Manovre al centro – Una nuova Margherita?

Nei giorni scorsi, a proposito delle manovre in corso a sinistra, su Repubblica è uscito un articolo di Massimo Giannini con il titolo “Quale centro può servire alla sinistra”.

Il nucleo dell’articolo si può riassumere così: va benissimo aprire una discussione che allarghi al mondo dei cattolici e dei centristi il perimetro della sinistra ma, per carità, guardiamoci bene dal fondare un nuovo partito, perché il luogo in cui fare quella
discussione esiste già ed è il Pd.

Leggendo – il giorno dopo – le pagine della Stampa (altra testata del gruppo Gedi) dedicate ai due raduni dei riformisti a Milano (con Romano Prodi e Ernesto Maria Ruffini) e Orvieto (con Paolo Gentiloni e Enrico Morando), il messaggio che il lettore ricava è analogo. Un titoletto sottolinea il “no a nuovi partiti” di Romano Prodi, una intervista a Gianni Cuperlo avverte fin dal titolo che “vanno bene anche idee diverse, ma la casa comune dev’essere il Pd”. Esattamente il preoccupato ammonimento di Giannini.

Non so se – sul tema della nuova casa dei riformisti – la stampa progressista che conta abbia una sua linea politica, ma mi pare evidente che, dentro il Pd, l’eventualità di una rinascita di qualcosa di simile alla Margherita di rutelliana memoria suscita molte preoccupazioni. Certo, adesso un po’ tutti negano, ma la tentazione di mettere in scena qualcosa di nuovo, a destra del Pd, si scorge ad occhio nudo. E quindi ben si comprende che chi al Pd è affezionato, o crede nella sua insostituibilità come guida
della sinistra, non veda di buon occhio le manovre al centro.

La mia impressione è che entrambe le posizioni, di chi vuole affiancare il Pd e chi vuole arricchirlo dall’interno, abbiano ottime ragioni dalla propria parte. Chi in cuor suo è tentato di resuscitare la Margherita (ossia cattolici e liberal-socialisti) ha perfettamente ragione a prendere atto che la “fusione a freddo” fra Ds e Margherita è fallita, o meglio ha avuto successo solo nella stagione renziana (2014-018), l’unico breve periodo nel quale i riformisti non sono stati sopraffatti dai post-comunisti.

Dopo Renzi, e più che mai dall’avvento di Schlein, il Pd è tornato a essere quel che erano i Ds, ossia un partito di sinistra-sinistra, ostile al mercato e perenne ostaggio di tentazioni giustizialiste. Quindi ben si comprende che chi è stato sconfitto ed emarginato (cattolici e liberal-socialisti), ora provi a rialzare la testa.

Ma anche quanti, come Cuperlo e Giannini, vedono come fumo negli occhi la nascita di un partito di sinistra moderata hanno le loro buone ragioni. Fusione e scissione non sono operazioni simmetriche e reversibili. Quel che ieri si tentò fondendo Ds e
Margherita, non può essere disfatto oggi scindendo il Pd per estrarne miracolosamente la Margherita. È vero che le grandi manovre per occupare il centro pretendono di rivolgersi soprattutto a delusi e indecisi, ma è difficile pensare che non
finiscano anche per sottrarre voti al Pd, così riattizzando l’incendio che l’era renziana aveva fatto divampare, e che si è spento solo con la riconquista della “ditta” da parte della vecchia guardia ex comunista dei Bersani e D’Alema.

Né pare una soluzione convincente quella – suggerita da Ruffini – di costituire anche in Italia una “maggioranza Ursula”, visto che Forza Italia, l’unico partito di destra candidato a farne parte, non raccoglie neppure il 10% dei voti (8.3% secondo l’ultimo
sondaggio) e rischierebbe di rimpicciolirsi ulteriormente ove un eventuale nuovo partito moderato di sinistra dovesse vedere la luce di qui alla fine della legislatura.

A quanto pare la strada dei riformisti è impervia e costellata di rischi, qualsiasi cosa facciano. Sempre che, di qui al 2027, qualche catastrofico errore di Giorgia Meloni o dei suoi non spiani alla sinistra la strada per tornare al governo. Senza colpo ferire.

[articolo uscito sulla Ragione il 21 gennaio 2025]




Forza Italia e il destino del centro

Che succede in Forza Italia?

In questi ultimi giorni si sta parlando di una imminente proposta di legge di Forza Italia che agevolerebbe l’acquisizione della cittadinanza italiana ai ragazzi stranieri che hanno completato uno o più cicli di studio. L’idea è già stata bocciata da Lega e
Fratelli d’Italia (non è nel programma di governo), mentre una significativa apertura sul cosiddetto Ius scholae – ovvero la cittadinanza in base agli anni di scuola in Italia – è arrivata da Giuseppe Conte con un articolo sul Corriere della Sera.

La cosa interessante è che Conte non solo ha appoggiato l’idea, attribuendone la paternità ai Cinque Stelle, ma ha anche attaccato il massimalismo di Pd e Alleanza Verdi-Sinistra (AVS), che punterebbero sullo Ius soli (basta nascere in Italia per ottenere la cittadinanza), ossia su una proposta non solo impraticabile (mancano i numeri in parlamento) ma anche politicamente sbagliata.

Una lettura congiunta di questi due episodi suggerisce un’ovvia osservazione: sia a destra (con Forza Italia) sia a sinistra (con i Cinquestelle) è in atto un tentativo di differenziarsi dalle forze più radicali, spostandosi verso il centro.

Questo doppio movimento, tuttavia, è molto più credibile a destra che a sinistra. La mossa di Forza Italia, infatti, non è estemporanea come quella dei Cinque Stelle, ma segue una serie di recenti mosse dello stesso tipo. Pochi giorni fa Tajani, leader di Forza Italia, ha fatto significative e assai esplicite aperture anche su un’altra proposta non gradita agli alleati di governo, quella di varare un provvedimento svuotacarceri, misura peraltro perfettamente in linea con la tradizione garantista del partito berlusconiano. Ancora più significativamente, un paio di mesi fa Marina Berlusconi, presentando i progetti della casa editrice Silvio Berlusconi Editore, ha fatto una dichiarazione molto impegnativa: “Se parliamo di aborto, fine vita o diritti Lgbtq, mi
sento più in sintonia con la sinistra di buon senso. Perché ognuno deve essere libero di scegliere”.

Sono tre mosse significative, che convergono su un unico obiettivo: salvare Forza Italia rafforzandone il profilo moderato garantista, liberale, e pure laico-libertario. Alla luce delle ultime mosse, non vi sarebbe nulla di strano se domani Forza Italia dovesse farsi promotrice di una legge sul fine vita, o desse disco verde al matrimonio egualitario.

È realistico un simile progetto di riposizionamento politico?

Secondo me sì, ma per spiegare perché occorre tornare ai Cinque Stelle e al loro speculare progetto di distacco da Pd e AVS. La differenza fra le due situazioni è che a sinistra qualsiasi forza moderata suscita una crisi di rigetto di natura ideologica, aggravata dal ricordo della stagione renziana. Mentre a destra un analogo rigetto non avviene perché i partiti di centro-destra, ormai da decenni, sono abituati a ricercare un equilibrio fra loro in modo pragmatico, lungo linee negoziali, senza scontri sui principi ultimi.

Ecco perché a destra c’è posto per una robusta gamba moderata, mentre a sinistra non c’è.

E la Margherita? potrebbe obiettare qualcuno, pensando a quando il centro sinistra la gamba moderata ce l’aveva eccome.
Ma è precisamente questo il punto. Per essere pienamente accettati nello schieramento di centro-sinistra, i moderati dovettero creare un loro partito, dotato di una massa elettorale critica, vicina a quella della componente post-comunista, e puntare su un “papa straniero” (Romano Prodi). È così che riconquistarono la maggioranza nel 2006, dopo il quinquennio berlusconiano.
Oggi siamo lontanissimi da quelle condizioni. La Margherita non esiste più, inabissata nel Pd; il progetto di dare al centro-sinistra una gamba moderata è fallito con la dissoluzione del Terzo Polo; la massa elettorale di Renzi è ridicola; il partito di Conte ha ben poco di moderato; quello di Calenda lotta per non scomparire; Elly Schlein è tutto tranne che un papa straniero.

Allo stato attuale il duo Tajani-Marina Berlusconi è di gran lunga l’offerta più credibile per gli elettori che guardano al centro.

[articolo per la Ragione, inviato il 19 agosto 2024]




Quegli anni bui del centrismo…

Gli anni che vanno dai primi governi Alcide De Gasperi allo sdoganamento delle forze di sinistra—i socialisti prima, i comunisti dopo—vengono descritti come una  sofferta fase di transizione tra la dittatura e la democrazia. Una chiesa che influenzava le scelte politiche, una radio che cestinava ogni prodotto artistico non in linea con i valori tradizionali (Dio, patria, famiglia), un’industria cinematografica soggetta alle più ottuse censure. Per chi ha vissuto quel periodo sembra di leggere una storia svolta a sua insaputa. Ero un liceale nei tardi anni cinquanta –l’unico studente della mia classe ad avere la tessera del PSI: invece della ‘Gazzetta dello Sport’, compravo ‘Il Mondo’ e non mi piaceva affatto vivere nella più bianca (allora) provincia italiana. Però ricordo anche altri aspetti di quell’Italia  dimenticati e rimossi: una televisione che, oltre a esercitare la censura, si preoccupava di elevare il livello culturale degli italiani (con sceneggiati di classici della letteratura e la mandata in onda del grande teatro europeo); una scuola selettiva non solo per gli studenti ma anche per i professori che, per diventare di ruolo, dovevano sudare sette camicie; un’amministrazione pubblica (stato e parastato) nella quale si entrava grazie a concorsi – tenuti nella mitica sede romana di Via Gerolamo Induno! – che non guadavano in faccia a nessuno; la diffusione del benessere in ampi strati sociali. La domenica nel mio paese ciociaro, prima della guerra, i contadini arrivavano in chiesa con i piedi dipinti di marrone per simulare le scarpe, nella mia adolescenza, li vedevo arrivare in macchina con grande sconcerto dei maggiorenti locali (‘di questo passo dove andremo a finire?’). Nel suo bel blog La nostra storia (‘Corriere della Sera’) Dino Messina ha recensito il libro di Pier Luigi Ballini ed Emanuele Bernardi, Il governo di centro: libertà e riforme. Alcide De Gasperi e Antonio Segni (Ed Studium). “I risultati della riforma che arrivò nel 1950 con una legge stralcio riguardante il delta del Po, la Maremma tosco-laziale, la Basilicata e la Puglia, la Sila e altre aree della Calabria, la Sicilia e la Sardegna sono racchiuse in un numero: 750 mila ettari distribuiti”. La vera rivoluzione sociale la fece la DC, a quella dei costumi avrebbero provveduto le sinistre.

 

Dino Cofrancesco




Il fazzoletto del centro

Forza Italia langue, ma Mara Carfagna – con la neonata associazione “Voce libera” – sembra intenzionata a costruire un’alternativa o una variante rispetto a Forza Italia. Sulla medesima strada si era messo poche settimane prima Giovanni Toti, ex forzista, ora governatore della Liguria, con la costituzione del movimento “Cambiamo”. E un processo analogo, di distacco di ali centriste, è in atto da mesi a sinistra, dove prima Matteo Renzi ha fondato “Italia Viva, e poi Carlo Calenda ha creato “Azione”.

Il fatto che qualcosa si muova nel cosiddetto centro dello spazio politico non può che rallegrare quanti, e sono molti, considerano inquietante l’attuale destra e deprimente l’attuale sinistra. Ciò nonostante, il consenso che le forze politiche di centro riescono a catalizzare è decisamente modesto, oggi come ieri. Alle elezioni politiche del 2008 le formazioni di centro raccoglievano il 7% dei consensi (soprattutto con l’Udc di Casini), a quelle del 2013 l’11% (soprattutto con Scelta civica di Monti), a quelle del 2018 il 15% (soprattutto con Forza Italia). E oggi?

Oggi, a giudicare dall’ultimo sondaggio pubblicato, il centro è sempre lì, appena sotto il 15%. La novità è che ora i soggetti partitici testati dai sondaggi sono diventati ben quattro, di cui due a destra (Forza Italia e Cambiamo, 5.5 e 1% rispettivamente), e due a sinistra (Italia Viva e Azione, 4.7 e 3.3% rispettivamente).

Ma che cosa impedisce l’allargamento del consenso ai partiti di centro? Come mai, nonostante i due blocchi principali suscitino tante perplessità, in Italia non si assiste alla formazione di un partito liberal-democratico capace di influire sugli equilibri complessivi del sistema politico?

Una ragione, ovviamente, è che spesso le operazioni di questo tipo sono al servizio di ambizioni personali, ed hanno quindi scarsissime possibilità di fondersi in un progetto politico unitario. Ma esiste, a mio parere, anche una ragione più profonda, e come tale più seria, per cui il centro non decolla. Ed è che, a ben vedere, le 4-5 formazioni che si contendono l’esiguo spazio politico dell’elettorato di centro sembrano d’accordissimo fra loro finché si tratta di sottoscrivere valori generici, ma si rivelano tutt’altro che d’accordo quando dal piano dei principi generali si scende a quello delle proposte politiche specifiche. Accade così di leggere che essere liberali significa condividere valori come “la libertà, la giustizia, l’uguaglianza, i diritti individuali, la crescita collettiva”, ossia tutte cose su cui sarebbero d’accordo anche le altre forze politiche, siano esse di destra o di sinistra. Fra i grandi e generici valori della politica solo l’europeismo sembra distinguere le formazioni liberali dalla maggior parte delle altre forze politiche (e in special modo da Lega, Fratelli d’Italia, Cinque Stelle).

Mentre non appena si passa a questioni più concrete, la comune matrice liberale sembra mettere tutti d’accordo su un punto soltanto: il garantismo e il conseguente rifiuto del giustizialismo. Su tutto il resto, come i migranti, la spesa pubblica, le tasse, la lotta all’evasione fiscale, i conti pubblici, spesso non è chiaro se le formazioni politiche che si richiamano alla tradizione liberale la pensino tutte allo stesso modo, e anzi talora è più che chiaro che la pensano in modo diverso. Ciò vale, in particolare, per le tre formazioni maggiori (Forza Italia, Italia Viva, Azione), di cui bene o male si conoscono alcune proposte portanti, ma anche non pochi significativi silenzi, specie in materia di risanamento dei conti pubblici.

Per quel che riesco a vedere, in questo momento l’offerta politica più interessante, e meno scontata, viene da Azione, il partito di Calenda. Da studioso, non posso non apprezzare il fatto che il programma del nuovo partito poggi su una interpretazione complessiva e dettagliata, degli anni della globalizzazione, nonché su un’analisi specifica del caso italiano (entrambe esposte nel suo libro Orizzonti selvaggi, Feltrinelli 2018). Quanto al contenuto del programma, trovo di notevole interesse due punti, entrambi controversi ma proprio per questo meritevoli della massima attenzione.

Il primo è, se mi si permette l’espressione, lo “sdoganamento della paura”, un sentimento di cui si riconosce la fondatezza e la piena legittimità: la paura non è un prodotto artificialmente generato dalla propaganda leghista; la pressione migratoria dell’Africa è insostenibile per l’Europa; l’Italia ha tutto il diritto di proteggere i propri confini, specie marittimi; respingimenti e rimpatri non sono tabù. Questo posizionamento mi pare interessante perché colloca il partito di Calenda in una posizione unica (e finora vuota) nello spazio politico italiano: Azione è l’unica forza di sinistra non populista e al tempo stesso chiaramente critica con le politiche di accoglienza dell’era renziana. È una novità, perché fino a ieri l’elettore progressista preoccupato per gli ingressi incontrollati aveva una sola possibilità: votare i Cinque Stelle, unico partito dello schieramento di sinistra ostile all’apertura dei porti.

Il secondo punto meritevole di attenzione (e forse anche di qualche dubbio) è l’idea, che spesso riemerge dalle analisi e dagli interventi di Calenda, che la via maestra per restituire sicurezza economica alla gente, e al tempo stesso risanare i conti dello Stato, sia la lotta all’evasione fiscale (recuperare 50 miliardi). Da tale lotta, infatti, Calenda non si aspetta solo sgravi contributivi e una riduzione delle aliquote per chi le tasse le paga già, ma anche nuova spesa pubblica (su scuola, sanità e assistenza) e un azzeramento del deficit pubblico. Di qui una conseguenza logica difficilmente eludibile: se solo una parte dei proventi della lotta all’evasione serve a ridurre le aliquote, il gettito fiscale aumenta, e con esso tende ad aumentare la pressione fiscale complessiva (un esito che solo un ritorno alla crescita potrebbe scongiurare).

Questa posizione è interessante perché segnala un’importante (presumibile) differenza con le politiche degli altri partitini di centro, specie di Forza Italia, da sempre indulgente verso l’evasione, e convinta che solo uno shock fiscale possa rimettere in moto la macchina dell’economia.

Ecco perché credo che, al momento, il grande movimento di sigle e persone al centro dello spazio politico meriti attenzione, ma anche una certa vigilanza. Calenda, con il suo libro, le carte le ha messe quasi tutte in tavola. Gli altri partitini un po’ meno. Da Forza Italia e Voce libera, ad esempio, si vorrebbe sapere se le loro ricette economico-sociali sono le stesse degli ultimi due decenni. Quanto a Italia Viva, non è chiaro che partito potrà essere, visto che finora ha governato con una forza politica – i Cinque Stelle – che è il suo esatto contrario.

Pubblicato su Il Messaggero del 30 dicembre 2019