Nel segno dell’inflazione

Che l’inflazione sia, in questo momento, il nostro maggior problema economico-sociale è cosa di cui pochi dubitano. Dove invece i pareri divergono è sulle sue cause, le sue prospettive, le sue conseguenze sociali, i mezzi per combatterla.

Le cause. Temporalmente, l’inflazione dei prezzi al consumo è esplosa quest’anno, in corrispondenza con lo scoppio della guerra in Ucraina. Ma l’impulso che l’ha alimentata, spesso ce ne dimentichiamo, risale a circa due anni prima, quando – nella primavera del 2020 – è partita la corsa dei prezzi delle materie prime (specialmente metalli, gas, petrolio) e sono iniziate le prime difficoltà di approvvigionamento globale legate alla pandemia, e successivamente anche al blocco del canale di Suez. C’è voluto circa un anno perché gli aumenti si trasferissero sui prezzi all’importazione e sui costi di produzione delle imprese, e un ulteriore anno perché si scaricassero sui prezzi al consumo. È quel che è successo nel 2022, e continua nel 2023. La guerra ha ovviamente peggiorato le cose, ma non è l’origine delle tensioni attuali sui prezzi, che risentono anche della ripresa della domanda, favorita dagli stimoli fiscali dei governi e dall’ingente risparmio accumulato durante la pandemia.

Le prospettive. Su questo, come quasi sempre accade, gli economisti sono divisi. Se l’inflazione è prevalentemente da domanda, ha ragione la Bce che tenta di raffreddarla con l’aumento dei tassi di interesse, ma se invece è da costi, allora le politiche restrittive rischiano di essere poco efficaci, se non controproducenti. Per il 2023 la previsione dominante è di un rallentamento della corsa dei prezzi, ma sulla sua entità c’è grande incertezza. Contrariamente a una percezione molto diffusa, i prezzi del petrolio attuali non sono particolarmente alti, e il problema, semmai, è che sono destinati a salire in corso d’anno (così Davide Tabarelli, uno dei nostri massimi esperti di questioni energetiche). Il rischio che al 10-12% di inflazione attuale si aggiunga un 5-6% nei prossimi mesi è reale.

Le conseguenze sociali. Se, come non è inverosimile, il biennio 2022-2023 dovesse registrare un aumento (cumulativo) dei prezzi al consumo prossimo a 20% (rispetto al 2021), a fronte di un aumento del Pil nominale di poco superiore al 10%, dovremmo attenderci una erosione del potere di acquisto compresa fra il 5 e il 10%.

Ma chi pagherà il conto?

La risposta standard è: i pensionati e i lavoratori dipendenti che, a differenza delle imprese e dei lavoratori autonomi, non possono trasferire sui prezzi gli aumenti dei costi. Ma è una risposta un po’ affrettata, che non fa i conti con la complessità del tessuto produttivo del paese e con la legislazione vigente.

Per quanto riguarda i pensionati, ad esempio, occorre notare che le fasce basse saranno protette dalla indicizzazione delle pensioni al costo della vita (mantenuta dal governo Meloni), mentre a perdere pesantemente potere di acquisto saranno le fasce alte e medie, per le quali l’indicizzazione è stata attenuata dalla legge di Bilancio.

Riguardo ai lavoratori dipendenti, non è detto che il loro destino sarà peggiore di quello dei lavoratori autonomi. Il fatto è che entrambe le categorie sono molto eterogenee al loro interno. Fra i lavoratori dipendenti rischiano di più i lavoratori a termine e gli addetti delle piccole imprese, poco coperti dalla contrattazione sindacale e dallo Statuto dei lavoratori. Fra i lavoratori autonomi rischiano di più quanti, operando sul mercato internazionale, non possono scaricare sui prezzi di vendita l’aumento dei costi. Per questi lavoratori, e per i loro dipendenti, la spada di Damocle non è una riduzione del 5 o del 10% del loro potere di acquisto, bensì la perdita del posto di lavoro conseguente alla chiusura dell’attività. La vera frattura, in Italia, non è fra lavoro autonomo e lavoro dipendente, ma fra chi opera nella società delle garanzie (dipendenti pubblici e lavoratori stabili delle imprese medio-grandi) e chi opera nella società del rischio (lavoratori autonomi e loro dipendenti).

Che fare. Se l’obiettivo è contenere l’aumento dei prezzi, forse sarebbe saggio prendere atto della realtà: a dispetto delle campagne contro gli speculatori, l’inflazione italiana, come quella degli altri paesi europei, è un fenomeno esogeno, su cui i governi nazionali hanno pochissima influenza. Fondamentalmente, l’andamento dei prezzi dipenderà dalla guerra in Ucraina, dalle scelte della Russia, dalla pandemia, dalla Bce, dalle misure più o meno protezionistiche adottate dagli Usa e dalle contromosse europee. Inutile pensare che l’Italia, da sola, possa spostare il tasso di inflazione interno più di uno o due decimali. Tanto più che un’inflazione elevata è un toccasana per i conti pubblici dei paesi più indebitati.

Dove invece qualcosa si può fare, è nella gestione delle conseguenze dell’inflazione. Ma che cosa, posto che non possiamo indebitarci ancora di più?

Forse, se il rischio maggiore che corriamo è un’ulteriore riduzione della base produttiva, con chiusura di imprese e perdita di posti di lavoro, le poche risorse disponibili potrebbero essere concentrate su due obiettivi, circoscritti ma di grande importanza.

Il primo potrebbe essere di stimolare la formazione di nuovi posti di lavoro con massicce riduzioni del cuneo fiscale concentrate sulle imprese che aumentano l’occupazione.

Il secondo obiettivo potrebbe essere di garantire uno speciale supporto ai lavoratori (autonomi e dipendenti) i cui redditi andranno a zero come effetto di fallimenti e chiusure. Un’operazione, questa, che sarebbe naturale condurre nell’ambito della annunciata ristrutturazione del reddito di cittadinanza: dopotutto, proprio perché hanno appena perso il lavoro, quei lavoratori sono sicuramente occupabili, nonché provvisti di qualche professionalità.




Ma la crescita non è nemica del risanamento

Se c’è un punto su cui tutte le forze politiche concordano, è quello dei nostri conti pubblici. Non già nel senso che esista un piano comune e condiviso per affrontare il problema del debito pubblico, ma per la ragione opposta: a nessun partito piace toccare il tema, meno che mai impegnarsi con cifre precise. E comunque, a giudicare dai discorsi con cui i leader cercano di attirare consensi, per nessuno, proprio per nessuno, la riduzione del debito è una priorità.

E’ questo, a mio parere, il più importante elemento di convergenza e di sostanziale unità del ceto politico italiano, al di là delle quotidiane scaramucce su tutto il resto. Alla maggior parte dei politici, che stiano al governo o stiano all’opposizione, piace raccontare le cose così: la nostra priorità è la crescita, ovvero l’aumento del reddito e dell’occupazione, e non possiamo certo comprometterla sottostando ai diktat dell’Europa (ma qualcuno semplifica: ai diktat della Merkel), che ci impongono l’austerità e così bloccano lo sviluppo.

Questo tipo di argomentazione ha due punti deboli, innanzitutto sul piano logico. Il primo è che non si può contrapporre fra loro un obiettivo (la crescita) e uno strumento di politica economica (l’austerità). Sarebbe come se, in un viaggio verso Parigi, con un’automobile che va ancora avanti ma fa fumo dal cofano, chi vuole portare l’automobile da un meccanico venisse accusato dagli altri passeggeri di non volerli portare a Parigi. Il secondo punto debole è che, a sua volta, l’austerità non è una politica ma è uno spettro di politiche possibili, accomunate soltanto dall’obiettivo di ridurre l’indebitamento pubblico di un paese. A un estremo le politiche che puntano tutte le loro carte sull’aumento delle tasse, all’altro le politiche che si concentrano sulla riduzione e la riqualificazione della spesa.

Il vero problema, quindi, non è di scegliere fra austerità e crescita, ma come conciliare crescita e risanamento dei conti pubblici. O, meglio ancora, come risanare i conti pubblici secondo modalità che favoriscano la crescita, evitando che il risanamento indebolisca il paziente anziché guarirlo. Il dilemma, in altre parole, non è fra crescita e austerità ma, semmai, fra austerità “buona” e austerità “cattiva”, per usare l’efficace terminologia dell’ultimo libro di Veronica De Romanis (L’austerità fa crescere, Marsilio 2017). Dove per austerità buona si intende una correzione dei conti pubblici che privilegia la riduzione della spesa corrente, anziché l’aumento delle entrate e la riduzione degli investimenti, cavalli di battaglia dell’austerità cattiva.

Ma a che punto si trova l’Italia, su questo percorso?

Piuttosto indietro, purtroppo. Nel periodo più acuto della crisi (2012-2013) la politica economica ha privilegiato l’aumento delle entrate e la riduzione degli investimenti, ossia precisamente i due caposaldi dell’austerità cattiva. Quanto agli ultimi anni, purtroppo, la tenuta dei conti pubblici è stata assicurata più dalla riduzione degli interessi sul debito (in gran parte imputabile alla politica della Bce) che da un aumento dell’avanzo primario, che è anzi un po’ peggiorato tra il 2013 e il 2016. E, anche se il peso delle tasse e delle spese rispetto al Pil si è ridotto di qualche decimale, il livello dell’interposizione pubblica resta molto alto, e non certo a causa di un rilancio degli investimenti.

Accanto a queste criticità, per fortuna, esiste anche qualche segnale confortante. L’indice di vulnerabilità strutturale dei conti pubblici (indice VS), elaborato dalla Fondazione David Hume per 40 paesi e 18 anni (dal 1999 a oggi), mostra sì un peggioramento dell’Italia fra il 2011 e il 2013, ma anche una stabilizzazione fra il 2014 e il 2016, e una tendenza al miglioramento nel corso del 2017. Inoltre, un confronto con le valutazioni delle Agenzie di rating (Fitch, Moody’s, Standard & Poor’s), suggerisce che il loro giudizio sia troppo severo nei confronti dei conti pubblici italiani, specie riguardo alla situazione dell’anno in corso.

E tuttavia sarebbe un grave errore prendere spunto da questi, pochi e limitati, elementi rassicuranti, per rimuovere per l’ennesima volta il risanamento dei conti pubblici dall’agenda politica. Questo per almeno due buoni motivi.

Il primo è che il miglioramento dell’indice VS (Vulnerabilità Strutturale) nel corso del 2017 è dovuto soprattutto alle previsioni di crescita del Pil e al ritorno dell’inflazione, non certo a una riduzione del rapporto debito/Pil. Il secondo è che l’indice non rivela soltanto che le Agenzie di rating sono (forse) troppo severe con noi, ma anche che i mercati sono stati (finora) troppo generosi, nel senso che hanno permesso all’Italia di indebitarsi a tassi più favorevoli di quelli che i mercati stessi fisserebbero in assenza di fattori più o meno contingenti (il Quantitative Easing della Bce, ad esempio). Una tendenza, quella a concederci tassi relativamente bassi, che si sta rapidamente esaurendo, e potrebbe persino cambiare di segno quando il Quantitative Easing volgerà alla fine.

Ma la vera ragione che suggerisce di non rinunciare a percorrere risolutamente la strada del risanamento è che esso non è essenziale solo per proteggerci da nuove tempeste finanziarie, ma anche per permettere un ritorno alla crescita che sia solido, duraturo e, soprattutto, abbastanza vivace da consentire un aumento significativo dell’occupazione. Il fatto che, sia pure lentamente e faticosamente, si stia tornando ai livelli occupazionali pre-crisi, non deve farci dimenticare che, in questi ultimi anni, l’Italia ha anche conquistato un triste primato, che prima non deteneva: siamo il paese con il tasso di occupazione giovanile più basso d’Europa.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 28 ottobre 2017