Gli errori della sinistra. Intervista a Luca Ricolfi

Questa ennesima tornata elettorale del 2018 ha come risultato il titolo del suo ultimo libro: “Sinistra e popolo“. Era una profezia?

In un certo senso sì, tuttavia è dal 2000, ossia da quasi vent’anni, che denuncio che “la sinistra non è più di sinistra”.

Dove ha sbagliato e continua a sbagliare il Pd, che ha perso anche santuari come Pisa e Siena?

Il Pd sbaglia sui due punti fondamentali, ossia sulla questione della sicurezza e su quella dell’eguaglianza, perché di fatto sottovaluta entrambe. Ma sbaglia anche in ciò con cui le sostituisce: puntare quasi tutte le carte su diritti umani e diritti civili significa trasformare il Pd in una specie di partito radicale, libertario e individualista.

Però ormai la frittata è fatta. È prima che doveva correggere la rotta, non ora che il vento soffia nelle vene dei populisti. Se domani cambiassero completamente linea, nessuno gli crederebbe…

È più dannoso un segretario che non si dimette mai (Renzi) o un partito Ztl che rappresenta l’alta borghesia dei centri storici?

La seconda che ha detto: il partito Ztl è più dannoso del suo segretario. Le colpe di Renzi sono ampiamente sopravvalutate: se il problema del Pd fosse Renzi, una valanga di voti sarebbe piovuta su LEU.

Un Pd così in difficoltà avrebbe potuto rimanere un partito rifugio (parole sue) contro la strana alleanza 5stelle-Lega. Perché non è così?

Perché la gente è stufa di chiacchiere, e detesta i racconti trionfalistici. Chi vota i populisti non lo fa in base a una scelta di fondo, o a convinzioni ferme. Semplicemente pensa: Renzi è un bullo chiacchierone e inconcludente, vediamo se questi qui riescono a combinare qualcosa.

Tenete presente che, qualsiasi indicatore serio si prenda (Pil, occupazione, disoccupazione, povertà), siamo agli ultimissimi posti in Europa, e su molti indicatori le cose sono peggiorate con Renzi e Gentiloni. Per cui chi si sente ripetere fino alla noia “siamo stati bravi, abbiamo portato la barca in salvo, con noi le cose vanno meglio”, tutt’al più pensa ai barconi dei migranti, non certo alla barca-Italia.

C’è un altro partito che soffre in silenzio dentro la coalizione di centrodestra: Forza Italia. È un declino passeggero o un tramonto?

Tramonto, direi. A meno di un cambio completo di persone, idee, organizzazione, che però è del tutto improbabile: i vecchi tendono a conservare sé stessi, e Forza Italia è un partito culturalmente vecchio, senza guizzi e senza ricambio. Vi sembra possibile che sia ancora Gasparri a dire la sua frasetta preconfezionata ogni giorno nei Tg di Stato?

Cosa pensa di questa prima fase governativa di Salvini e Di Maio? La grinta piace agli italiani? Dalle risposte nell’urano si direbbe di sì.

Penso quel che pensano le persone normali: sull’immigrazione almeno questi ci provano a cambiare le regole, stiamo a vedere se ottengono qualcosa.

Sull’economia resto della mia idea: o ridimensionano molto il programma, o ci portano al disastro. Teniamo presente che lo spread è 120 punti sopra il livello ante-elezioni, e che altrettanti punti sono destinati ad aggiungersi quando finirà il Quantitative Easing. Ma i politici italiani fanno il solito errore: credono che il problema sia Bruxelles, mentre il problema sono i mercati. Quando lo spread tornerà vicino a 400 punti base sarà del tutto inutile ottenere più flessibilità sui conti pubblici.

Wolfgang Munchau, condirettore del Financial Times e mai tenero con l’Italia, ha scritto che finalmente il nostro è un Paese che non ha paura. E l’Europa dovrà tenerne conto. Sensazione reale o passeggera?

Sensazione reale, speriamo non passeggera.

L’Europa, soprattutto quella di Emmanuel Macron, è molto infastidita dal nuovo governo italiano. Perché?

Un po’ è un fatto di classe. L’Europa di Bruxelles è fatta di persone istruite, estremamente educate, diplomatiche (talora anche un po’ ipocrite), che reagiscono a Salvini come nei salotti si reagisce se entra un barbone, o come i nobili del’800 reagivano ai borghesi. Macron è un esemplare perfetto di questa specie di élite.

Poi naturalmente ci sono i conflitti di interesse reali fra Francia e Italia, che i media italiani si ostinano a non vedere. Su questo una delle poche voci coraggiose è stata quella di Roberto Napoletano, che con “Il cigno nero e il Cavaliere bianco” (La Nave di Teseo, 2017) ha provato a spiegare un po’ di cose sul nazionalismo francese.

La sinistra vincente sembra rimasta solo nelle redazioni, da dove partono anatemi nei confronti degli italiani ignoranti. È una strategia o un dirotto della Valtellina?

Solo nelle redazioni? Non direi, la sinistra è tuttora egemone nel mondo della cultura, dell’arte, dello spettacolo, in una parte della magistratura, nel terzo settore, e ovunque controlla il potere locale. La non-sinistra, invece, è tuttora in difficoltà, perché non possiede un contro-racconto dell’Italia. E’ questa la forza della sinistra: finché la non-sinistra sarà impersonata da figure come Salvini, Di Maio o Berlusconi, la sinistra purosangue continuerà ad esercitare un’influenza rilevante, se non a dettar legge come in passato.

Quali caratteristiche dovrà avere la sinistra del futuro per tornare a vincere in Italia?

La sinistra italiana è così impermeabile agli input esterni che non credo proprio possa tornare a vincere cambiando sé stessa. Tendo a pensare che, se tornerà a vincere, sarà soprattutto perché gli italiani sono volubili: se neanche questi due (Salvini e Di Maio) funzionano, e Forza Italia dovesse restare appisolata come oggi, prima o poi riproveremo quelli di prima.

Intervista a cura di Giorgio Gandola pubblicata su La Verità del 27 giugno 2018



PD: stupefacente è quanti lo votano ancora

Per molti versi i risultati dei ballottaggi non fanno che confermare quelli del primo turno. L’elettorato si è spostato decisamente a destra, il movimento Cinque Stelle non riesce a replicare il successo delle politiche, la sinistra arranca. Se però si osservano le cose più da vicino, si possono notare anche altri elementi.

Il primo è che in diversi comuni i risultati hanno ribaltato le previsioni della vigilia, o hanno contraddetto i trend nazionali. In Sicilia, il Movimento di Grillo ha perso Ragusa, che governava da cinque anni; ma in Puglia il centro-sinistra, sconfitto alle Politiche del 4 marzo, ha vinto 10 ballottaggi su 11. E gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Si potrebbe osservare che la mobilità dell’elettorato italiano non è una novità, perché risale almeno ai primi anni ’90. Ma l’impressione è che ora si sia davanti a un salto di qualità. Con l’affermazione del tripolarismo, e la formazione di un’alleanza di governo del tutto inedita, gli elettori sono diventati pronti a capovolgere le proprie scelte ad ogni appuntamento elettorale, non di rado in una logica essenzialmente punitiva. Al modello della “fedeltà leggera” (cambiamenti di partito all’interno del medesimo schieramento), descritto da Paolo Natale ormai molti anni fa, sembra essere subentrato un modello che si potrebbe chiamare di “infedeltà repentina”, per cui l’elettore non si sente minimamente vincolato ad alcuna appartenenza, sia pur definita in senso lato.

E qui incontriamo il secondo elemento saliente di queste ultime tornate elettorali: la perdita, da parte del principale partito della sinistra, di molte sue roccaforti delle regioni rosse, in particolare in Toscana (emblematico il caso di Siena).

Ora il gruppo dirigente del Pd si interroga sul perché dell’ennesima sconfitta, tanto più sorprendente se si pensa che, dopo l’alleanza dei Cinque Stelle con la Lega, per i delusi di sinistra è diventato molto più difficile di prima punire il partito di Renzi votando quello di Grillo. Quel che stupisce, tuttavia, non è la sconfitta della sinistra, ma che essa sia arrivata così tardi. Personalmente trovo miracoloso che, nonostante il carattere elitario della cultura di sinistra, i ceti popolari abbiano pazientato così a lungo prima di abbandonare il partitone in cui quella cultura si incarnava. Anzi, in un certo senso, trovo che – per quel che è diventato – il Pd abbia ancora troppi voti.

Provo a spiegare queste due affermazioni, volutamente provocatorie (ho ancora un lumicino di speranza che qualcuno le provocazioni le raccolga).

La ragione per cui trovo stupefacente che la sinistra abbia mantenuto i suoi consensi fino a poco fa ha un nome e un cognome: Giorgio Guazzaloca. Ve lo ricordate? Il 27 giugno 1999 (esattamente 19 anni fa) veniva eletto sindaco di Bologna, primo sindaco non comunista della città rossa. Nella vittoria di Guazzaloca un posto centrale occupava il tema della sicurezza, che giusto in quegli anni emergeva anche in altre città del Nord (ad esempio a Torino, a Padova), e nel 2001 avrebbe contribuito non poco al trionfo elettorale del centro destra (2° punto del “Contratto con gli italiani”). Ebbene quella vittoria, avvenuta nel cuore dell’Emilia rossa, era un campanello d’allarme chiarissimo, e perciò difficilissimo da ignorare. E invece la classe dirigente del maggior partito di sinistra, con pochissime eccezioni, ci riuscì benissimo. Allora come oggi, di fronte ai timori della gente, la parola d’ordine della cultura di sinistra è sempre rimasta la stessa: dimostrare alla gente che le sue paure sono infondate. L’ho sentito ripetere ancora pochi giorni fa, in una trasmissione radiofonica, da uno dei più autorevoli giornalisti progressisti: il dovere della sinistra è “smontarle”, le paure della gente. Perciò la mia domanda non è: perché il Pd perde? Ma semmai: perché i suoi elettori hanno resistito così a lungo?

La ragione per cui trovo che il Pd abbia ancora troppi voti ha anch’essa un nome e un cognome: Emma Bonino. Così come Berlusconi non è mai riuscito a costruire un partito liberale di massa (Forza Italia è stato di massa, ma non è mai stato liberale), così Emma Bonino (con e senza Marco Pannella) non è mai riuscita a costruire un partito radicale di massa (le liste Bonino-Pannella sono state radicali, ma non di massa). Quel che non è riuscito ai radicali, tuttavia, è riuscito perfettamente al Pd: oggi il Pd è un perfetto partito radicale di massa. Se pensate ai temi su cui, specie in questa legislatura, il Pd ha puntato per definire la sua identità, trovate: unioni civili, testamento biologico, riforma carceraria, reato di tortura, ius soli, accoglienza dei migranti, Europa (ricordate lo slogan? ci vuole “più Europa”). E che cosa sono questi temi? Sono i temi tipici di un partito radicale di massa, assai più attento ai diritti civili che a quelli sociali. Ecco perché dico che il bicchiere del Pd può essere visto come mezzo vuoto ma anche come mezzo pieno. Il Pd è un partito ormai piccolo, se continuiamo a pensarlo come l’erede unico del Pci, ma è un grande partito se lo pensiamo come la realizzazione del sogno radicale.

Che queste, al di là della provocazione, possano essere in realtà due facce della medesima medaglia lo aveva perfettamente capito il grande filosofo Augusto del Noce, che nel 1978, giusto 40 anni fa, in un libro significativamente intitolato “Il suicidio della rivoluzione“, aveva coniato quella definizione, intuendo quel che il Pci sarebbe diventato: non il partito della rivoluzione (e del popolo) ma il partito della borghesia, attento alle aspirazioni individualiste e libertarie dei ceti medi.

Non c’è niente di male nell’essere un partito radicale (quasi) di massa, paladino dei diritti individuali, aperto alla globalizzazione e ai flussi migratori. Quel che stride è credersi quel che più non si è, ovvero un partito popolare, paladino dell’eguaglianza, attento ai poveri e ai diritti sociali (nel marxismo si chiama falsa coscienza, in filosofia autoinganno). Perché gli elettori possono metterci più tempo dei filosofi a cogliere i grandi cambiamenti, ma prima o poi li riconoscono.