Gli italiani e l’Europa: tra sfiducia e paura dell’isolamento

Come noto, per la prima volta nella sua storia elettorale, le recenti consultazioni europee hanno fatto registrare a livello complessivo un significativo incremento del turnout. Da quando sono nate, nel 1979, il tasso di partecipazione era infatti andato progressivamente calando, dal 62% della sua prima edizione fino ad arrivare al misero 42,6% del 2014, quasi 20 punti in meno. Un regresso costante, in buona parte causato dalla scarsa affluenza registratasi dai nuovi ingressi nella UE, la cui rotta è stata invertita (paura dei sovranisti?) proprio quest’anno, con un incremento medio di oltre otto punti percentuali, determinato da un aumento dei votanti in quasi tutti i 28 paesi con le sole eccezioni, statisticamente significative, di Bulgaria (-5%), Italia e Irlanda (-3%), oltre ad altri 4-5 paesi con un decremento minimo.

L’Italia dunque è in negativa contro-tendenza, e l’emorragia partecipativa non si arresta nemmeno in questa occasione. Il dato italiano appare in linea con quanto registratosi nelle numerose indagini demoscopiche dell’ultimo anno, che hanno infatti puntualizzato come il gradimento nella propria presenza nella UE fosse per l’appunto nel nostro paese tra i livelli più bassi (di fatto il più basso, se non si tiene in considerazione l’UK, già in Brexit), sebbene con una marcata opinione prevalente di due terzi (43% a 23%) a favore del “remain”.

La campagna comunicativa dei due partner di governo, piuttosto euroscettici benché non più – come nel corso delle politiche 2018 – velatamente indirizzati verso il “leave” almeno per la moneta, pare aver dato qualche frutto, nell’atteggiamento degli italiani, in particolare per quanto riguarda il loro giudizio verso l’Unione Europea.

Non sono ovviamente più i tempi delle grandi speranze di fine Millennio, quando l’obiettivo di entrare in Europa fece le fortune del governo Prodi-Ciampi, con convinta adesione anche di ampie fette della popolazione, disposte a fare i sacrifici economici necessari per non essere tagliata fuori dal mondo che contava. Allora (nel 1997) il livello di fiducia per la Comunità Europea, come in quel periodo veniva chiamata, arrivava a valori poco inferiori al 70%, e per più di un decennio, pur tra alti e bassi, la UE ha rappresentato per gli italiani il “luogo” più importante in cui confidare, per mantenere un equilibrio di fondo a fronte dei sommovimenti politici-elettorali interni, nell’eterna battaglia tra centro-sinistra e centro-destra.

Il punto decisamente più elevato della fiducia (70%) è stato il 2011, annus horribilis del governo Berlusconi, quando in seguito all’incontrollabile incremento dello spread, la Ue impose un deciso cambiamento di rotta nella gestione economico-finanziaria del nostro paese, facilitando l’ingresso di Mario Monti in un governo tecnico che aveva come obiettivo principale il risanamento dei conti pubblici. Ma da allora inizia una inesorabile parabola discendente, con una diminuzione media della fiducia di circa 5 punti all’anno, fino ad approdare al valore attuale del 40%: una perdita secca di 30 punti in soli otto anni.

Fonte: Abacus (1996-2002) – Ipsos (2003-2019)

Da super-garante a costante oggetto di critiche, provenienti non soltanto dagli elettori dei cosiddetti partiti “euroscettici”, ma anche da una quota significativa degli altri elettorati più “europeisti”, che per la maggior parte condivide l’idea che la Ue sia diventata nel tempo più l’Europa delle banche che quella dei popoli, fallendo la sua missione unificatrice cui si era guardato alla nascita con grandi speranze.

Cresce dunque costantemente il disamore verso l’istituzione europea, dopo la messa in discussione a cavallo delle politiche del 2018, da parte di Lega e M5s, sia della permanenza nella Ue sia, soprattutto, del mantenimento dell’Euro come moneta corrente nel nostro paese. Peraltro, una volta formatosi il nuovo governo giallo-verde, i due partner dell’esecutivo retto da Conte tendono lentamente ad ammorbidire le proprie posizioni su entrambi i punti di rottura. Si passa dunque dall’abbandono tout-court di Euro e di UE ad una conflittualità, che resta certo accesa, ma maggiormente finalizzata ad una ridiscussione dei termini dei rapporti tra Bruxelles e l’Italia, con la pressante richiesta di maggior autonomia decisionale sui programmi economico-finanziari interni.

Una decisa svolta rispetto al recente passato, che accompagna la stessa opinione pubblica più euroscettica verso un ripensamento delle proprie posizioni sulla possibile uscita dal treno europeo, facilitato anche dai problemi riscontrati dalla complicata Brexit inglese e dalla paura dell’isolamento che ne potrebbe generare negli anni futuri.

Così, le opinioni degli italiani cominciano progressivamente a mutare, a favore del mantenimento dello status quo su entrambi i temi. Le ultime rilevazioni demoscopiche disponibili ci parlano oggi di una quota pari a tre quarti degli elettori che si dichiara favorevole al mantenimento dell’Euro come moneta corrente, con punte massime tra chi ha votato Pd (la quasi totalità) e punte minime tra i votanti di centro-destra. Allo stesso modo, e con quote pressoché identiche, l’opinione nei confronti dell’uscita dell’Italia dalla UE, che vede ridursi sensibilmente, rispetto allo scorso anno, coloro che si dichiarano a favore di una Ita-exit.

Se ancora qualcuno avesse dei dubbi sulla forza e l’impatto della comunicazione per forgiare le opinioni dei cittadini, questi risultati dovrebbero fugare ogni loro tipo di incertezza.




Gli elettori 5 stelle e le bufale sulle regionali

Si sono da poco consumate le prime consultazioni elettorali dopo il terremoto delle politiche. In Molise e in Friuli-Venezia Giulia, i verdetti delle elezioni regionali hanno ampiamente rispettato ciò che gli analisti politici più attenti avevano previsto alla vigilia, con in entrambi i casi una vittoria larga (in Friuli) e di misura (in Molise) della coalizione di centro-destra, ormai decisamente a trazione leghista.

Ma i media non hanno perso l’occasione per sprecare titoloni su risultati che, tutto sommato, erano sicuramente preventivabili. L’iniziale strillo da prima pagina, in attesa degli scrutini, riguardava l’ipotetico crollo dell’affluenza: “C’è un vincitore assoluto, l’astensione. Oltre venti punti in meno rispetto alle politiche!”. Una notizia ovviamente falsa, come tutte quelle che riguardano la partecipazione alle amministrative, perché in quel tipo di elezione sono conteggiati come elettori potenziali tutti, anche chi risiede all’estero, mentre alle politiche questi ultimi entrano a far parte dei votanti non considerati nel territorio italiano.

Per cui in Molise, ad esempio, dove hanno votato soltanto 10mila persone in meno rispetto al 4 marzo, il calo reale è limitato a 4 punti percentuali, concentrati nei paesetti e nelle valli. Un po’ poco per gridare alla disaffezione. Un calo più considerevole si è effettivamente registrato in Friuli, ma non certo della portata evidenziata (-26%), bensì di poco più del 16%, la stessa quota di votanti delle scorse regionali del 2013, quando si votava peraltro in due giornate.

Seconda piccola bufala: crollano i 5 stelle, che perdono nettamente la sfida con il centro-destra! Ora, il fatto che abbiano perso è senz’altro vero, ma è altamente opinabile che questo sia da collegare, come molti hanno fatto, con il comportamento ondivago di Di Maio, incerto sull’alleanza di governo tra il centro-destra ed il Partito Democratico, o con un improvviso calo di consensi del movimento. La realtà è che l’elettorato dei 5 stelle è molto particolare, e non può essere equiparato tout-court a quello delle altre forze politiche.

L’elettorato pentastellato modula infatti la propria partecipazione elettorale, nelle diverse occasioni di voto, in riferimento alla loro salienza: più le consultazioni vengono percepite come importanti, decisive dal punto di vista dell’assetto complessivo del paese, più la loro partecipazione tende a crescere; più invece ci troviamo in presenza di consultazioni di secondo livello (come le europee) o di terzo livello (come le amministrative, regionali o comunali), più cresce al contrario la defezione alle urne. Questa sorta di partecipazione intermittente, quanto meno di una parte significativa dei votanti 5 stelle, diviene quindi il tratto distintivo di un elettorato la cui mobilitazione selettiva influisce in maniera determinante sul risultato complessivo.

È parzialmente fuorviante quindi affrontare l’analisi del voto, confrontando tra loro elezioni di diverso ordine, attraverso il classico approccio dell’incremento o del decremento nei valori percentuali di ciascun partito come indicatori del mutamento dei consensi, dell’appeal delle diverse forze politiche in campo. Ciò che funziona (ancora) per i partiti più tradizionali non pare poter essere applicato al Movimento 5 stelle, per il quale è invece determinante –come si è detto- il giudizio di una parte del suo elettorato sull’importanza percepita della consultazione elettorale.

Nel caso della Sicilia, ad esempio, nelle regionali di novembre 2017 il M5s ha ottenuto una quota di voti nettamente inferiore a quella delle successive politiche: a distanza di solo tre mesi, l’incremento dei consensi per i 5 stelle è stato di oltre 400mila voti, con un parallelo incremento del numero dei votanti (+350mila). Una situazione simile, seppur posposta, si registra per le due consultazioni regionali tenutesi meno di due mesi dopo il voto del 4 marzo. In Molise, il M5s perde dalle politiche quasi 13mila voti, con un decremento dei votanti di circa 8mila; in Friuli Venezia Giulia, il M5s perde 110mila voti, ed il decremento complessivo dei votanti si attesta a circa 150mila unità.

Difficile non leggere quei risultati partendo dal ricordato astensionismo selettivo che vede come principale protagonista l’elettore 5 stelle, motivato da stimoli di partecipazione fortemente influenzati non tanto dal clima di opinione prevalente, quanto dall’importanza da loro attribuita alla specifica elezione. Perché, tradizionalmente, le formazioni uscite vincenti da una consultazione elettorale, vivono nei mesi successivi una sorta di “euforia” della vittoria, che porta spesso nuovi adepti sulla scia del cosiddetto “effetto bandwagon”.

Nel caso dei 5 stelle, che pur registra un incremento di appeal nelle dichiarazioni di voto delle indagini demoscopiche, questo non si verifica al contrario nei veri appuntamenti di voto. Il motivo prevalente deve farsi necessariamente risalire a quanto argomentato più sopra: una sorta di disaffezione selettiva alle urne, che non intacca invece gli altri elettorati che, a sostanziale parità del numero dei propri elettori, o soltanto con un lieve incremento, ottengono percentuali nettamente superiori nelle amministrative rispetto alle politiche.

È dunque questo un elemento chiave che caratterizza l’elettorato più vicino ai 5 stelle: si tratta di cittadini che manifestano una elevata fedeltà di voto al proprio referente politico, con ridotti livello di “tradimento” a favore di altre formazioni politiche, ma con una tendenza molto accentuata alla defezione, a disertare cioè le urne nel caso di elezioni reputate non decisive. Come dire: quando decido di andare a votare, scelgo sicuramente i 5 stelle, ma il costo della mia mobilitazione deve valere la posta in gioco, altrimenti preferisco rimanere a casa.