Marciapiedi da passeggiare

I romanzi che abbiamo scritto ce li dimentichiamo. Non pensiamo più a loro perché siamo presi, tirati, da nuove storie. I libri che abbiamo scritto, quindi, viaggiano da soli, staccati per sempre da noi che dopo averli creati, di loro non ci occupiamo più. Sono i nostri figli abbandonati.

In realtà non va esattamente così: i libri che abbiamo scritto covano sempre dentro di noi, esattamente come covavano prima di uscire. Erano, allora, una specie di brace sotto la cenere; e riprendono ad essere quella brace, una volta scritti e abbandonati.

Così, può capitare che a volte si riaccendano. Qualche giorno fa mi si è riacceso Non so niente di te, un mio romanzo del 2013, che amo molto e a cui penso troppo poco. C’è un giovane eroe dei nostri tempi, in quel libro: Filippo Cantirami, Fil, un giovane bravissimo economista che vince un dottorato a Standford e non ci va, preferisce stare in campagna a pascolare pecore, perché capisce, a un tratto, che fare l’economista di successo non è la vita che vorrebbe.

So che un autore non è bene che citi i suoi libri, ma Fil mi è tornato in mente di colpo una settimana fa quando ho letto, con grande felicità, questa frase: “Voglio apparire il meno possibile perché è il modo migliore per non scomparire”.

L’ha detta in un’intervista Anastasio, il rapper che ha appena vinto XFactor. Nell’intervista che ha rilasciato per “La Stampa” il 23 marzo confessa di avere non poche difficoltà a sopportare il successo, ovvero tutti gli infiniti impegni che il successo comporta, ospitate, comparsate, tour e “apparizioni di vario genere”. “Sogno un mondo dove scrivo canzoni e basta”, dice. Ma non riesce più a scrivere, da quando è famoso.

Dunque, la fama oscurerebbe l’opera. Il ruolo pubblico affonderebbe la creazione. E nel gioco di prestigio del successo, apparire equivarrebbe a scomparire.  Grande lezione. Chi ha anche solo una minima vita creativa sa che è così: per creare bisogna stare molto fermi, soli e nascosti. Possibilmente invisibili. Anonimi sarebbe il meglio (felici coloro che si occultano dietro pseudonimo…?).

Non so se questo discorso riguarda solo i lavori creativi, artistici. Penso di no. Penso che riguardi ogni nostra attività che abbia a che fare con l’anima, con la parte più spirituale di noi. Il pensiero, lo stare soli con noi stessi e lasciarsi portare dai pensieri, guardare i nostri pensieri mentre scorrono. Che i pensieri scorrano mi è molto chiaro: siamo costantemente attraversati da un fiume, se stiamo attenti possiamo percepirne la lenta e sinuosa corrente, a volte un balzello tra i massi, una cascatella.

Ecco, in certi momenti può capitare che in alcuni di noi si insinui la necessità di fermare la corrente di quei pensieri, di condurla da qualche parte e farne qualcosa di solido, meno acquoreo. Consolidare i pensieri in un’opera. Può essere scrivere una canzone o un romanzo, fare una scultura, un disegno. Ma anche costruire una casa, arredare una stanza, confezionare un abito. Leggere un libro. Studiare… Lo studio è già un’opera, è un’opera in fieri e ha molto a che fare con l’anima, e solo per uno sconsiderato – spero transitorio – errore di prospettiva noi oggi lo leghiamo soltanto alla realizzazione professionale, ne facciamo uno strumento concreto e finalizzato, un mezzo di trasporto che ci dovrebbe condurre dritti dritti al mondo del lavoro e basta.  Una visione molto riduttiva.

Dicevo, quando qualcuno di noi vuole consolidare i pensieri in un’opera, deve allontanarsi almeno un po’ dal frastuono, dalle sirene degli impegni e delle ambizioni: Fil rinuncia a fare un dottorato, per poter studiare! A un certo punto s’accorge che, se vuole veramente fare ricerca, deve abbandonare proprio gli studi. Sembra paradossale. Ma se gli studi sono diventati un mondo caotico e competitivo, egli deve fare proprio questo: andarsene. Isolarsi. Costruirsi una vita più consona. E la vita consona a studiare, pensare, creare, è una vita il più possibile vuota.  Vuota di impegni e di ruoli, e anche di cose e di persone. Soprattutto vuota di ambizioni.

A proposito… Siamo soliti dare un valore positivo all’ambizione, guai non averne almeno un po’; l’ambizione ci porta avanti, ci aiuta a migliorare. Certo. Ma ambire vuol dire “andare attorno”. Girare in qua e in là, darsi un gran daffare presso “le persone utili”, per acquisire una posizione. In origine gli ambiziosi erano i candidati che andavano in giro a procacciarsi i voti. Ci piace così tanto? L’ambizione ci assorbe totalmente, finisce per diventare lo scopo di se stessa. Ci impedisce di creare, ci annebbia i pensieri, ci toglie il tempo, e la libertà. Ambizione è desiderio di potere. E arte e potere non sono mai andati bene insieme. Perché dovrebbero farlo oggi?

Se Fil vuole lasciare una traccia del suo ingegno, se vuole creare qualcosa di solido nell’ambito dei suoi studi, deve ambire a… non avere ambizioni. Deve diventare… nessuno. Rinunciare a impegni pubblici, cariche, prestigio. Astenersi da ogni “apparire”. E, così, riprendersi l’anima. Solo a quel punto, proprio come dice Anastasio, non scomparirà: la sua ricerca di Economia sfocerà in un’idea nuova, rivoluzionaria, che resterà nel tempo.

Creare presuppone sempre un rinunciare.

Mi verrebbe da dire che il lavoro stesso ci distoglie dalle attività creative, da quella condizione dell’anima che non saprei come chiamare. E che quindi certe apatie e rilassatezze, certe pigrizie, certi impulsi a dire anche noi, sulla esemplare scia di Bartleby, “Avrei preferenza di no”, siano dovuti a improvvise e ribelli lucidità, in virtù delle quali ci rifiutiamo di obbedire agli onerosi diktat del mondo e ci riprendiamo per così dire i “nostri momenti”, quei bagliori dell’anima di cui sentiamo il bisogno.

Il lavoro, se non è lavoro consono alla nostra anima, ci distoglie, ci frastorna e ci estrania da noi stessi. È in qualche misura il nostro più acerrimo nemico. E va combattuto. Anche per poco, non solo per opere imperiture. Anche solo per fumarsi un sigaro sul balcone, andare a passeggio alle tre del pomeriggio, guardarsi alla sera un film. Anche per cose che son ritenute marginali, banali o sciocche.

Lo dice molto più mirabilmente Cesare Pavese, in una lettera del 14 aprile 1942, che la mia amica Giovanna Ioli chissà perché mi manda, oggi, su whatsapp, proprio mentre sto scrivendo queste Paginette, ignara, ma come sempre fatidica. Pavese scrive al suo editore Giulio Einaudi di lasciarlo in pace, di non caricarlo come sempre di lavoretti estenuanti di revisione e altro, perché, dice, “c’è una vita da vivere, ci sono delle biciclette da inforcare, marciapiedi da passeggiare e tramonti da godere”. Quella vita che è già, ovviamente, scrittura. Solitaria, im-potente, e autoappagante.