La solitudine dei numeri di serie A

Di mestiere mi occupo di numeri (insegno Analisi dei dati all’Università di Torino). E di numeri mi capita spessissimo di parlare, in un libro, in un saggio, in un articolo di giornale. E anche qui su “Panorama”, naturalmente. Perciò non ho potuto restare indifferente quando, negli ultimi giorni, è scoppiato il caso Boeri, con quella sua stima di 8.000 posti di lavoro perduti se passerà il “decreto dignità”. Ma lo stesso mi era accaduto quando, durante l’ultima campagna elettorale, Roberto Perotti, dalle colonne di Repubblica, ha cominciato a valutare, uno per uno, i costi dei programmi politici dei principali partiti italiani, giungendo alla conclusione che erano quasi tutti insostenibili.

Oggi come allora la reazione della politica di fronte ai numeri è la squalifica. Se i numeri sono sgraditi, il “produttore di numeri” viene istantaneamente portato sul banco degli accusati, con l’infamante accusa di “fare politica”, ovvero di manipolare le cifre a sostegno di una parte e a danno di un’altra. Un’accusa che, prima o poi, colpisce tutti coloro che maneggiano numeri delicati, o “politicamente sensibili”.

Se butti lì un stima, azzardatissima e priva di qualsiasi serio riscontro scientifico, di quante tonnellate di piselli si producono in Italia, puoi stare certo che nessuno metterà in discussione la tua stima. Ma se ti azzardi a dire quanto costerebbe l’abolizione della legge Fornero e il ritorno al sistema precedente, anche se lo fai nel modo più accurato possibile, calcolando (e dichiarando) i margini di errore delle tue stime, puoi stare certo che ci saranno un bel po’ di politici che ti azzanneranno, accusandoti di non essere super partes.

Eppure ci sono numeri che sono quelli che sono. Non nel senso che sono esatti (quasi tutti i numeri di cui si parla sono il risultato di stime, e quindi sono soggetti a margini di errore) ma nel senso che nessuno li metterebbe in discussione in un consesso di osservatori competenti e intellettualmente onesti. Detto altrimenti, ci sono numeri di serie A, difficilmente controvertibili, e numeri di serie B, e persino C, che è bene guardare con grande circospezione.

Le stime Istat dell’occupazione, ad esempio, sono di serie A, le stime dell’evasione fiscale sono di serie B, le stime dell’economia illegale sono di serie C. E, sia chiaro, quel che determina in che serie gioca un determinato numero non è solo l’autorevolezza scientifica di chi lo produce, ma anche la difficoltà del compito. Un numero può giocare in serie C, nonostante lo produca l’Istat, il Fondo Monetario o l’Ocse, semplicemente perché non ci sono strumenti affidabili per calcolarlo: è il caso delle previsioni della crescita del Pil a 1 o 2 anni, che si rivelano quasi sempre estremamente inaccurate, quando non decisamente sballate. Così un numero può giocare in serie A per il solo fatto che è meccanicamente generato da una fonte amministrativa, come accade con le quantità di auto circolanti in Italia o con il numero di unità vendute di un certo prodotto.

I politici fanno due errori logici. Il primo è di trattare numeri di serie A come se fossero numeri di serie B o C. Il secondo è di confondere impegno politico e manipolazione numerica: il fatto che un produttore di numeri faccia politica non implica che tutti i numeri che produce giochino in serie C. Questo è esattamente il caso di molte delle cifre fornite da Perotti o da Boeri, che la stragrande maggioranza degli studiosi imparziali considererebbe plausibili, senza preoccuparsi del fatto che i loro produttori siano politicamente schierati con una parte politica.

Tutta colpa dei politici, che non sanno e non vogliono riconoscere i numeri di serie A, ovvero quelle cifre che uno studioso onesto e ben informato dovrebbe accettare come sostanzialmente corrette?

No, non è tutta colpa dei politici. Anzi io li assolvo, perché in fondo fanno il loro gioco. La politica, con poche eccezioni, è manipolazione in vista del consenso. E lo è in modo così naturale e sistematico che spesso i manipolatori non se ne rendono conto. Quante volte mi è capitato di discutere, in pubblico, con dei politici sinceramente convinti che le assurde cifre che davano fossero corrette! Il fatto è che, quando si è schierati da una parte, e si è perduta ogni curiosità del mondo, si diventa macchine che immagazzinano esclusivamente le informazioni coerenti con le proprie credenze. Lo aveva scoperto negli anni ’50 il grande psicologo sociale Leon Festinger studiando le sette, ma vale perfettamente per il ceto politico di oggi (nonché per molti miei amici…).

Quel che può fare la differenza non è la qualità dei politici, ma l’ambiente in cui si trovano a operare; l’ambiente in cui sono “costretti” ad operare, mi vien da dire. Se i numeri di serie A non riescono ad imporsi, buona parte della responsabilità è di giornalisti e studiosi. In Italia la maggior parte dei giornalisti e conduttori televisivi semplicemente non sono in grado di contestare ai politici i numeri che questi ultimi enunciano con sicurezza o respingono con sdegno, neppure nei casi più clamorosi e ovvi; né vale obiettare che conoscere i numeri non è compito dell’informazione, visto che ci sono paesi (Regno Unito e USA, ad esempio) in cui i giornalisti lo sanno fare.

Ma la colpa più grande è di noi studiosi. Non solo in Italia, le discipline che si occupano di numeri (economia, sociologia, scienza politica, psicologia) hanno tuttora una fortissima componente ideologica, o di impegno sociale. E chi è fortemente identificato con una causa, specie se universalmente riconosciuta come una buona causa, per lo più non esita a piegare i dati alla causa stessa, negli infiniti modi che il nostro mestiere ci consente. Ecco perché, quando un politico si trova di fronte numeri per lui imbarazzanti, trova sempre uno studioso che gli presta la propria scienza, la propria autorevolezza, o semplicemente il suo biglietto da visita (“docente di X presso l’Università Y) per demolire quei numeri, anche se sono numeri di serie A, che in un contesto neutrale nessuno si sognerebbe di mettere in dubbio.

Articolo pubblicato su Panorama il 26 luglio 2018



Immigrazione e decreto dignità, intervista a Luca Ricolfi

Domanda. Il governo giallo-verde ha mosso i primi passi. Tra proclami fatti e provvedimenti adottati, si connota come governo di destra o di sinistra?

Risposta. Entrambe le cose, con una specificazione però: della destra e della sinistra prende le componenti più populiste e anti-moderne. A Salvini il respingimento degli immigrati pare interessare più della flat tax, a Di Maio l’irrigidimento del mercato del lavoro pare interessare di più che la riforma dei centri per l’impiego. Non a caso il Decreto Dignità piace a LeU, e viene criticato solo perché non è ancora abbastanza di sinistra: ma è la sinistra nostalgica, che crede che rimettendo l’articolo 18 il mondo si raddrizzi.

D. Lei sostiene che alle origini dell’accresciuto senso di insicurezza degli italiani non c’è solo la campagna della Lega contro lo straniero. Può spiegarsi meglio?

R. Prima di accusare il popolo di non conoscere “le vere cifre” dell’immigrazione in Italia invito a riflettere sulle cifre degli sbarchi.

D. Quali sono?

R. Sotto i governi di centro-sinistra gli sbarchi sono circa quintuplicati: fatto 100 il flusso prima delle cosiddette primavere arabe (periodo 1997-2010), nel periodo 2011-2016 il flusso era salito a 450 circa. Poi è arrivato Marco Minniti, ministro dell’interno con Gentiloni, che i flussi li ha più che dimezzati, portandoli a 214. Ma si trattava pur sempre di un livello più che doppio rispetto a quello storico, che già suscitava inquietudini nei cittadini italiani.

D. E il governo Conte?

R. L’attuale governo a giugno ha ulteriormente dimezzati gli sbarchi, portandoli a quota 100, esattamente il livello anteriore al 2011. E nei primi 17 giorni di luglio il flusso è sceso più o meno a livello 75, ossia più in basso del livello storico.

D. Lei sta dicendo che il senso di paura non è più motivato?

R. All’origine delle paure ci sono elementi oggettivi: l’aumento degli sbarchi, l’impossibilità di rimpatriare chi non ha diritto, la conseguente crescita di un esercito di immigrati irregolari, di cui solo una parte si sposta in altri paesi europei. C’è poi da considerare un altro fattore: la domanda di sicurezza, che non è alimentata solo dagli imprenditori della paura, ma – molto banalmente – dalla pubblicità, sia quella commerciale, sia quella “progresso”.

D. In che modo la comunicazione incide sulle paure?

R. Da almeno vent’anni siamo ossessionati dai pericoli che correremmo negli ambiti più diversi, da quando ci laviamo i denti a quando saliamo su un’automobile. Le parole «sicuro», «sicurezza», «protezione», «rischio», «pericolo» e i loro sinonimi spadroneggiano sugli schermi dei nostri televisori, e non solo negli intervalli pubblicitari.

D. Insomma, la sicurezza è un must, al di là della Lega e di Salvini…

R. Quello che voglio dire è che nessuno si stupisce che la gente pretenda più sicurezza sul lavoro o in strada, ma molti si stupiscono che voglia più sicurezza in materia di immigrazione. Eppure la logica è la stessa: gli standard di sicurezza dei cittadini occidentali si sono enormemente alzati negli ultimi decenni, ma lo hanno fatto un po’ in tutti gli ambiti, al punto che l’ultima generazione – cresciuta a pane, internet e genitori iperprotettivi – è considerata patologicamente insicura da molti psicologi. Sul punto consiglierei di leggere Iperconnessi di Jean Twenge, edito da Einaudi.

D. E qual è la differenza allora?

R. La differenza è questa: se la domanda di protezione riguarda criminalità e immigrazione si accusano gli «imprenditori della paura», ma se la domanda di protezione riguarda le donne (stalking) o gli incidenti in fabbrica, a nessuno viene in mente di accusare la Boldrini o la Camusso di essere «imprenditrici della paura». C’è qualcosa che non va, sul piano logico.

D. Quali sono gli errori compiuti dalla sinistra e dagli ultimi governi su immigrazione e legalità?

R. Aver continuato, con i suoi uomini più lucidi, a proclamare che il tema della sicurezza è anche di sinistra, salvo comportarsi come se fosse solo di destra. Sull’immigrazione e gli sbarchi la sinistra, con pochissime eccezioni, è stata sempre e semplicemente negazionista. Un atteggiamento di una miopia incredibile, che mostra quanto nel mondo progressista l’ideologia prevalga ancora sul senso comune.

D. Intanto la cronaca racconta di una migrante salvata da una Ong dopo che da 48 ore era aggrappata a un barcone alla deriva, un’altra donna e un bambino sono stati ritrovati morti. Ed è polemica contro il Viminale e gli accordi presi con i libici. Il pugno duro di Salvini sugli sbarchi potrebbe diventare un boomerang in termini di consenso per la Lega?

R. Non credo, la gente accetta qualsiasi cosa purché gli sbarchi finiscano. Ma questo dovrebbe preoccuparci, perché fermare gli sbarchi non può essere la soluzione di tutto.

D. Perché non potrebbe essere la soluzione?

R. Per almeno tre motivi. Il primo è che non possiamo chiudere gli occhi sulle condizioni di detenzione e di rimpatrio di chi prova a lasciare le coste della Libia. E questo non tanto perché i governi libici sono corrotti e si macchiano di crimini orrendi, decine di altri governi fanno la stessa cosa, ma perché finché noi supportiamo i libici con soldi, mezzi e contratti (L’Eni è in Libia), non possiamo chiamarci fuori. Trovo stupefacente che nessun governo italiano, di qualsiasi colore esso fosse, abbia mai condizionato gli aiuti alla Libia a rigorose condizioni sul rispetto dei diritti umani nei campi profughi, nonché a controlli severi sull’uso degli aiuti stessi.

D. Il secondo motivo?

R. Il problema più grande non sono i flussi annui di 10, 100 o 200 mila sbarchi, ma i 500, 600 o 700 mila immigrati irregolari che circolano in Italia, e che nessuno sa come gestire. Infine, il terzo motivo per cui azzerare gli sbarchi non è la soluzione è che noi comunque di un flusso di migranti, regolare e regolato, abbiamo comunque bisogno. E non bastano certo i complicati meccanismi dei decreti flussi ad assicurarlo.

D. In questi giorni si è consumato uno scontro assai accesso tra il ministro del lavoro, Luigi Di Maio, e il presidente Inps Tito Boeri circa gli effetti del Decreto Dignità: 8 mila posti in meno l’anno, stima l’Inps. Per Di Maio, Boeri così fa politica e dovrebbe dimettersi. Che ne pensa?

R. Indubbiamente Boeri fa politica, le sue posizioni su vitalizi, pensioni e ruolo economico dei migranti non sono asettiche. In certe circostanze, anzi, Boeri ha fatto sponda con Di Maio o viceversa. Ma sul punto degli effetti del decreto dignità Boeri ha pienamente ragione, e Di Maio ha torto marcio.

D. Perché?

R. Lo spiego subito, i numeri dell’Inps, sottoscritti dalla Ragioneria dello Stato, non hanno nulla di politico, sono un mero esercizio contabile, peraltro obbligatorio quando si vara un decreto che ha effetti sul gettito e sulla spesa. Non li si può contestare dicendo che non c’è base scientifica, ma solo proponendo altri numeri, argomentati in modo più convincente. Io li ho esaminati.

D. E che cosa emerge dalla sua analisi?

R. Mi sono formato l’opinione che sì, i numeri di Boeri, ovviamente, non sono indiscutibili, ma non perché i posti di lavoro perduti potrebbero essere meno di 8 mila, ma perché, molto più verosimilmente, potrebbero essere di più. Anche parecchi di più. Insomma, secondo me Boeri è stato fin troppo cauto o, se vogliamo a tutti i costi buttarla in politica, è stato fin troppo filo-governativo.

D. Sul decreto si stanno registrando anche le prime crepe tra Lega e M5s, tra le ragioni delle imprese e quelle del lavoro…la contrapposizione è destinata a sanarsi oppure ad esplodere a breve?

R. È probabile che l’alleanza si romperà, ma non per i contrasti interni. Se ambedue i partner avessero voglia di governare per 5 anni, un compromesso lo troverebbero senza difficoltà. Il problema è che uno dei due, Salvini presumibilmente, a un certo punto si convincerà che gli conviene tornare al voto, e che quello è il momento buono. A quel punto non ci sarà accordo, contratto o compromesso che possa evitare la crisi.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su Italia Oggi il 19 luglio 2018