Bullismo etico

Quando, nel 1957, il grande politologo americano Anthony Downs pubblica La teoria economica della democrazia, il gioco della competizione politica è ancora pulito. Per lui la differenza chiave fra destra e sinistra, o fra conservatori e progressisti, è che gli uni vogliono meno intervento pubblico nell’economia, gli altri ne vogliono di più. La destra vede l’espansione dello Stato (e delle tasse) come un’ingerenza, che limita la libertà economica, la sinistra vede l’espansione dello Stato (e della spesa pubblica) come uno strumento di redistribuzione della ricchezza, che promuove l’eguaglianza.

Il gioco è pulito perché le due parti competono alla pari. Libertà ed eguaglianza, infatti, non sono l’una un valore e l’altra un disvalore, ma sono semplicemente due ideali distinti in competizione fra loro. Ciò produce una conseguenza logica fondamentale: il rispetto dell’avversario politico. Questo tipo di situazione è interessante perché in essa coesistono due elementi apparentemente inconciliabili: la credenza nei propri valori, e il riconoscimento della legittimità dei valori altrui.

Non è questo il luogo per stabilire quale sia il momento storico in cui il gioco si è rotto, ma credo non possano esservi dubbi sul fatto che oggi, nella maggior parte delle società occidentali, la competizione politica non funziona più secondo lo schema di Downs. Oggi la sinistra non si sente come la rappresentante di determinati ideali, contrapposti a ideali diversi dai propri, ma come la depositaria esclusiva del bene. Di qui il suo peculiare rapporto con l’avversario, che non viene più percepito come il difensore di ideali distinti da quelli progressisti, ma come il difensore di disvalori, o ideali negativi. Dunque, come l’incarnazione del male. Detto ancora più crudamente, e con specifico riferimento alla società italiana: la sinistra pensa di rappresentare “la parte migliore del paese”, contrapposta alla “parte peggiore del paese”, rappresentata dalla destra.

Come è stato possibile?

E’ abbastanza semplice. La mossa chiave che ha permesso di cambiare radicalmente il gioco della politica è stata quella di autodefinirsi come anti-qualcosa. Da un certo punto, che collocherei negli anni ’80, nel mondo progressista al posto degli antichi valori e simboli – l’uguaglianza, la classe operaia, i deboli – hanno progressivamente preso piede due totem definiti negativamente: l’anti-razzismo e l’anti-discriminazione. Essere di sinistra ha significato sempre di meno occuparsi delle difficoltà degli strati bassi, e sempre di più percepirsi come nemici irriducibili dei due (presunti) vizi capitali del nostro tempo: il razzismo e la discriminazione. Il primo, esercitato contro gli immigrati, il secondo contro le cosiddette minoranze LGBT+ (per chi non fosse familiare con l’acronimo: Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali, eccetera).

Ed ecco fatto: il gioco, che almeno fino agli anni ’70 era rimasto pulito, ora è sporco. Perché se io mi autodefinisco come anti-qualcosa di negativo, allora è automatico che il mio avversario politico sia a favore di quel negativo contro cui io mi batto. E’ un problema logico, più volte messo in luce dal grande filosofo Alain Finkielkraut: l’ideologia anti-razzista crea un’anomalia nella competizione politica, perché se il mio avversario si autodefinisce anti-razzista, io che la penso diversamente da lui divento anti-antirazzista, dunque razzista. E come tale impresentabile, oggetto di riprovazione e disprezzo. Lo stesso, identico, cortocircuito logico si presenta con il problema delle minoranze LGBT+: se i progressisti ne difendono le battaglie, chi quelle battaglie non condivide, o contrasta, passa automaticamente nella schiera degli omofobi, accusato di odio verso le minoranze sessuali e di genere (con curioso slittamento della lingua, visto che “fobia” in greco significa paura, non certo odio). Di qui, infine, il disprezzo dell’avversario politico, che diventa il nemico, che attenta alla causa del bene.

Ecco perché il gioco, oggi, è truccato, non solo in Italia. Chiunque si intesti una causa ovvia, sia essa la lotta contro la mafia, il salvataggio del pianeta, il contrasto del razzismo, e la trasformi in un appello, una petizione, un simbolo, un meme, un messaggio pubblico, si sente autorizzato a pretendere che anche gli altri aderiscano alla sua causa, la sostengano, prendano posizione pubblicamente a suo favore. Chi non lo fa, sia esso un personaggio famoso che non firma, un calciatore che non si inginocchia, un disegnatore che si permette una vignetta irriverente, passa ipso facto nel novero degli incivili, su cui l’establishment degli illuminati si sente in diritto di riversare quotidianamente il proprio disprezzo.

Può accadere così che chi ha delle critiche verso il disegno di legge Zan sia bollato come omofobo e odiatore delle minoranze. Che chi dissente sulle politiche di accoglienza sia tacciato di razzismo e disumanità. E può accadere persino che il segretario di un partito che si crede progressista si permetta di redarguire in tv sei calciatori che hanno osato non inginocchiarsi a comando, facendo mancare il proprio sostegno ad una delle tante sigle che si contendono le decine di cause giuste che competono fra loro per l’attenzione dei media e degli elettori.

Eppure dovrebbe essere chiaro. L’ostentazione della propria adesione a una causa ovvia, accompagnata dalla lapidazione morale di chi sceglie di non aderirvi, non è un modo sano di condurre la lotta politica. Perché la politica – quella vera, non quella degenerata dei nostri giorni – è innanzitutto libertà di espressione, e rispetto della diversità di opinioni, sentimenti, modi di vita. Il resto è bullismo. Bullismo etico, se volete. Ma sempre bullismo, ossia sopraffazione da parte di chi si sente il più forte.

Pubblicato su Il Messaggero del 26 giugno 2021