No al fascistometro!

Vistodagenova

 

Nella ‘Democrazia in America’, Alexis de Tocqueville scriveva quasi due secoli fa: “nel mondo moderno, l’in­dipendenza della stampa è l’elemento capitale e, per cosi dire, costi­tutivo della libertà. Un popolo che vuole restare libero ha dunque il diritto di esigere che la si rispetti ad ogni costo” ma confessava di non avere ”per la libertà della stampa quell’amore completo e immediato che si accorda alle cose sovranamente buone per loro natura. L’apprezzo per i mali che essa impedisce, molto più che per il bene che essa fa. Purtroppo, concludeva, “in materia di stampa non vi è un giusto mezzo tra la servitù e la licenza. Per raccogliere gli inestimabili beni, che la libertà di stampa assicura, bisogna sapersi sottomettere agli inevitabili mali ch’essa fa sorgere”. Quando vedo il catalogo dell’editrice ‘Passaggio al bosco”—con i libri di Corneliu Codreanu, Leon Degrelle, Julius Evola—non posso evitare un profondo sconforto e, tuttavia, non mi rassegnerò mai a considerare reato un’opinione e a chiedere la censura su scritti che mi ripugnano, fosse anche il ‘Mein Kampf’ di Adolf Hitler. Se alla mostra della Fiera di Roma, ’Più libri, più liberi’ non si vogliono testi apologetici del nazifascismo, perché lo stesso divieto non dovrebbe valere per le librerie o per le bancarelle? In realtà, l’aver fatto dell’apologia del fascismo un reato di competenza del questore e del magistrato è un vulnus della ’civiltà del diritto’, che distingue la colpa morale, dal reato penale e dal peccato. Le opinioni ‘indecenti’ vanno sottoposte alla sanzione della società civile (perdita di stima, isolamento del trasgressore etc.) non ai tribunali. Anche perché è difficile stabilire quando un’opinione diventa reato. Tanti anni fa, si discusse, in un’antica società culturale ligure, se accogliere come socio un docente universitario di Storia delle dottrine politiche. Qualcuno, uno storico comunista di nobile famiglia genovese, si oppose dicendo che era un fascista: alla richiesta di provarlo, lo storico ricordò la sua collaborazione a ‘Storia contemporanea’ ,la rivista fondata e diretta dal più grande storico del fascismo del secolo scorso, Renzo De Felice. Una volta ammesso il ‘fascistometro’, è difficile che l’autorità, incaricata della ‘misurazione’ ,non abusi del suo potere, anche per ragioni private. Per parafrasare le parole del gerarca nazista, potrebbe sempre dire:”sono io che decido chi è fascista e chi non lo è”.

 

Professore Emerito di  Storia delle dottrine politiche Università di Genova

dino@dinocofrancesco.it

[Articolo uscito su Il Giornale del Piemonte e della Liguria il 9 dicembre 2025]




Guerra e retoriche

Vistodagenova

“Non si vede—ha scritto Edgar Morin in un editoriale del ‘Manifesto’ del 28 novembre u.s., Lo spettro russo e il degrado delle democrazie—come una pace giusta possa mettere le province russofone sotto il controllo di uno stato ucraino che ha bandito la lingua russa, la sua cultura, la sua musica.”. “La pace giusta dovrebbe comportare l’indipendenza politica e militare dell’Ucraina” ma dovrebbe, altresì, ”confermare la russizzazione delle province separatiste e uno statuto per la Crimea, che nel 2014 includeva 1.400.00 russi, 400.000 ucraini, 300.000 tartari, primi abitanti della Crimea” .Sono molti gli italiani che, a destra, al centro, a sinistra condividono le tesi di Morin, ”uno dei massimi intellettuali contemporanei”, ma, a riprenderle, si corre il rischio di essere etichettati come amici di Putin. Viene in mente  la gogna mediatica cui fu sottoposto Benedetto Croce nel 1914 per non aver aderito subito al fronte democratico che si batteva contro gli autoritari imperi centrali (magari con un alleato come la Russia zarista i cui governi certo non si ispiravano alla filosofia di Montesquieu). Il filosofo napoletano venne soprannominato von Kreuz e il paese entrò, col radioso maggio, nella guerra che avrebbe segnato la finis Europae e fatto registrare milioni di morti, distruzioni spaventose e vuoti di potere, presto riempiti dai primi regimi totalitari della storia, nazista e comunista.

Beninteso, non m’interessa stabilire chi abbia ragione nel conflitto in corso. A farmi riflettere è la censura del dibattito pubblico, come se già fossimo in guerra contro Putin e tenuti, quindi, a non consentire che la propaganda, le menzogne, le falsità del nemico raggiungano gli italiani. Tutto questo espone i partiti europeisti e atlantisti al rischio di perdere consensi. Conosco persone di destra che votano Marco Rizzo–o il Movimento 5 Stelle–unicamente per le loro posizioni di politica estera e persone di sinistra che non si riconoscono affatto nelle poco credibili crociate in difesa dell’Occidente bandite da politici, giornalisti, intellettuali fino a ieri ferocemente avversi alle democrazie capitalistiche e che, pertanto, non vanno più a votare. La guerra è una cosa brutta, sporca e cattiva e accusare la Casa bianca di svendere l’Ucraina alla Russia, pur di far tacere i cannoni ,è indice solo della superficialità  da sempre inseparabile dallo stile retorico nazionale.

Professore Emerito di  Storia delle dottrine politiche Università di Genova

dino@dinocofrancesco.it

 

[Articolo pubblicato su Il Giornale del Piemonte e della Liguria il 2 dicembre 2025]




Sul discorso di Vance – Tradimento dei valori occidentali?

Sulla condotta della guerra in Ucraina da parte dell’Europa e degli Stati Uniti si possono avere le idee più disparate. Non è palesemente irragionevole la posizione di quanti paventano il pericolo che la Russia voglia annettersi altre porzioni dell’Europa, e dunque pensano che abbia fatto bene la Nato a fornire aiuto alla “resistenza” ucraina. Ma non è neppure palesemente irragionevole la posizione diquanti fanno notare che la precedente espansione a est della Nato, con l’obiettivo di includere l’Ucraina nel blocco occidentale. sia stata una mossa quantomeno azzardata.

Quello che invece, personalmente, ritengo sia stato irragionevole (e anti-democratico) è la chiusura a riccio che l’informazione main stream ha adottato dallo scoppio della guerra, silenziando quasi tutte le voci esplicitamente critiche. Sulla guerra, come pochi anni prima sul Covid, i grandi media hanno scelto di tappare la bocca alle voci dissenzienti con la linea ufficiale (vaccini + armi), costrette a rifugiarsi su testate minori o siti eterodossi, con conseguente perdita di ogni possibilità di incidere sul discorso pubblico articolando punti di vista alternativi o sollevando utilissimi dubbi.

È anche a causa di questa lunga stagione di conformismo e autocensura collettiva che l’Europa si trova oggi completamente spiazzata, quasi incredula di fronte al fatto che le cose non sono andate come aveva sperato, e come fino all’ultimo si è ostinata a credere che stessero andando. Eppure non ci voleva molto ad accorgersi che la guerra di Putin era solo il secondo tempo della guerra del Donbass, o che l’espansione della Nato ai confini della Russia poteva essere percepita come una minaccia, o che le sanzioni facevano più male a noi che alla Russia, o che la controffensiva ucraina era fallita da tempo. E non occorreva essere raffinati strateghi per capire che, trattando Zelensky come una star mediatica e un eroe (ricordate i parlamenti europei collegati e
plaudenti nei primi mesi di guerra?) e Putin come nient’altro che un criminale di guerra, diventava automaticamente impossibile ritagliarsi quel ruolo di mediatori e facilitatori di un compromesso da cui ora si viene brutalmente estromessi dall’attivismo del neo-eletto presidente degli Stati Uniti.

Alla luce di queste riflessioni, non vedo nulla di strano, o di sorprendente, nei toni e nella sostanza dei discorsi di Donald Trump e di James David Vance (suo vice) quando tendono a escludere l’Europa dalla trattativa con la Russia, stante il fatto che l’Europa stessa è rigidamente schierata dalla parte di uno dei due contendenti, non ha fatto tentativi credibili di fermare la guerra, e per di più è militarmente debolissima, se non irrilevante. Dove invece il discorso tenuto nei giorni scorsi da Vance mi appare paradossale, anzi spudorato, è quando accusa l’Europa di avere tradito i valori occidentali, e in particolare la difesa della libertà di parola, il principio del free speech. Ora, è vero che Vance ammette le responsabilità del suo Paese, ma il punto è che le scarica tutte sull’amministrazione Biden (2021-2024) e sul suo ricorso alla censura con il pretesto della lotta alla disinformazione e ai discorsi d’odio. Non si può sorvolare sul fatto che proprio negli Stati Uniti è nato il politicamente corretto, è negli Stati Uniti che, intorno al 2012-2013 (ben prima dell’era Biden), è avvenuta la sua mutazione in “follemente corretto”, è dagli Stati Uniti che l’Europa ha importato quel morbo. E l’aspetto più grave del fenomeno, i licenziamenti dei professori e l’intimidazione degli studenti non allineati al credo woke, non è certo venuto meno durante il primo mandato di Trump (2017-2020), che ne ha anzi visto una recrudescenza, sotto i colpi del MeToo e del movimento Black Lives Matter, esploso dopo l’uccisione di George Floyd.

Resta il fatto, comunque, che il discorso di Vance – al di là della grande questione del modo di terminare la guerra in Ucraina – ha posto sul tappeto un tema vero: quali siano, oggi, i “valori condivisi” dell’occidente, ammesso che ne esistano. Non solo il free speech, su cui è difficile dargli torto, ma anche la democrazia stessa, messa in forse – secondo Vance – dall’annullamento delle elezioni in Romania, ma anche dal mancato rispetto della volontà popolare in materia di politiche migratorie. E, aggiungerei io, dal mancato rispetto della medesima volontà popolare in America, ai tempi dell’assalto dei trumpiani a Capitol Hill.

Ma questo, evidentemente, Vance non poteva dirlo.

[articolo uscito sulla Ragione il 18 febbraio]




Deportazioni o rimpatri?

Sono tante le ragioni per cui la grande stampa nazionale, e più in generale i grandi media, hanno perso autorevolezza. Certo, anche in passato ben pochi si fidavano ciecamente di “quel che scrivono i giornali”, o di “quel che dice la tv”. Però mai
come oggi il pubblico ha tanto diffidato dell’informazione che pretende di essere obiettiva, non faziosa, o super partes.

Fra le tante ragioni per cui ciò è accaduto, ve ne è una che forse meriterebbe maggiore attenzione, e forse maggiore vigilanza: l’informazione main stream è diventata subdola. Ossia non conduce le sue battaglie fondamentali in campo aperto,
dichiarando esplicitamente da che parte sta, ma manipolando il flusso delle notizie. Un’arte che, con il tempo, si è arricchita di strumenti via via più potenti (e pericolosi).

Un posto importante, in proposito, è occupato dalla sistematica censura delle notizie gravemente dissonanti, condannate a vivere solo su fogli minori, per ciò stesso considerati estremisti, inaffidabili, o semplicemente irrilevanti. Ma un posto forse ancora più importante è costituito dall’uso, cosciente e intenzionale, di termini inappropriati e fuorvianti per descrivere i fatti della realtà.

Il modo di chiamare le cose è importante, perché può suscitare sentimenti e giudizi, ma proprio per questo è essenziale che non sia distorsivo. Qui si annida un pericoloso equivoco: molti giornalisti, e più in generale comunicatori, pensano di essere responsabili dei sentimenti che i loro scritti possono suscitare, e proprio per questo praticano sistematicamente la censura, la deformazione, la manipolazione terminologica. Come se chiamare le cose con il loro nome fosse legittimo solo quando la verità che il nome rivela è innocua, o non rischia di suscitare i sentimenti sbagliati, o è adatta a suscitare i sentimenti giusti.

Di questo tendenzioso uso della lingua abbiamo avuto un esempio lampante negli ultimi giorni. Tutte le maggiori testate italiane hanno tradotto il termine inglese deportation, che negli Stati Uniti è usato per indicare espulsioni o rimpatri, con il termine italiano ‘deportazione’ che nella nostra lingua ha un significato ben diverso, oltreché un sinistro richiamo alle deportazioni degli ebrei nei campi di concentramento nazisti (vedi in proposito il Dizionario Treccani, che dà due significati principali di ‘deportazione’, nessuno dei quali corrisponde a espulsioni o rimpatri). È vero che se si deve tradurre il nostro ‘deportazione’ si deve usare deportation (non c’è altra parola in inglese), ma il punto è che – nell’uso che ne fanno gli americani – deportation significa espulsione o rimpatrio, e quindi così andrebbe tradotto.

I giornalisti italiani non sono in grado di cogliere la distinzione fra rimpatrio e deportazione? No, semplicemente hanno ritenuto proprio dovere stigmatizzare le politiche migratorie di Trump, e altrettanto loro dovere non stigmatizzare le medesime politiche quando erano attuate da presidenti democratici.

Con questo non voglio dire che chi è contro le espulsioni non abbia le sue ragioni, o non abbia il pieno diritto di esporle pubblicamente. Il punto è che tali ragioni (che in parte io stesso condivido) dovrebbero essere argomentate come tali, non sostenute surrettiziamente manipolando il linguaggio per deformare l’immagine dell’avversario politico. Usare termini inappropriati (e squalificanti) per descrivere quel che l’avversario fa è una variante peggiorativa della ben nota e screditata tecnica dello straw man, ovvero criticare l’avversario mettendogli in bocca cose che non ha detto. Qui, in altre parole, non gli si fa dire quel che non ha detto, ma – chiamando con altro nome quel che ha fatto – gli si fa fare quel che non ha fatto.

E non si venga a dire che le manipolazioni della lingua sono a fin di bene, ovvero per mostrare al mondo in che orribili mani si sono posti gli americani, e rischiamo di finire pure noi. Questa obiezione è sbagliata non solo perché il compito specifico dell’informazione è dire la verità, non cambiare il mondo nella direzione prescritta dalla “linea” della testata. È sbagliata anche perché, proprio se si crede (erroneamente) che il giornalista sia responsabile dei sentimenti che suscita, è arduo non vedere che parlare di deportazioni produce almeno due effetti opposti: non solo indignazione nei già sempre indignati, ma anche ulteriore entusiasmo e odio in quanti sarebbero ben felici di vedere vere deportazioni. È amaro constatarlo, ma si può istigare all’odio anche cercando di spegnerlo.

[articolo inviato uscito sulla Ragione il 28 gennaio]




Sui limiti della libertà di espressione – Le parole sono importanti

Non ricordo un periodo in cui si sia parlato così tanto, e così costantemente, di libertà di espressione. Il caso di Tony Effe, di cui tanto si è parlato nei giorni scorsi, è infatti solo l’ultimo episodio di una serie di controversie che, in un modo o nell’altro, hanno coinvolto ogni sorta di soggetti: politici, ministri, scrittori, docenti, giornalisti, comuni cittadini. Giusto per fare alcuni esempi: la presidente della Camera Laura Boldrini che denuncia i suoi detrattori in rete; l’università di Milano che sospende il prof. Marco Bassani per aver condiviso (su Facebook) una vignetta sarcastica su Kamala Harris; Giorgia Meloni che querela il prof. Canfora per averla definita “neo-nazista nell’animo”; gli scrittori sgraditi silenziati dai contestatori al Salone del Libro di Torino; lo scrittore Saviano disinvitato da un programma Rai per i contenuti anti-governativi di un suo discorso sul 25 aprile. Eccetera.

Apparentemente, in molti di questi casi, ci troviamo di fronte a un dilemma: da una parte la libertà di espressione, dall’altra qualche principio altrettanto alto (la dignità umana, l’anti-fascismo, ecc.), che però confligge con la prima. È questo il motivo per cui, in ultima analisi, è praticamente impossibile stabilire in modo chiaro, univoco e condiviso i limiti della libertà di espressione.

E tuttavia…

Tuttavia c’è almeno una cosa che potremmo fare per regolare in modo ragionevole queste controversie: non forzare il senso delle parole. Morettianamente, ricordarci sempre che “le parole sono importanti”. Usarle a sproposito porta a fraintendimenti e inutili conflitti.

La parola censura, ad esempio. Censura è quando un’autorità vieta la circolazione di un testo, o impedisce a un cittadino di esprimere le sui opinioni, non quando un autore o un artista (o persona che tale si sente), non viene invitato a un evento, o a una trasmissione, o a esprimersi su una piattaforma. Il potere culturale, editoriale, letterario esiste, talora favorisce gli autori di destra, talora (più di frequente) quelli di sinistra, ma quella non è censura. È esercizio, più o meno partigiano, più o meno illuminato, di un potere costitutivamente arbitrario. San Remo non è un concorso universitario, e il direttore artistico ha tutto il diritto di invitare chi vuole, perché a lui è staro delegato quel potere. Possiamo criticare Carlo Conti se esclude Patty Pravo o Al Bano, ma non gridare alla censura. Lo stesso vale per i tanti che si sentono esclusi dalla programmazione Rai, o da un talk show, o da un concorso letterario. Possiamo parlare di “amichettismo”, circuiti privilegiati, cerchie che escludono e cerchi magici che includono. Ma di censura no, se non altro per rispetto verso i veri censurati sotto le dittature e i regimi dittatoriali.

Un altro esempio è la parola pensiero. Gli insulti, le offese, le ingiurie, non sono manifestazioni della libertà di pensiero, anche quando usate nell’ambito di un ragionamento politico. Si può discutere, caso per caso, dell’opportunità di querelare per diffamazione (un reato che è stato rilanciato dalla depenalizzazione dell’ingiuria), ma non si può invocare la libertà di pensiero per giustificare un’offesa, o teorizzare che le querele vanno ritirate se c’è squilibrio di potere fra querelante e querelato.

Soprattutto non si possono usare due pesi e due misure: se Laura Boldrini faceva bene a denunciare i suoi odiatori (per lo più anonimi), altrettanto bene fa Giorgia Meloni con i propri detrattori (per lo più ben protetti dall’establishment culturale).

Un altro esempio ancora sono le parole dissenso, contestazione, critica usate per giustificare chi impedisce materialmente lo svolgimento di una manifestazione, di un incontro, di un convegno, di un evento culturale. Qui gli esempi – in parte già richiamati – sono tantissimi e molto diversi fra loro. Studenti che, in diverse università, impediscono di parlare a Maurizio Molinari e David Parenzo in quanto ebrei. Contestatori che impediscono a Eugenia Roccella di parlare al Salone del libro e agli Stati generali della natalità. Attivisti che impediscono il volantinaggio ad attivisti di diverso credo politico. Manifestazioni di piazza per impedire altre manifestazioni. Presentazioni di libri soppresse per l’argomento del libro (l’ebrea Golda Meir). Sempre ogni volta in nome del sacrosanto diritto al dissenso e alla manifestazione del pensiero, tutelati dagli articoli 17 e 21 della Costituzione. È il caso di notare che quel che questi esempi hanno in comune non è l’uso della violenza, perché in diversi casi si tratta di manifestazioni pacifiche, che ottengono il risultato voluto (il silenzio altrui) senza ricorrere all’uso della forza, talora anzi adoperando mezzi creativi: liberare decine di migliaia di grilli in una sala per impedire un evento culturale sgradito (è successo anche questo) può essere più efficace di un picchettaggio o di un’irruzione di massa.

Ebbene, anche in questi casi le parole sono usate a sproposito. Impedire a qualcuno di parlare non è né dissenso, né contestazione, né critica. Semmai è privare qualcuno di un suo diritto, quello di manifestare il proprio pensiero in pubblico. Ma come si chiama questa cosa?

Ed ecco il problema: per questa cosa, in particolare quando non è violenta, non solo non abbiamo un reato, ma nemmeno una parola. Anzi, forse non abbiamo il reato precisamente perché ci manca la parola per dire la cosa. Usiamo la parola dissenso, ma il dissenso è il motivo dell’azione, non l’azione stessa. Per quest’ultima abbiamo solo concetti approssimativi: silenziare, zittire, oscurare, sopraffare (grillare?).

Peccato, perché “le parole sono importanti”.

[articolo uscito sul Messaggero il 22 dicembre 2024]