Rileggendo oggi Rosario Romeo

Cancel culture. Il tumore maligno che ha colpito l’epoca contemporanea è la rimozione della storia, che è poi il rifiuto del destino che ci è toccato

«Un ragazzo di colore, Tory Bullock – ha scritto Giulio Meotti sul “Foglio” alcuni mesi fa – chiede di abbattere la statua, perché Lincoln non è un liberatore, ma soltanto un uomo bianco, in piedi sopra un ragazzo nero in ginocchio. In un video pubblicato giovedì sulla sua pagina Facebook, Bullock, uno scrittore, attore e influencer, ha fatto appello al sindaco di Boston Marty J. Walsh per rimuovere il memoriale. Ha lanciato una petizione, raccogliendo migliaia di firme». L’amministrazione democratica della città ha accolto la richiesta dell’afro-americano e così l’imponente statua è stata rimossa. Del resto Fred Kaplan, nel saggio Lincoln e gli abolizionisti, ha messo il timbro del politically correct sull’intera questione: “il presidente americano che ha abolito la schiavitù lo ha fatto con indugi, politicismi e lentezze perché, in fondo, era uno sporco razzista”.

Ho rilevato spesso – ma temo di essere la classica vox clamantis in deserto – che non è affatto da sottovalutare quanto sta accadendo in America. Non si tratta di accessi di follia o di un momentaneo “oscuramento dell’intelligenza” o di effimere mode culturali destinate a durare l’espace d’un matin ma della fine di un mondo – del nostro mondo – alla quale dovremmo purtroppo rassegnarci. Ciò che tramonta è l’idea che tutto ciò che siamo, nel bene e nel male, è il prodotto delle generazioni che ci hanno preceduto e che ogni passo avanti sulla via del cambiamento non avviene bruciandosi i ponti alle spalle. Se si fa il deserto dietro di noi ci si ritrova, immancabilmente, col deserto davanti a noi. Non solo gli individui, anche le società non possono trovare il necessario equilibrio interiore per produrre grandi opere di civiltà se non fanno i conti col passato, selezionandone i lasciti vitali da quelli caduchi.

Il tumore maligno che ha colpito l’epoca contemporanea è la rimozione della storia, che è poi il rifiuto del destino che ci è toccato. Roma conquistò il mondo finché la pietas nei confronti degli antenati fu il lievito della sua etica pubblica: le guerre civili che la insanguinarono, le forme di governo che sperimentò nel corso della sua storia secolare non le impedirono di rendere omaggio a quanti avevano concorso alla sua grandezza. In fondo Giulio Cesare venne pugnalato ai piedi della statua eretta a Pompeo Magno. La Rivoluzione francese non abbatté i monumenti che celebravano i grandi re che avevano costruito lo Stato e la Nazione e la stessa dittatura sovietica dovette ricordare le figure dei grandi zar per infiammare gli animi di odio antitedesco nell’anno dello sciagurato attacco di Hitler alla Grande Madre Russia.

Per avere senso compiuto del mondo che si è perduto, si potrebbero rileggere con profitto gli scritti del più grande storico italiano della seconda metà del XX secolo, Rosario Romeo. Non parlo solo dell’imponente studio su Cavour – un autentico chef-d’œuvre della storiografia italiana – ma degli articoli pubblicati sui grandi quotidiani, dal “Corriere della Sera” al “Giornale”. Dove è stupefacente la capacità dello studioso siciliano di impartire raffinate lezioni di metodo storico, recensendo le ricerche storiche via via sfornate dall’editoria italiana. Romeo era un autentico liberale ma il suo era un liberalismo che si traduceva in maturo “giudizio storico”, in meditazione profonda e documentata del passato, in volontà di comprendere i valori politici in conflitto: non venne mai tentato di spiegare ai suoi allievi e lettori “che cos’è il liberalismo” e non solo per la sua totale estraneità all’approccio ideologico agli eventi umani – caratteristico, va sans dire – di tanti suoi colleghi, (soprattutto marxisti) ma anche perché, nella dialettica tra la “vita” e le “forme”, gli interessavano gli individui concreti – gli attori sociali e politici – e non i programmi o gli intenti rimasti sulla carta.

Nel volume Scritti storici 1951-1987 che raccoglie i suoi interventi sui quotidiani (Ed. Il Saggiatore 1991 con Introduzione di Giovanni Spadolini) mi è parsa esemplare la recensione dedicata al lavoro di Mario Silvestri, Isonzo 1917 (Ed. Einaudi 1965). Al moralismo del pur apprezzato Silvestri, che condivide il giudizio di condanna emesso da Benedetto XV sulla prima guerra mondiale, Romeo obietta: “Perché certamente, la prima guerra mondiale, vista a mezzo secolo di distanza può apparire davvero ‘inutile strage’, guerra civile” rovinosa per l’Europa che sacrificò una somma enorme di energie e aprì essa stessa la via al declino della sua posizione nel mondo, senza che nessuna delle mete proposte ai popoli dai governi e dai ceti dirigenti a giustificazione dell’immenso massacro – di gran lunga il maggiore che l’Europa occidentale abbia conosciuto, anche in confronto al secondo conflitto mondiale – fosse paragonabile al sacrificio. Ma è evidente che con siffatte argomentazioni si rischia di troppo dimostrare: e a questa stregua non solo la prima guerra mondiale ma le rivoluzioni nazionali del Quarantotto e la stessa Rivoluzione francese con le successive guerre napoleoniche, per non parlare delle guerre di religione o delle Crociate appariranno inutili massacri compiuti per ideali di cui si può mostrare facilmente che non furono più alti di quelli che il Silvestri giudica “falsi” e “grotteschi” del 1914, o che quanto meno simboleggiavano mete assai più economicamente raggiungibili per altra via. In tal modo l’intera vi­cenda degli uomini può apparire assurda e grottesca: se a fermarci su questa strada non intervenisse il ricordo di quale somma di valori sta invece intrecciata a quel grottesco, e se non fosse doverosa una generale riserva metodica di fronte al patente anacronismo di giudizi come questi, nei quali ideali interessi e aspirazioni del nostro presente vengono assunti a criterio di valutazione di epoche e di uomini che non li conob­bero e che si mossero invece sulla scia di altri interessi, aspirazioni e ideali”.

Siamo davvero a una svolta storica epocale: quello che Romeo giudicava un esito paradossale – e quindi assolutamente impensabile in una società civile moderna – sta diventando in America senso comune e, di lì, si sta riversando sull’Europa. Se oggi si facesse leggere a uno studente (liceale o universitario), il lungo brano appena citato, il suo stupore sarebbe eguale a quello provato dal grande risorgimentista se, redivivo, leggesse il libro di Fred Kaplan su Lincoln e gli abolizionisti. Giudizi anacronistici quelli di Mario Silvestri, di Benedetto XV e ora di Papa Francesco? No dal momento che il principio della retroattività in fatto di morale, sembra essere inteso e vissuto ormai come la grande conquista del nostro tempo.

Mi si consenta, però, una perplessità: non si dovrebbe, sul piano dell’assolutismo etico, che ispira la “cancel culture”, rammentare il detto evangelico “chi è senza peccato, scagli la prima pietra”? Se siamo così poco indulgenti verso i nostri padri e nonni, se non siamo affatto disposti a ricordare che, accanto ai lati oscuri del loro difficile “mestiere di vivere”, ci sono anche quelli positivi – le virtù che ci hanno fatto crescere moralmente e spiritualmente – non dovremmo usare la stessa, spietata, intransigenza verso di noi e i nostri vizi? Non dovremmo farci santi, diventare tutti “arcangeli della morte”, come l’integerrimo Saint-Just che con Robespierre, impose “la virtù all’ordine del giorno”?

No, non è proprio il caso di sottovalutare l’iconoclastia nordamericana ed europea! Quel che sta accadendo oggi non è una pericolosa stravaganza, è l’inizio di un incubo. E lo si capisce solo se il vilipeso “storicismo” – divenuto quasi sinonimo di passatismo, di avversione alla scienza e alla modernità – è stato una componente importante della nostra educazione dell’anima.

Pubblicato su Huffington Post il 2 gennaio