La battaglia per il salario minimo legale

Sembra sia stato soprattutto Carlo Calenda, nei giorni scorsi, a infervorarsi per l’idea di proporre una legge sul salario minimo legale che abbia il sostegno di tutti i partiti di opposizione. E si capisce bene perché: quella del salario minimo legale è, finora, l’unica proposta che potrebbe coalizzare non solo Pd e Cinque Stelle, ma anche i partiti del Terzo Polo (Azione e Italia viva).

È una buona idea?

Per certi versi è un’idea sacrosanta. Secondo una mia stima di pochi anni fa, in Italia esiste un’infrastruttura para-schiavistica di circa 3 milioni e mezzo di persone che lavorano in condizioni di precarietà, insicurezza e bassi salari non degne di un paese civile (il caso limite sono gli immigrati addetti alla raccolta di frutta e ortaggi). Altre stime suggeriscono che, a seconda del livello a cui verrebbe fissato il minimo legale, i beneficiari di aumenti salariali potrebbero oscillare fra 1 e 3 milioni di lavoratori.

C’è un problema, tuttavia. In Italia i salari effettivi variano enormemente in funzione del settore produttivo, del costo della vita, della produttività. Inoltre, una parte delle micro-attività che impiegano manodopera male o malissimo pagata hanno margini estremamente ridotti, e non sarebbero in grado di sostenere gli aumenti salariali richiesti. In concreto, significa che la fissazione di un salario minimo legale a 9 o 10 euro lordi, uniforme su tutto il territorio nazionale, avrebbe effetti a loro volta tutt’altro che uniformi. Nei contesti ad alta produttività porterebbe a miglioramenti retributivi sostanziali, in quelli a bassa produttività condurrebbe alla chiusura di attività che operano al limite della redditività (sempre, beninteso, che governo e sindacati si impegnino a far rispettare la legge, anziché continuare a chiudere ipocritamente un occhio come si è sempre fatto in passato). In concreto, vorrebbe dire: salari più alti in molte realtà del centro-nord, più disoccupati in molte aree del sud.

Se i meccanismi fondamentali sono questi, forse sarebbe il caso di considerare l’ipotesi di un salario minimo legale differenziato per settore e zona del paese, in modo da non penalizzare troppo le attività con la produttività più bassa.

Saprà l’opposizione di sinistra muoversi in questa direzione?

È improbabile, vista la tendenza di Pd e Cinque Stelle ad affrontare tutte le questioni in termini etici e di principio, anziché in termini pragmatici e realistici. E non è questione di Schlein o non-Schlein, perché quella tendenza era già in atto in epoca pre-Schlein, e non su temi secondari. Pensiamo all’approccio ideologico in materia di immigrazione e accoglienza, o alla disastrosa gestione del Ddl Zan sull’omotransfobia, quando per preservare la purezza politica venne rifiutata l’offerta della destra di approvare il disegno di legge Scalfarotto (un’ottima legge, priva dei difetti del Ddl Zan).

È verosimile che tutta la discussione che partirà sui contenuti esatti della proposta di salario minimo legale verterà sul suo livello, con i riformisti a tirare per un livello ragionevole, e i massimalisti per un livello irragionevole ma auto-gratificante. Il risultato sarà che il governo avrà gioco facile a ignorare le proposte dell’opposizione, mostrandone l’irrealismo e gli effetti perversi.

Eppure dovrebbe essere chiaro che è il modo peggiore per provare a costruire un campo largo. Per riconquistare la fiducia degli italiani, ai progressisti serve mostrarsi in grado di fare proposte così sensate che risulti difficile rifiutarle. E incalzare il governo a farle rispettare.

Proporre un salario minimo elevato, uguale in tutta Italia, e quindi impossibile da rispettare per molte imprese, può scaldare il cuore dei militanti più ideologizzati o moralisti. Ma difficilmente può convincere la maggioranza degli italiani.




Bonaccini e Schlein non rispondono al nostro Questionario, Calenda si

Mentre continuiamo ad attendere quelle dei quattro candidati alla Segreteria del PD, Carlo Calenda ci invia le sue di risposte.

Le trovare di seguito segnate in rosso.

 

MERCATO DEL LAVORO

1          Che cosa pensa dei voucher?

□ rischiano di far aumentare la precarietà

□ possono agevolare la emersione del lavoro nero

2          Che cosa pensa del salario minimo legale?

□ sono contrario, meglio affidarsi alla contrattazione sindacale

□ sono favorevole a un salario minimo legale nazionale di (almeno) 9 euro l’ora

□ sono favorevole a un salario minimo legale, ma differenziato per settore produttivo e

    costo della vita del territorio

IMMIGRAZIONE, CRIMINALITA’, ORDINE PUBBLICO

3          Secondo lei la concorrenza degli immigrati contribuisce a tenere bassi i salari degli italiani?

□ sì

□ no

4          Se dovesse scegliere il ministro dell’interno, quale fra questi ministri del passato  preferirebbe?

□ Minniti

□ Lamorgese

5          Come vede il rapporto fra criminalità e immigrazione?

□ non ci sono differenze apprezzabili fra italiani e stranieri

□ gli stranieri delinquono di più, ma le vittime sono soprattutto gli italiani benestanti

□ gli stranieri delinquono di più, ma le vittime sono soprattutto gli abitanti delle periferie

ECONOMIA E POLITICHE SOCIALI

6          Supponga di avere 10 miliardi a disposizione, e di dover scegliere una e una soltanto fra tre destinazioni. Quale sceglierebbe?

□  sgravi fiscali su tutte le famiglie

□  sgravi fiscali su tutte le imprese

□  sgravi fiscali solo sulle imprese che aumentano l’occupazione

7          Pensa che, in questa fase, sarebbe utile per l’Italia varare un’imposta patrimoniale una tantum sui ceti alti e medio-alti?

□ sì

□ no

SCUOLA

8          Si parla talora della possibilità di introdurre borse di studio per consentire agli studenti capaci e meritevoli ma privi di mezzi di raggiungere i gradi più alti degli studi. Lei come giudica questo tipo di misura?

□ positivamente, perché il merito va promosso e premiato

□ negativamente, perché escluderebbe gli studenti privi di mezzi ma in difficoltà con gli studi

9          Che cosa pensa dei telefonini in classe?

□ sono da vietare, salvo il caso in cui l’insegnante li ritenga indispensabili a fini didattici

□ sono utili, non andrebbero vietati

10        In via generale, lei pensa che sarebbe giusto o sbagliato legare una parte della retribuzione degli insegnanti a una valutazione del merito?

□ giusto

□ sbagliato

11        Talora si parla della possibilità di dare ai presidi il potere di confermare i supplenti che hanno ben operato, indipendentemente dalle graduatorie.

Lei come giudica questa possibilità:

□ positivamente

□ negativamente

DIRITTI CIVILI

12        In materia di lotta alle discriminazioni lei riproporrebbe il ddl Zan?

□ sì, lo riproporrei tale e quale

□ preferirei una versione meno radicale

13        Lei è favorevole o contrario a legalizzare la gestazione per altri?

□ favorevole

□ favorevole, ma solo nei casi in cui la gestazione è gratuita

□ contrario in ogni caso

14        E’ favorevole o contrario al cosiddetto self-id (completa libertà di cambiare genere, sulla base di una auto-dichiarazione)?

□ favorevole

□ contrario

15        E’ favorevole o contrario alla liberalizzazione delle droghe leggere?

□ favorevole

□ contrario

ECOLOGIA E AMBIENTE

16        Se lei fosse attualmente al governo, appoggerebbe la direttiva europea che impone l’adeguamento entro il 1° gennaio 2030 delle case con classi energetiche F e G?

□ la appoggerei

□ cercherei di rimodularla, dando molto più tempo per l’adeguamento

17        Lei è favorevole o contrario alle trivellazioni in Adriatico per ridurre la nostra dipendenza energetica dall’estero?

□ favorevole

□ contrario

18        Quale è il suo giudizio sugli episodi di imbrattamento dei muri e delle opere d’arte nei musei in nome dell’ambiente?

□ prevalentemente positivo

□ prevalentemente negativo




Le radici della vittoria di Meloni e la sfida di Calenda al PD

Acquisito il grande exploit di Giorgia Meloni, capace di guadagnare ben 20 punti percentuali in soli 3 anni, èforse il momento di domandarsi quali siano stati i motivi del repentino incremento di Fratelli d’Italia (Fdi) in questo breve periodo di tempo. Le risposte che giungono in prevalenza da commentatori e analisti fanno specifico riferimento alla sua posizione contraria, unico partito all’opposizione in Italia assieme a Sinistra Italiana, al governo di larghe intese presieduto da Mario Draghi.

Basta questo per comprenderne la rapida ascesa? Forse in parte sì, ma certo non del tutto, altrimenti per prima cosa non si capirebbe perché il suo partner all’opposizione, Fratoianni, non abbia beneficiato di alcun significativo successo elettorale domenica scorsa. Ma c’è un altro elemento da considerare, che smentisce in parte questa sola spiegazione, elemento che si riesce a derivare chiaramente osservando il trend dellacrescita di Fdi e del contemporaneo tramonto di Salvini e del suo partito, che ha avuto inizio proprio all’indomani delle Europee del 2019 (si veda il grafico). Mese dopo mese, Fdi incrementa di qualche punto percentuale, contestualmente alle perdite della Lega. Una correlazione tra le due serie di dati quasi perfetta, con un coefficiente pari a 0,974.

La cosa interessante da notare è che questa relazione appare del tutto indipendente dalla assenza o dalla presenza del governo Draghi (in carica dal febbraio del 2021). Anzi, dal settembre 2019 fino alla caduta del Conte II (con la Lega all’opposizione, al pari di Fdi) e l’insediamento del nuovo esecutivo di larghe intese (con la Lega al governo), la correlazione è semmai ancora più elevata, con un coefficiente superiore a 0,98.

Dunque, le fortune del partito di Meloni appaiono del tutto indipendenti dal suo ruolo di opposizione all’esecutivo dell’ex-capo della BCE, e si nutrono in maniera evidente dal costante passaggio di voti provenienti dalla Lega, che ha avuto inizio immediatamente dopo la formazione del governo Pd-Movimento 5 stelle, quando cioè entrambe le forze politiche si trovavano all’opposizione.

L’analisi dei flussi di voto tra le Europee del 2019 e le recenti Politiche evidenzia in maniera chiara questa situazione: passa dalla Lega a Fdi oltre il 40% degli elettori leghisti, svuotando in maniera significativa il serbatoio di voti di Salvini, ma già era chiara questa tendenza durante lo stesso governo di Conte, durante la cosiddetta alleanza giallo-rossa.

Contestualmente, l’ulteriore fonte di consensi per Fdi giunge dall’altro alleato, Forza Italia, che gli cede un quinto circa del suo precedente elettorato, poco più del 20%. Appare dunque evidente come la vittoria di Fdiassuma contorni un pochino diversi dal mero ruolo di opposizione. Dopo essersi “infatuato” di Salvini, e in precedenza di Berlusconi, l’elettorato di centro-destra si è poco alla volta convinto, nel giro di tre anni, dal 2019 al 2022, che potesse essere il partito di Giorgia Meloni quello che coerentemente e con una decisa forza programmatica riuscisse a rappresentare una efficace proposta politica di quell’area, in maniera molto più efficiente degli altri partner di coalizione e, fra poco, di governo.

Ma oltre il successo di Giorgia Meloni, inaspettato fino ad un paio d’anni fa, un’altra sorpresa è uscita dalleurne della scorsa domenica, che ha a che vedere con la sfida che la coppia Azione- ItaliaViva sta ponendo al Partito Democratico. Le speranze di Calenda e di Renzi di “fare il botto”, di raggiungere cioè un risultato almeno in doppia cifra non si sono realizzate, fermandosi un paio di punti sotto quella soglia.

Eppure, già questo risultato non sarebbe certo insoddisfacente, se non ci fossero state aspettative così elevate e difficilmente raggiungibili e, inoltre, forse per la prima volta in occasioni elettorali, l’unione di due forze politiche in un unico soggetto ha visto crescere (anziché diminuire come accade quasi sempre) i consensi, andando oltre la somma dei due partiti presi singolarmente.

Era comunque un compito piuttosto difficoltoso raggiungere il 10-12%, soprattutto perché la proposta di Calenda andava a sollecitare un elettorato abbastanza simile a quello del Pd (e solo marginalmente a quello di Forza Italia); effettivamente, i flussi di voto ci indicano come una parte significativa degli elettori di Azione-ItaliaViva provengano proprio dal Partito Democratico, tanto che la composizione attuale del nuovo partito è fatta per oltre un terzo di ex-votanti Pd, unitamente a ex-pentastellati che si definiscono di centro-sinistra. La sfida continuerà evidentemente nei prossimi mesi, ma c’è un dato che forse dovrebbe già fin d’ora preoccupare il partito del dimissionario Letta, un dato proveniente da Milano, una delle poche roccaforti rimaste al Pd.

Ho scritto ieri della “deriva” della sinistra italiana, simile peraltro a quella di molti paesi occidentali, capace di avere maggior presa su un elettorato scolarizzato, più benestante e secolarizzato, il cosiddetto elettorato definito spiritosamente “delle ZTL”, i residenti cioè nel centro delle grandi metropoli, nazionali e internazionali, come New York, Londra, Parigi, Roma, Berlino, Milano.

Ebbene, proprio a Milano, nel centralissimo Municipio 1, dove il Pd sia nelle precedenti politiche, nelle europee e nelle comunali prese oltre il 40% dei voti, risultando di gran lunga il primo partito, domenica scorsa è retrocesso in seconda posizione, con una quota di voti intorno al 23%, superato nettamente da Azione-ItaliaViva, che ha ottenuto oltre il 30% dei consensi provenienti in larga misura dallo stesso Partito Democratico votato. Se a Milano le cose accadono prima, come vuole la vulgata, e poi gli altri luoghi si adeguano, è questo un segnale piuttosto significativo di come la sfida di Calenda possa avere in futuro riscontri positivi.

Paolo Natale




Le tre sinistre

Quando, ormai più di un mese fa, sembrava che il matrimonio fra Letta e Calenda fosse cosa fatta, in molti ci siamo chiesti se fosse la volta buona per la nascita di una sinistra finalmente e risolutamente riformista. Per sottolineare la profondità della svolta, lo stesso Calenda ebbe a parlare di una Bad Godesberg italiana.

In realtà, mai paragone fu più fuorviante. La svolta di Bad Godesberg, avvenuta nel 1959, sancì il distacco dei socialisti tedeschi (SPD) dal marxismo e dal progetto di abolizione della proprietà privata. Il che significava: piena accettazione dell’economia di mercato, sia pure corretta dall’intervento statale, e conseguente rinuncia a guardare all’Unione Sovietica (e all’economia pianificata), come modello di socialismo.

La sinistra italiana di oggi non ha alcun bisogno di una Bad Godesberg, perché quel tipo di svolta, sia pure con trent’anni di ritardo rispetto ai cugini tedeschi, la aveva già fatta Achille Occhetto, quando – dopo la caduta del Muro di Berlino, con la svolta della Bolognina – archiviò il Partito Comunista Italiano per farne un normalissimo partito socialdemocratico: il Pds, poi divenuto Ds, e infine Pd.

Questo, naturalmente, non significa che, a sinistra, non ci sia bisogno di una svolta. Il punto è: svolta rispetto a che cosa?

Calenda e i riformisti del Terzo polo rispondono: rispetto alla perenne oscillazione fra riformismo e massimalismo. Ma il massimalismo e l’estremismo sono morti da tempo, nel maggiore partito della sinistra italiana. Il Partito democratico tutto è tranne che massimalista. Le uscite contro i ricchi (imposta di successione) e gli ammiccamenti ai partitini di estrema sinistra, come Articolo 1 (il partito di Speranza e Bersani) o Sinistra Italiana (di Fratoianni), non ne cambiano la natura riformista.

E’ il riformismo, semmai, il problema del Pd. Il Pd, dopo la tardiva Bad Godesberg di Occhetto, non ha ancora scelto che tipo di partito riformista vuole essere. Alla fine degli anni ’90, abbagliato dai successi della rivoluzione neoliberista di Thatcher e Reagan, affascinato dalle teorizzazioni pro-mercato della Terza via di Giddens, Blair, Clinton, Schroeder, il Pd ha deposto quasi interamente la questione sociale, incamminandosi a diventare un “partito radicale di massa”, attento agli immigrati, alle istanze LGBT, più in generale al vasto arcipelago delle grandi “battaglie di civiltà”, ma sostanzialmente dimentico delle istanze dei ceti popolari, dalla domanda di sicurezza al bisogno di protezione dai guasti della  globalizzazione. Tutte istanze che, viceversa, sono da tempo al centro dei programmi politici della destra.

Detto con rammarico: il Pd, per come è diventato in questi anni, non è né un partito laburista (o socialdemocratico), attento alle istanze dei lavoratori, né un partito di sinistra liberale (o liberaldemocratico), preoccupato della crescita, ostile alle tasse e impegnato nella battaglia per la “uguaglianza dei punti di partenza”, per dirla con Luigi Einaudi.

Credo che nessuno, neppure Enrico Letta, abbia idea di che cosa il Pd sia destinato a diventare in futuro. Quel che è abbastanza verosimile, però, è che l’incredibile “saga delle alleanze mancate” un qualche tipo di sbocco finisca per averlo.

Ma quale sbocco?

Molto dipenderà, credo, dal risultato elettorale o, più precisamente, dai rapporti di forza che potranno emergere fra i tre tronconi in cui la sinistra è oggi divisa. Per il Pd, il vero pericolo non è un’affermazione di Renzi e Calenda, che dopotutto rappresentano solo quel che il Pd avrebbe potuto diventare se avesse imboccato risolutamente la “terza via” tracciata da Blair, Clinton e Schroeder. Il vero pericolo è un’affermazione clamorosa dei Cinque Stelle guidati da Conte, un’eventualità che pochi prendevano in considerazione fino a poche settimane fa, ma di cui in questo finale di campagna elettorale si comincia a parlare come una possibilità reale. La base logica di questa congettura è che la fiammata elettorale che aveva sostenuto Salvini nel Mezzogiorno ai tempi della sua massima popolarità (2018-2019) si spenga, e che – grazie al tema cruciale del reddito di cittadinanza – a beneficiarne sia soprattutto il partito di Giuseppe Conte. Se il Pd dovesse scendere sotto il 20% e il Movimento Cinque Stelle dovesse superare il 15%, saremmo di fronte a uno scenario del tutto inedito: per la prima volta nella loro storia gli eredi del partito comunista si troverebbero con un vero concorrente a sinistra.

Un concorrente che potrebbero accusare di ogni male possibile – qualunquismo, assistenzialismo, inaffidabilità, impreparazione – ma che, per una parte degli elettori delusi dalla sinistra ufficiale, rappresenta “la vera sinistra”.

Luca Ricolfi




A che servono i liberali?

Da un po’ di tempo si torna a parlare del ruolo dei liberali. Alla tradizione liberale si richiama Berlusconi, impegnato in due missioni (quasi) impossibili: fermare l’emorragia di consensi di Forza Italia, mettere un freno alla deriva populista dei suoi alleati Salvini e Meloni. Ma alla tradizione liberale si richiamano anche i due partiti virtuali, ipotetici o futuribili di Renzi e di Calenda, entrambi ostili al giustizialismo e alla cultura assistenziale del Movimento Cinque Stelle, ma anche alla deriva del Pd, sempre più lontano dalla cultura riformista e modernizzatrice che Renzi aveva tentato di imporgli.

C’è spazio, oggi in Italia, per le forze che hanno qualche cromosoma liberale nel loro DNA? Secondo i sondaggi, il consenso potenziale delle formazioni liberali, talora impropriamente qualificate come centriste o moderate, è attualmente compreso fra il 10 e il 20% dei consensi. E in futuro?

In futuro qualcosa potrebbe cambiare, perché il consenso dipende anche dalla leadership. Non si può non notare che, nelle graduatorie di popolarità dei politici italiani prodotte a getto continuo dai sondaggi, i leader delle due principali formazioni di matrice liberale (Forza Italia di Berlusconi, e Italia viva di Renzi), occupano le due ultime posizioni. Detto altrimenti, e un po’ crudamente, al momento Forza Italia e Italia viva sono “zavorrate” dallo scarso credito che riscuotono i rispettivi leader. Domani si vedrà: Berlusconi potrebbe cedere ad altri il comando di Forza Italia, Renzi potrebbe scrollarsi di dosso parte dell’antipatia e dell’ostilità che attualmente lo circondano. In questo caso lo spazio dei liberali potrebbe allargarsi ancora un po’, anche se difficilmente fino al punto di far nascere un “partito liberale di massa”. Quel progetto, infatti, ha già dimostrato – con Berlusconi prima, con Renzi poi – di essere difficilmente realizzabile in Italia, dove la cultura liberale è sempre rimasta estremamente debole.

La domanda più importante, però, è un’altra: a che cosa può servire, in un’epoca come la nostra e in un paese come l’Italia, la presenza di alcuni partiti di ispirazione liberale?

Credo che la risposta sia molto diversa a seconda che volgiamo lo sguardo a sinistra, dove dominano Pd e Cinque Stelle, o a destra, dove dominano la Lega e Fratelli d’Italia.

A sinistra un presidio liberale può essere utile soprattutto sul terreno della politica economica, per neutralizzare l’involuzione anti-crescita e anti-imprese del Pd, indotta dall’alleanza con i Cinque Stelle. Un compito paradossale, visto che a consegnare il Pd ai Cinque Stelle è stato proprio Renzi. E nondimeno un compito necessario, se si vuole evitare che l’Italia prosegua nel percorso di “argentinizzazione lenta” in cui si è incamminata da una ventina di anni.

A destra una formazione liberale funzionante, esentata dalla stanca ripetizione del copione berlusconiano, avrebbe una funzione ancora più importante, quella di rendere di nuovo possibile (come nella seconda Repubblica) l’alternanza al governo fra centro-sinistra e centro-destra. Se una cosa ci hanno insegnato le recenti vicende che hanno portato dal Conte 1 a l Conte 2 è che l’approccio muscolare (e illiberale) di Salvini non può funzionare, e che l’ostinazione con cui viene ribadito e riproposto in ogni circostanza e in ogni contesto (compreso quello cruciale dell’Europa), è un formidabile ostacolo alla conquista e alla conservazione del governo.

Certo si può obiettare che il gioco politico è truccato, perché l’establishment europeo non è neutrale, e usa sistematicamente due pesi e due misure con i governi italiani: inflessibile con quelli populisti, indulgente con quelli progressisti. Ma proprio la consapevolezza di questa circostanza dovrebbe indurre i leader populisti a considerare preziosa l’alleanza con le forze di matrice liberale, senza il cui scudo corrono un rischio mortale: la costituzione di una “conventio ad excludendum” come quelle che in Italia per decenni tennero lontani dal governo i fascisti e i comunisti, e in Francia tuttora sbarrano il passo al partito di Marine Le Pen.

Del resto, è precisamente questo che è successo in Italia nelle ultime settimane. Di fronte a un Salvini del tutto disinteressato al dialogo con le autorità europee, e radicalmente demagogico nelle sue esternazioni, per gli “altri” è stato un gioco da ragazzi inventare, e far credere reale, una inesistente (o quantomeno gonfiatissima) “emergenza democratica”, e rispedire l’aspirante dittatore al Papeete.

Io penso che, almeno nel prossimo futuro, il panorama politico italiano continuerà ad essere dominato dalle forze più grandi e più demagogiche, ovvero Lega, Cinque Stelle e Pd, e che il consenso alle forze di ispirazione liberale resterà limitato, specie a destra. Nello stesso tempo, però, penso che il ruolo delle formazioni politiche liberali potrebbe essere cruciale. Non tanto perché, nel caso di un (non improbabile) ritorno al proporzionale, esse potrebbero risultare decisive per la formazione di una maggioranza di governo, quanto perché senza di esse quel che il futuro potrebbe riservarci è una grottesca riedizione della stagione del “Pentapartito”, a ruoli invertiti. Da una parte una coalizione di 4 o 5 formazioni di sinistra, esclusivamente interessate alla conservazione del potere, dall’altra un partito (la Lega) o una diade (Lega e Fratelli d’Italia) perennemente confinata all’opposizione, come lo fu il Partito comunista italiano per la maggior parte della sua storia.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 21 settembre 2019