Siamo Europei?

Più si avvicina la data delle elezioni europee e più diventa difficile districarsi. A giudicare dalla propaganda dei partiti, lo scontro sarebbe fra europeisti e sovranisti. Da una parte le forze europeiste, ovvero Pd, Forza Italia, + Europa (la lista di Emma Bonino), dall’altra le forze sovraniste, ovvero Lega, Cinque Stelle, Fratelli d’Italia. Gli uni convinti dell’inestimabile valore dell’edificio europeo, gli altri fautori di un ritorno al primato degli stati nazionali. O anche, secondo una versione più radicale del medesimo racconto: i primi determinati a salvare l’Europa dalla disgregazione cui sta andando incontro, gli altri ben contenti di infliggere all’Europa il colpo di grazia.
A guardare le cose con più attenzione, tuttavia, le cose sono molto più complicate di come sembrano.
Dopo l’era dei proclami anti-europa e anti-euro, non c’è praticamente alcuna forza politica importante che auspichi l’uscita di uno stato membro dall’Unione, e tantomeno il ritorno alla valuta nazionale. D’altro canto, fra le forze che si proclamano europeiste, non ve n’è neppure una che non riconosca i gravi limiti dell’edificio europeo e della sua governance.
Dunque è lecito porre la domanda: che significa, oggi, essere europeisti? O ancora meglio: per chi deve votare chi si sente europeista?
A prima vista la risposta è semplice: se sei europeista, vota la lista di Emma Bonino oppure il Pd. In effetti, sono gli unici partiti che hanno l’Europa nel nome stesso. Il partito della Bonino si chiama +Europa, il partito di Zingaretti di presenterà con un simbolo nel quale giganteggia la scritta “Siamo europei” (una concessione a Calenda e al suo manifesto per l’Europa).
Se però ci pensiamo bene, il quadro si complica non poco. Una prima complicazione deriva dal fatto che, sulle cose che contano, ossia la politica economico-sociale, non sono affatto chiare le differenze fra i due schieramenti. Al momento, se provate a interrogare un elettore europeo, è molto improbabile che abbia un’idea di quel che effettivamente farebbe, in materia di tasse e spesa pubblica, una Commissione Europea a maggioranza socialista, popolare, o sovranista. Del resto, quasi sicuramente, non avremo né un governo europeo a guida socialista, né uno a guida popolare, né tantomeno uno a guida sovranista. Quel che è ragionevole aspettarsi è o il solito ménage a trois fatto di popolari, socialisti e liberaldemocratici, oppure un qualche tipo di alleanza dei popolari con conservatori e sovranisti.
Ma c’è una seconda complicazione, molto più seria. L’ha messa molto lucidamente in luce Massimo Cacciari qualche giorno fa quando, di fronte a un Carlo Calenda visibilmente soddisfatto che il Pd avesse fatto proprio il motto “Siamo Europei”, inserendolo addirittura nel simbolo elettorale, ha fatto notare che quello “è uno slogan sbagliato perché dà l’idea che l’Europa funzioni”. Secondo Cacciari lo slogan doveva essere un altro, ovvero “Nuova Europa”, per segnalare che si è consapevoli di tutto quello che nell’Europa non va.
Ecco, credo che Cacciari abbia individuato con precisione chirurgica il tallone d’Achille del fronte europeista. Il rischio è che l’elettorato non percepisca affatto gli autoproclamati europeisti come gli intrepidi difensori della casa europea minacciata dai sovranisti, ma al contrario li veda come i custodi dello status quo, che i sovranisti vogliono giustamente sovvertire.
Che questo rischio sia reale mi ha convinto la risposta che Carlo Calenda ha dato a una acuminata domanda di Lilli Gruber: “in queste ore c’è una nave di una Ong tedesca con 60 naufraghi a bordo che chiede di attraccare in Italia, se lei fosse al governo come si comporterebbe?”. Risposta di Calenda: “io li farei sbarcare e chiederei agli altri paesi europei di prenderli pro-quota”. Salvo poi aggiungere, con l’accordo di tutti i presenti, che una delle ragioni per cui l’Europa non ha funzionato è precisamente il nazionalismo degli stati membri, a partire da Francia e Germania.
Che cosa può capire un elettore di fronte a questa posizione?
Può capire tante cose, ad esempio che il Pd vuol cambiare le regole, e si batte per un’Europa più solidale. Ma può anche capire una cosa diversa. Ad esempio che nulla è cambiato, e che la posizione dell’Italia sarebbe la solita: in nome dell’umanità ci rassegniamo a far sbarcare chiunque sia raccolto in mare, e poi, solo poi, dopo aver accolto i naufraghi in Italia, “chiediamo” agli altri paesi se per favore ne prendono in carico una parte. Ma potrebbe andare anche peggio, per il fronte europeista. L’elettore sconcertato da discussioni come quella fra Calenda e Cacciari, entrambi scatenati come furie contro il nazionalismo passato di quasi tutti gli stati europei, potrebbero anche pensare che lo scontro di maggio non sia fra europeisti e nazionalisti, ma fra il nazionalismo passato dei governi europei, che ha scaricato interamente sull’Italia il dramma dei flussi migratori, e il nazionalismo futuro promesso dai sovranisti, che essi promettono meno penalizzante per l’Italia.
A queste osservazioni, ne sono certo, qualcuno obietterà che sono “ben altri” i problemi dell’Europa, dalla crescita alle diseguaglianze, dall’ambiente alla politica estera, dal commercio con la Cina alla difesa dei consumatori, e che quello migratorio è solo uno dei tanti dossier. Può anche darsi, anzi direi che è proprio così. Ma il punto è che, stante l’incapacità dei politici di fare promesse chiare e credibili in materia economico-sociale, la campagna elettorale si concentrerà su un’unica questione, quella dei migranti. E’ su questo terreno che gli europeisti di casa nostra, se non vogliono essere travolti dall’ondata sovranista e populista, sono chiamati a fornire risposte non elusive. Dire che prima li facciamo sbarcare e poi si chiede agli altri paesi di accoglierli, significa lanciare un solo terribile messaggio: niente da fare, tutto come prima. Con tati saluti alla “nuova Europa” giustamente vagheggiata da Massimo Cacciari.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 6 aprile 2019



Fronte europeista, è una buona idea?

Così, pare che alle prossime elezioni europee la sinistra non sarà rappresentata, come al solito, dal Pd e dai suoi partiti satelliti. Al posto dei simboli di partito, sulla scheda elettorale troveremo un simbolo nuovo, che cercherà di rappresentare il campo delle forze progressiste e europeiste, unite dalla volontà di difendere il “progetto europeo”, e fermare l’avanzata delle forze sovraniste e illiberali che lo starebbero mettendo a repentaglio.

L’idea di una lista unica progressista, o di un “fronte repubblicano” che fermi la “deriva populista”, circola da molti mesi nel mondo della sinistra, ed ora ha ricevuto una sorta di codificazione nel manifesto che Carlo Calenda ha lanciato qualche giorno fa, raccogliendo in pochi giorni oltre 100 mila firme. Calenda è uno dei migliori politici in circolazione in Italia, e il suo manifesto è pieno di affermazioni ragionevoli e di idee interessanti, anche se – purtroppo – espresse nel consueto linguaggio legnoso dell’intellighenzia di sinistra.

Tutto bene, dunque? E’ una buona idea, questa di un fronte anti-populista che superi le divisioni del campo progressista?

Temo di no, e vorrei spiegare perché. La prima ragione di perplessità è che, a dispetto delle intenzioni, il manifesto del fronte progressista sarà percepito come un progetto conservatore: in politica, specie al giorno d’oggi, quel che conta non è quel che effettivamente si dice e si pensa, ma come quel che si dice e si pensa si deposita nel cervello di chi ascolta. Ebbene, se ci mettiamo da questa prospettiva, non ci vogliono nozioni particolarmente sofisticate di psicologia della percezione per rendersi conto che la gente non crederà, non potrà credere, al racconto del manifesto-Calenda. Il manifesto sostiene che le forze populiste rischiano di farci uscire dall’Europa e dall’euro, e che “noi”, i progressisti democratici, invece vogliamo fermamente restare in Europa, sia pure cambiandone alcune regole di funzionamento. Ma nelle menti di chi vota il messaggio suona diverso. La gente non pensa che il governo giallo-verde voglia farci uscire dall’Europa e dall’euro, e quindi,  quando sente i progressisti accalorarsi a difesa del “progetto europeo”, traduce così: i populisti-nazionalisti-sovranisti l’Europa vogliono cambiarla davvero, i progressisti invece no, a loro l’Europa va bene così com’è, o con pochi ritocchi.

Ed è sterile accanirsi sulle parole, affannarsi a specificare che anche noi, in realtà, vogliamo cambiare profondamente le cose, eccetera eccetera. Se credi che la posta in gioco, la vera linea di frattura, sia fra europeisti e sovranisti, allora hai già perso la sfida: perché l’opinione pubblica si è convinta che l’Europa così com’è non funziona per niente, e non crede che l’alternativa sia fra stare dentro e stare fuori, ma semplicemente fra chi vuole cambiare radicalmente le cose e chi si accontenta di un timido restyling. E, sull’Europa, lo scetticismo dell’opinione pubblica è perfettamente fondato. Sono troppe le scelte sbagliate del passato, sono troppe le regole che non hanno funzionato: eccesso di regolazione del mercato interno, insufficiente protezione contro la concorrenza sleale, specie cinese; precocità dell’allargamento a est; trattato di Dublino sui migranti; incapacità di far rispettare ai paesi membri gli impegni di redistribuzione dei richiedenti asilo; uso politico e discrezionale della regola del 3% di deficit pubblico.

Ma c’è anche un’altra ragione per cui quella di un fronte europeista, che si presenta alle elezioni con una lista unitaria, mi pare un’idea tanto generosa quanto infelice. Ed è che se c’è una cosa su cui tutti gli studiosi di cose elettorali concordano, perché è un risultato condiviso di centinaia di studi indipendenti, è che in Italia le fusioni fra partiti e sigle politiche non portano più voti ma ne portano di meno: il tutto è di meno della somma delle parti. E’ successo nel 1948, quando il fronte democratico-popolare (comunisti e socialisti insieme) uscì a pezzi nello scontro con la Dc, ma si è ripetuto in innumerevoli occasioni successive, nella prima come nella seconda Repubblica: ogni volta che hanno unito le loro forze, Psi e Psdi, così come Pri e Pli, così come Ds e Margherita, hanno sempre registrato una contrazione del consenso elettorale.

Certo, si può pensare che oggi la situazione sia diversa e speciale, e che il problema dei progressisti sia di inventarsi qualcosa, un simbolo, uno slogan, un mito, per far ritornare all’ovile chi si è rifugiato nell’astensione, o ha provato a punire il Pd votando Cinque Stelle (al Sud) o Lega (nel centro-Nord). A questo, a rimotivare un elettorato deluso e frastornato, servirebbe l’immissione di un nuovo simbolo, un simbolo unificante, nell’arena politica.

La mia sensazione è che questa sia un’illusione, frutto di una radicale incomprensione di quel che è successo il 4 marzo. Il popolo di sinistra che ha votato Lega e Cinque Stelle lo ha fatto per il semplice motivo che l’offerta del Pd non copriva né la domanda di sicurezza sociale (migranti) né quella di sicurezza economica (povertà). Lo spazio elettorale della sinistra si è ridotto semplicemente per questo: a sinistra, il 4 marzo, non era dato osservare né un partito credibile sul tema dell’immigrazione irregolare, né un partito credibile sul tema della povertà. Oggi, da questo punto di vista, nulla è cambiato: il mancato accordo con i Cinque Stelle ha certificato che per il Pd la priorità è l’occupazione, non il sostegno al reddito; la fredda accoglienza della candidatura di Minniti alla segreteria del partito ha certificato che per il Pd la priorità sono i diritti dei migranti, non la sicurezza dei cittadini.

Non voglio, con questo, entrare nel merito di queste scelte, su cui ognuno ha le proprie opinioni. Quel che voglio far notare è solo questo: l’offerta politica del campo progressista è oggi drammaticamente ristretta rispetto alla varietà di domande che salgono dall’elettorato. Per cogliere questa varietà, di partiti di sinistra ne occorrerebbero almeno un paio, forse addirittura tre. Non certo una lista unitaria che, per non turbare le varie sensibilità (e i vari candidati alla segreteria del Pd), sarà inevitabilmente costretta a tenersi sulle generali, lasciando ancora una volta a Lega e Cinque Stelle il compito di offrire all’elettorato progressista più eterodosso quello che né il Pd né una lista genericamente europeista sembrano in grado di offrirgli.