Perché Salvini tiene

Che né Salvini né Di Maio abbiano la stoffa dell’uomo di Stato, o perlomeno di ciò che un tempo eravamo abituati a designare con questo termine, era chiaro prima del voto ed è ancora più chiaro oggi, dopo 14 mesi di governo. Né l’uno né l’altro sono stati capaci di mostrare, verso gli altri leader europei, verso le istituzioni comunitarie, verso gli organismi sovranazionali, il rispetto ad essi dovuto indipendentemente dalle differenze di vedute sulle questioni cruciali, siano esse la politica economica o la gestione dei migranti. Quanto alla politica interna, non si può non notare che il tasso di demagogia e di semplicismo toccati in questo primo anno di governo non ha precedenti nella storia unitaria: mai era successo che le analisi fossero così infantili tanto nella diagnosi dei nostri mali, quanto nella indicazione dei rimedi.

Negli ultimi mesi, tuttavia, su queste caratteristiche comuni dei due leader da cui dipende la sopravvivenza del governo, si è poco per volta innestata anche una importante differenza, di atteggiamento e di stile comunicativo. Il linguaggio di Salvini ha mantenuto (e forse accentuato) i suoi tratti più crudi, talora offensivi, mentre quello di Di Maio si è fatto via via più moderato e istituzionale, una differenza che peraltro si è anche sostanziata nel voto per l’elezione di Ursula von der Leyen al vertice della Commissione Europea, con i leghisti schierati contro e i pentastellati a favore.

A fronte di questa evoluzione, e nonostante il duro colpo all’immagine di Salvini inferto dalle recenti accuse di aver preso soldi dai russi, i sondaggi continuano a premiare Salvini e a punire Di Maio. Sembra quasi che, qualsiasi cosa accada nella comunicazione o nella realtà, l’elettorato non abbia alcuna intenzione di cambiare le proprie scelte, molto chiaramente espresse nel voto europeo, che ha più che raddoppiato i consensi alla Lega e quasi dimezzato quelli ai Cinque Stelle.

Su che cosa poggiano questa sorta di invulnerabilità di Salvini e fragilità di Di Maio?

Una possibile spiegazione è che Salvini, grazie alla sua insistenza sulle cose da fare e alle continue denunce delle resistenze altrui, sia riuscito ad accreditare la Lega come “partito dei sì” (sì alla flat tax, sì al Tav, sì all’autonomia delle regioni del Nord) e soprattutto ad appiccicare al Movimento Cinquestelle l’etichetta di “partito del no” (nonostante i Cinque Stelle abbiano anch’essi i loro “sì”, a partire dal salario minimo europeo). In certo senso si potrebbe dire che Salvini è riuscito nel capolavoro di trasformare un errore, o se preferite una scelta azzardata (bruciare risorse per quota 100, sottraendole alla flat tax), in un vantaggio competitivo con l’alleato di governo: proprio perché ho fatto solo quota 100, ora devo fare la flat tax.

Una seconda spiegazione è che gli italiani sono diventati sostanzialmente indifferenti alle presunte malefatte dei politici. Finché non emergono comportamenti clamorosamente immorali o scorretti, e finché i processi si celebrano solo sui giornali e in tv, gli italiani tendono a sospendere il giudizio sui politici chiacchierati, accusati, inquisiti. E’ paradossale, ma proprio la faziosità e superficialità di parte della Magistratura ha fornito alla politica un formidabile scudo contro le inchieste giudiziarie, viste come parti in commedia di una lotta fra poteri più che come strumento di garanzia.

Ma la spiegazione più importante è probabilmente un’altra e sta negli stili comunicativi di Salvini e Di Maio, o forse sarebbe meglio dire: nelle preferenze comunicative degli italiani. A me pare che, dopo un quarto di secolo di seconda Repubblica, almeno due punti dovrebbero essere considerati assodati.

Il primo è che, ci piaccia o no, volgarità, aggressività verbale, mancanza di rispetto dell’interlocutore, sono ormai entrate fra le modalità di comunicazione accettate dalla maggior parte degli italiani, e questo non certo per colpa dei politici. La politica si è limitata ad assorbire, per lo più con notevole ritardo, cambiamenti che si erano già ampiamente imposti in tv, alla radio, su internet, più in generale nel costume. Da questo punto di vista il fatto che la comunicazione di Salvini sia spesso poco ortodossa (eufemismo) e quella di Di Maio sia quasi sempre formalmente educata, non fornisce alcun vantaggio a quest’ultimo. Un esito aggravato dal fatto che, presumibilmente, quella parte (minoritaria) dell’elettorato che apprezza la pacatezza preferisce vederla unita a doti come competenza, preparazione, esperienza, capacità di argomentare in modo non ideologico, semplicistico o preconcetto: tutte qualità che non sono le prime che vengono in mente quando si tratta del capo politico del Movimento Cinque Stelle.

Il secondo punto è che, da quando Berlusconi ha rivoluzionato il linguaggio della politica, verosimilmente la qualità più apprezzata dagli elettori è diventata l’aderenza al senso comune. Agli italiani piace che il politico si esprima come l’uomo della strada, ma piace ancora di più che mostri di pensare e sentire come l’uomo della strada. Una sottile e perversa declinazione dell’ideale egualitario ci rende diffidenti verso i politici che sono (o appaiono) in qualche misura o in qualche senso superiori a noi, e ci fa adorare quelli che si pongono ostentatamente al nostro livello di persone comuni.

E cosa ha fatto Salvini, in questo primo anno di governo, se non esprimere pensieri, concetti, impulsi che chiunque di noi può provare solo che si trovi in determinate situazioni? Quanti milioni di persone, quotidianamente alle prese con i problemi della criminalità e dell’immigrazione nelle periferie della Penisola, hanno potuto constatare che il Ministro dell’Interno la pensava proprio come loro?

La differenza con Berlusconi è solo che Berlusconi si rivolgeva soprattutto ai ceti medi, in un’epoca in cui eravamo ancora pieni di speranze, e credevamo che questo paese potesse risollevarsi. Mentre Salvini si rivolge soprattutto ai ceti popolari, in un’epoca in cui la fiducia nel futuro è ormai un ricordo del passato.

Pubblicato su Il Messaggero del 22 luglio 2019



Tutta colpa di Renzi?

Da mesi, se non da anni, il ritornello è sempre il medesimo: se il Pd va male, se il Partito Democratico è uscito dalla scena politica e dall’immaginario collettivo del “popolo della sinistra”, la colpa è soprattutto del suo ultimo segretario Matteo Renzi. Lui è il principale imputato di un trend che ha visto il suo partito passare dal 33.2% del 2008 al misero 18.7% delle ultime consultazioni legislative. La crisi della sinistra e del suo principale referente politico sarebbe addebitabile, quasi in toto, all’ex-sindaco di Firenze, che l’ha portata su posizioni totalmente aliene dalla mainstream della tradizione post-comunista, verso tratti decisamente liberali, se non evidentemente conservatori.

Giorni fa. Intervista televisiva. Un operaio licenziato perché la sua fabbrica è stata acquisita da una multinazionale francese e trasferita nel nord della Francia: è stata colpa di Renzi e del Pd! Ora, dopo anni in cui ho votato Pci e la sinistra, ho scelto la Lega di Salvini. L’unico che può invertire la rotta che ha preso il nostro paese.

Sardegna. Agosto 2018. Festa del porceddu. Tra un discorso e l’altro, un anziano contadino: ho votato Lega, è il vero partito del cambiamento. Renzi ci ha ridotto proprio male, a noi sardi, ci ha ridotto in miseria. E sì che gli avevo pure dato il mio voto, la volta precedente. Purtroppo.

Renzi, Renzi, Renzi. Un fantasma si aggirerebbe dunque per l’Italia, il fantasma di colui che, a dispetto del glorioso partito che tentava di costruire il volto nuovo del paese, l’ha portato sostanzialmente alla rovina. Ma sarà vero? Sarà realmente tutta sua la colpa?

Osserviamo intanto per un attimo il trend dei consensi dell’area vicina al centro-sinistra in questo nuovo secolo, dal 2001 ad oggi (fig.1). Come si può notare, nei primi anni del decennio Ds e Margherita, separati o sotto il simbolo unitario dell’Ulivo, hanno costantemente ottenuto un successo elettorale di poco inferiore ad un terzo dei votanti. L’exploit di Veltroni del 2008, che correva per la prima volta con il neonato Partito Democratico, in realtà non è che sia stato un vero exploit: ha migliorato soltanto di poco, un paio di punti percentuali, il retaggio delle formazioni politiche aggregatisi nel Pd e, considerando  inoltre il fatto che il resto della sinistra (Rifondazione & soci) sia praticamente scomparsa, non si può che giungere alla conclusione che il bacino elettorale di quell’area non riuscisse ad andare molto oltre il 35-36% della popolazione italiana.

Fig 1. Consensi elettorali. Politiche + Europee

Una storia non inedita, peraltro. Una storia che ci riporta agli anni della prima repubblica, quando quell’area (sommando il Pci con le altre piccole formazioni di sinistra, come Democrazia Proletaria) anche allora non otteneva una quantità di consensi molto differente da quella di Pd e Rifondazione. Forse era inutile illudersi: gli italiani favorevoli alla sinistra di allora (o al centro-sinistra odierno) non sono mai stati nemmeno lontanamente prossimi al 40% della popolazione.

Il Partito Democratico, per certi versi, aveva scommesso sull’allargamento di quella base elettorale, tentando di attirare a sé anche una parte inedita di elettori, che avrebbe potuto guardare alla proposta del Pd con occhi nuovi, diversi dal passato. Il Pd, per riuscirci avrebbe dovuto partire dal quel 33% di Veltroni, incrementando anno dopo anno il suo bacino di consenso.

Ma così non è stato. Anzi. Dal 2008 in poi, in tutte le consultazioni legislative (fig.2) il Pd è costantemente retrocesso nel favore degli italiani, prima con Bersani (-8% rispetto a Veltroni) e poi con lo stesso Renzi (un ulteriore -6.5% rispetto a Bersani), in una costante e continuativa incapacità di intercettare quei settori sociali cui puntava per accrescere il proprio appeal. Tutti “colpevoli”, dunque, parrebbe di dover dire. Non soltanto infatti il Pd non è riuscito a diventare il referente di un nuovo elettorato, ma poco alla volta ha perso sia una parte dei suoi antichi estimatori ex-Pci, con Bersani, che anche dei nuovi, di quelli che avevano sperato in un cambio di prospettiva con Renzi.

Fig.2 Consensi elettorali. Solo Politiche – Camera

Perché, se torniamo ad osservare il primo grafico, si può chiaramente individuare un momento in cui, all’interno di questo cammino da gambero, il Partito Democratico ha vissuto una situazione così anomala che oggi molti stentano a credere che sia davvero accaduto. Nelle europee del 2014, pochi mesi dopo il suo insediamento, Matteo Renzi ha davvero compiuto un mezzo miracolo, andando a superare per la prima volta nella storia l’asticella del 40%. Certo, con un numero di votanti inferiore a quelli di Veltroni, ma comunque un risultato simbolicamente significativo.

Renzi era stato dunque capace di convincere una fetta importante di elettori che, con lui, sarebbe iniziato realmente un nuovo corso, un nuovo partito di centro-sinistra che si smarcava dai retaggi del passato, per guardare ad un futuro diverso. Inedito. La sua colpa, forse, è stata proprio quella di candidarsi ad un modo nuovo di governare, ad una modalità politica inedita per un partito di sinistra, senza averne realmente le capacità “politiche”. Il suo fulgore è durato poco, lo sappiamo, e presto è rientrato nei consueti parametri, inimicandosi inoltre con il suo comportamento gran parte di chi aveva per un attimo creduto in lui. Ma probabilmente la vera anomalia è stata proprio quel suo grande successo, che ha fermato per un attimo il declino inevitabile del Pd. Che poi è ripreso in maniera ineluttabile, con o senza Renzi.