennaio il numero di persone contagiose sarà ancora troppo alto, e che la riapertura porterà di nuovo Rt sopra 1. Non sono abbastanza umili da chiedere scusa, e fare oggi quel che dovevano fare ieri sui terreni chiave: tamponi, tracciamento, medicina territoriale, trasporti.

Una sola cosa sembrano avere in testa: che il vaccino, salvando noi, salverà loro.

E’ l’errore più grande. Perché, anche dovesse tutto filare liscio, il vaccino non risolverà certo l’emergenza del primo semestre 2021, quando milioni di persone avranno l’influenza, la curva epidemica tornerà a salire, e l’arma del lockdown non potrà più essere usata senza distruggere definitivamente l’economia.

Meglio pensarci ora, all’emergenza che verrà, e “non dire gatto se non ce l’hai nel sacco”. Parola di Trapattoni.

Pubblicato su Il Messaggero del 5 dicembre 2020