L’esperimento – Accordo con l’Albania

Alle volte gli economisti mi stupiscono per la loro ingenuità. L’ultima volta che mi è successo è stato sabato scorso, leggendo su Repubblica un articolo di Tito Boeri e Roberto Perotti (due fra i miei economisti preferiti) sul progetto Meloni-Rama di delocalizzare in Albania 36 mila richieste di asilo l’anno, costruendo ex novo due appositi centri con una capacità totale di 3000 richiedenti asilo. Il nocciolo del ragionamento dei due illustri economisti è il seguente: il numero effettivo di domande smaltite sarà inferiore a 3000 all’anno perché il tempo medio di processamento delle richieste è 12 mesi, non 4 settimane.

In effetti, è quel che si insegna in vari corsi universitari, innanzitutto quelli di ingegneria gestionale, quando si spiega la formuletta che collega le vendite annuali con lo stock di merci in magazzino e il loro tempo medio di giacenza: se devo vendere 36000 e il mio magazzino tiene 3000 allora devo rinnovare il magazzino 12 volte l’anno. Banale, e leggermente cinico, visto che stiamo parlando di essere umani.

Però la formula è ineccepibile, come tutte le identità contabili. Il punto è un altro: perché mai il tempo di smaltimento delle domande dovrebbe essere 12 mesi, o addirittura superiore?

La risposta di Boeri e Perotti è: perché in Veneto, dove le cose vanno meglio che altrove, gli “operatori del settore” ci hanno detto che ci vogliono almeno 12 mesi. E, se accettiamo questa stima e la infiliamo nella formula di magazzino, salta fuori che non potremo processare più di 3000 domane e anzi, tenuto conto di altri fattori rallentanti, ne finiremo per processare circa 2000, con costi pro capite enormi, visti i costi fissi che i due centri albanesi comporteranno.

Ma la vera domanda è perché mai, in una struttura nuova di zecca, e dedicata solo alla gestione dei migranti, i tempi di smaltimento delle domande dovrebbero essere quelli medi attuali sul territorio della penisola, dove le questure sono sovraccariche (come gli ospedali!), le procedure sono complicate e farraginose (anche per il coinvolgimento di enti del terzo settore), e alle carenze di personale nelle questure e nelle commissioni territoriali non si riesce a porre rimedio?

E se accadesse invece esattamente l’inverso, ossia che proprio in Albania – e solo in Albania – i migranti potessero esercitare il diritto di essere ascoltati in tempi ragionevoli, senza le umiliazioni, le peregrinazioni, le infinite attese cui da sempre sono costretti in Italia?

In breve: la capacità effettiva dei due centri albanesi (36000 domande, o solo 2000?) non è determinabile con una formula contabile, ma è un interessante problema di sociologia dell’organizzazione. Può darsi benissimo che le cose vadano come prevedono Boeri e Perotti, e persino che vadano peggio: se a oltre 20 anni dal varo della legge Bossi-Fini nessun governo è riuscito a oliare gli ingranaggi della burocrazia dell’accoglienza, è possibilissimo che non ci riesca nemmeno questo governo.

Ma perché non dargli una chance? O, perlomeno, augurarsi che in Albania le cose vadano meglio che sul suolo italiano? Perché scommettere sempre e solo sul fallimento dei tentativi italiani di gestire il problema degli sbarchi? Perché le menti più brillanti di questo paese, anche quando sono chiaramente collocate nel campo riformista, si ingegnano soltanto a profetizzare fallimenti, anziché a dare idee su come correggere quel che non va e far riuscire l’esperimento?

Forse, una vera sinistra riformista, liberale, empirista, deve ancora nascere in Italia. Perché, se ci fosse, la sua stella polare sarebbe l’interesse nazionale, non la speranza – neanche poi tanto segreta – che l’esperimento albanese si riveli l’ennesimo flop.




Fine del sogno europeo?

I rappresentanti di una decina di paesi, fra cui (forse) anche l’Italia, si incontreranno a Bruxelles per preparare il Consiglio europeo del 28 giugno. Immersi fino al collo nelle miserie della politica nostrana, rischiamo di non renderci conto che, da come andranno questi due incontri, dipenderà il futuro dei cittadini europei, e non solo di essi. Quanto disperata sia la situazione europea lo ha invece visto lucidamente Niall Ferguson, editorialista e professore di storia, in un articolo pubblicato pochi giorni fa su “The Sunday Times”. Scettico fino a qualche tempo fa sulle ragioni della Brexit, ora si sta convincendo che non avevano tutti i torti i fautori dell’uscita dall’Unione Europea quando osservavano che uscire altro non era che scendere da una barca che affonda.

Ora quella barca potrebbe cominciare ad affondare davvero, non per l’austerità, non per le regole sul deficit e sul debito, non per i problemi della povertà e della diseguaglianza, non per disaccordi sull’unione bancaria, o sul bilancio comune, o sul costituendo Fondo Monetario Europeo. No, l’Europa rischia di affondare, più o meno lentamente, su un unico problema: la gestione dei migranti. Un problema che Ferguson descrive con un aggettivo, “intrattabile” (intractable), che i matematici riservano ai problemi per i quali non esistono strumenti, non dico per risolverli, ma nemmeno per provare ad attaccarli.

Da dove viene tanto pessimismo?

Per Ferguson l’intrattabilità del problema migratorio ha due radici. La prima è la difficoltà di far coesistere i valori culturali dell’Occidente con quelli dell’Islam. La seconda è che milioni di africani intendono raggiungere l’Europa, ma “la frontiera meridionale dell’Europa è quasi impossibile da difendere da flottiglie di migranti, a meno che i leader europei siano preparati a lasciarli annegare”. La differenza fra Europa e Stati Uniti sarebbe che all’America per evitare la guerra civile basta chiudere la frontiera con il Messico (è impensabile un’invasione dal mare), mentre questa strada è quasi impossibile da percorrere in Europa, perché il Mediterraneo è una frontiera indifendibile: uno dei tanti casi in cui è la geografia che fa la storia.

È convincente una simile diagnosi?

Per certi versi no. Se il problema è evitare la guerra civile, si potrebbe osservare che forme di guerra civile possono prender piede non solo perché si lasciano aperte le frontiere, ma anche perché le si chiude. Non so se, dopo la guerra civile per l’abolizione della schiavitù (1861-1865), vi sia mai stato nella storia americana un periodo in cui i cittadini statunitensi siano stati divisi come lo sono oggi, grazie a un presidente divisivo come Trump.

Per l’Europa, però, forse la diagnosi di Ferguson è solo incompleta, più che sbagliata. Quel che manca, a mio parere, è la risposta alla domanda: perché la classe dirigente europea è arrivata a questo punto? Perché ha dovuto attendere che in Italia andassero al potere i cosiddetti populisti per scoprire il problema migratorio? Che cosa ha fatto sì che quasi tutti i governi occidentali più illuminati (o presunti tali) abbiano sonnecchiato in questi anni?

Temo che, in ultima analisi, la risposta sia quella che, se fosse vivo, oggi darebbe Max Weber: hanno sostituito l’etica della responsabilità con l’etica dei principi (o etica della convinzione).

La classe dirigente europea si è mossa come se i valori della cultura occidentale, a partire dalla filosofia dei diritti umani, avessero validità universale, e come se il sogno cosmopolita di un’unica comunità mondiale, con le relative istituzioni e la relativa polizia internazionale, fosse già realizzato. I politici che ora faticosamente cercano di non far deflagrare l’Europa, per decenni si sono dimenticati che gli Stati esistono ancora, e che è ai cittadini degli Stati che devono rispondere, se non altro perché è dagli elettori che dipende la loro permanenza al potere. Da questa dimenticanza è scaturita la retorica con cui, in tutti questi anni, si è parlato dei migranti, trattando l’accoglienza come un dovere inderogabile, e assimilando di fatto ogni legittima aspirazione a cambiare paese come un diritto inalienabile della persona umana, valido verso qualsiasi paese e in qualsiasi circostanza.

La cosa ha funzionato finché i migranti erano veri rifugiati (come nei primi decenni del dopoguerra), o erano poco numerosi, o erano tanti ma utili alle nostre imprese e alle nostre famiglie. Ma non ha funzionato più quando l’imperativo di salvare i naufraghi si è scontrato con l’indisponibilità di vasti settori dell’opinione pubblica europea ad accogliere i migranti nel modo massiccio, disordinato e irregolare degli ultimi anni. Quel che gli elettori europei hanno cominciato a fare, in altre parole, è di richiamare i propri governanti all’etica della responsabilità: che non significa semplicemente valutare le conseguenze delle proprie azioni (in questo caso le conseguenze dell’accoglienza “senza se e senza ma”), ma valutarle innanzitutto in relazione ai cittadini da cui traggono la loro legittimazione, che non sono i cittadini del mondo ma i cittadini di uno specifico territorio, con le sue tradizioni, i suoi valori, i suoi bisogni e interessi.

È questo che, a mio parere, ha spiazzato molti governanti europei. È come se, a un certo punto, l’opinione pubblica europea avesse voluto ricordare ad ogni Capo di Stato di essere, per l’appunto, “solo” un capo di stato, non il Papa di Roma. Il quale Papa può permettersi di invitare all’accoglienza universale, ignorando le conseguenze delle sue parole sui cittadini europei, per un ottimo motivo: come ogni autorità spirituale, ogni predicatore, ogni rivoluzionario, ogni convinto sostenitore di una causa, il Papa agisce secondo l’etica dei principi, non secondo l’etica della responsabilità. La sua constituency, il suo “bacino elettorale”, è l’umanità intera, non certo quella minuscola porzione che è l’Italia o l’Europa.

La paralisi dell’Europa è anche la conseguenza di questo lungo sonno della rappresentanza. Orgogliosa di indicare la via al mondo intero, la classe dirigente occidentale (non solo europea) si è mossa come se essa fosse la guida morale del mondo, e al tempo stesso la paladina dei diritti di tutti. Ma era un film, un film girato essenzialmente per sé medesima. Gli stessi che si autoproclamavano paladini dei diritti di tutti, non esitavano a calpestare quei medesimi diritti quando interessi economici, strategici, geopolitici suggerivano l’intervento (a quante guerre umanitarie o di liberazione abbiamo dovuto assistere?) o, ancora più tragicamente, consigliavano l’astensione (ricordate i massacri del Ruanda?).

L’origine dell’ondata populista forse è anche qui. Di fronte a una classe dirigente che si autopercepisce come un’autorità spirituale, ma agisce come il più temporale dei poteri, i cittadini europei hanno cominciato a presentare il conto. La “lebbra” populista che sale in Europa, contrariamente a quanto pensa Macron, non è un morbo di origini misteriose. Quel morbo (ammesso che sia tale) è stato accuratamente coltivato nelle cancellerie europee, là dove, lentamente e quasi inavvertitamente, l’etica della responsabilità, che dovrebbe essere il faro di una vera classe dirigente, ha ceduto il passo all’etica della convinzione, che si addice ai profeti, non a chi vuole governare un continente.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 23 giugno 2018



Opinione pubblica e politica. L’intervista a Luca Ricolfi

Un prete sardo solleva il velo sul conformismo: l’accoglienza, così come la stiamo vivendo in Italia non funziona, è senza regole. E’ solo buonsenso o c’è qualcosa di più?

È solo buon senso, niente di più e niente di meno.

Sulla Rete il 90% è d’accordo con il prete di Nuoro. Significa che l’opinione pubblica vede più lontano dei partiti della sinistra e dei cardinali?

Non direi che l’opinione pubblica vede “più lontano”. Direi semplicemente che vede. Il fatto è che, negli ultimi tempi, l’opinione pubblica è sempre più spaccata: c’è chi vede, perché utilizza il senso comune; e c’è chi non vede, perché usa le lenti dell’ideologia.

Lei dice: per la cultura progressista, la paura non è semplicemente infondata, è una colpa. Cosa significa, colpa nostra?

Sì, molti sedicenti progressisti usano l’espressione xenofobia (che viene dal greco, e significa solo paura dello straniero), come sinonimo di razzismo. Di qui il sillogismo: hai paura dello straniero, dunque sei razzista; ma il razzismo è una colpa; quindi devi vergognarti dei tuoi sentimenti.

È triste, perché significa che non siamo in tempi di libertà. In una società libera si possono discutere o stigmatizzare i comportamenti, non i sentimenti.

Per questo, per sottolineare quanto sia importante la libertà di sentire, come Fondazione David Hume, abbiamo adottato come motto questa frase di Tacito: “Felici i tempi in cui puoi provare i sentimenti che vuoi, e ti è lecito dire i sentimenti che provi”.

Come si può offrire protezione a chi teme di essere aggredito dall’immigrato, di perdere il lavoro perché ci sono loro che lo offrono a basso prezzo, di subire attentati da islamici radicali?

Distinguerei. Sugli attentati, islamici o no, non ci sono rimedi sicuri: fornire protezione è praticamente impossibile.  

Diverso il discorso sulla concorrenza lavorativa e sui rischi di aggressione. In questi campi fornire protezione sarebbe possibile, ma è politicamente difficile. Per ridurre le aggressioni, sarebbe indispensabile cambiare le norme che consentono ai giudici di rimettere rapidamente in libertà chi commette reati predatori. Per ridurre la concorrenza dei lavoratori stranieri si dovrebbe sradicare il lavoro nero, una realtà che è sotto gli occhi di tutti ma che né le Forze dell’ordine né la politica intendono combattere. Ed è un peccato, perché sarebbe un modo di ridare dignità a tutti i lavoratori, senza distinzione fra italiani e stranieri.

Nel suo libro ‘Sinistra e popolo’ (Longanesi 2017) lei parla di un divorzio in corso tra la sinistra e il suo elettorato. Non è troppo severo, non crede che gli elettori del Pd invece lo vogliono lo Ius Soli o l’accoglienza diffusa?

Certo, la maggioranza degli elettori del Pd vuole lo Ius Soli, e spesso anche l’accoglienza. Il problema è che queste due cose non le vogliono i ceti popolari. Che infatti preferiscono guardare ai partiti del Centro-destra e al Movimento Cinque Stelle.

Professore, lei dice di aver stima di Minniti. Non crede che la sua azione contro l’immigrazione disordinata possa far recuperare voti al Pd e alla sinistra?

Sì e no. Certo, la politica di Minniti può frenare la fuga dei ceti popolari dal Pd, ma può anche convincere una parte dei ceti medi e della sinistra radical chic a votare la Sinistra Purosangue, ovvero uno degli innumerevoli cespugli alla sinistra del Pd.

Intervista a cura di Nino Femiani apparsa su Il Resto del Carlino