Osservazioni sul ddl Zan alla luce delle scienze psicologiche

Premessa

Come contributo alla discussione ddl Disposizioni in materia di contrasto dell’omofobia e della transfobia, noto come ddl Zan, scrivo alcune osservazioni alla luce delle conoscenze provenienti dalle scienze psicologiche, in particolare dalla psicologia dello sviluppo e dell’età evolutiva.

Ciò che immediatamente colpisce lo studioso di scienze umane alla lettura del ddl, a partire dall’articolo 1 che dà le definizioni dei termini usati, è la totale mancanza di alcun fondamento delle affermazioni in esso contenute nelle conoscenze scientifiche di psicologia di cui oggi disponiamo.

Che le affermazioni e le proposte prescindano da qualunque conoscenza scientifica non stupisce, perché l’ideologia, non esplicitata, che sta alla base del ddl Zan considera la scienza un’espressione di potere della società occidentale cui viene attribuito lo stesso valore di qualsiasi altra soggettiva interpretazione della realtà, individuale o collettiva. Ma la conoscenza scientifica non è questo; essa è il risultato di una metodologia rigorosa, che sottopone a verifica le sue ipotesi, in modo da impedire il più possibile il prevalere di valutazioni soggettive e di ideologie, in un confronto continuo con la realtà (sia essa fisica, biologica, psicologica o sociale); quest’ultima viene studiata secondo precise regole e viene riconosciuta nella sua specificità, contrastando ogni tendenza a giudicarla in modo soggettivo e pregiudiziale. Inoltre, essa sottopone le sue acquisizioni alla valutazione e alla revisione da parte della comunità degli scienziati.

La ricerca di una conoscenza il più possibile obiettiva è particolarmente difficile ma anche particolarmente necessaria in psicologia, dal momento che tutti noi ogni giorno, nelle nostre interazioni, interpretiamo la realtà con inconsapevoli stereotipi e giudizi preconcetti, oltre che con forme di ragionamento spesso fallaci, inappropriate o tipiche delle prime fasi dello sviluppo cognitivo. Tutti noi adulti utilizziamo, infatti, diverse forme di pensiero, da quello logico-scientifico a quello narrativo, intuitivo e anche magico. Per arrivare a una conoscenza non episodica e non limitata al caso singolo è però indispensabile utilizzare il pensiero logico-scientifico, che permette di superare le nostre soggettive e fallaci interpretazioni, rendendo ragione della realtà che stiamo studiando.

Si può quindi affermare che la conoscenza scientifica è l’unica che permette di rispettare la realtà studiata – nel caso della psicologia dell’età evolutiva: i bambini – senza sovrapporvi valutazioni personali e modelli culturali precostituiti, ma cercando al contrario di tenerli sotto controllo. Questo controllo non è mai totale e assoluto, ma la scienza è l’unica che cerca di farlo in modo sistematico e continuativo. Ritengo quindi che sia indispensabile esaminare le affermazioni contenute nel ddl Zan alla luce delle conoscenze psicologiche, per evitare di introdurre nel nostro ordinamento giuridico e nella prassi educativa posizioni che non hanno alcuna base scientifica riconosciuta e che possono di conseguenza danneggiare i soggetti a cui verrebbero applicate. Lo richiede il rispetto dei bambini, ai quali purtroppo l’educazione ha spesso imposto modelli che solo le conoscenze scientifiche hanno scardinato; un esempio per tutti è la repressione del mancinismo, che in passato ha reso infelici e maldestri moltissimi bambini.

Le definizioni di genere e di identità di genere

Nell’articolo 1, viene riportata una definizione di genere (per genere si intende qualunque ma­nifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso) che non trova alcun riscontro nelle attuali conoscenze scientifiche. Queste ultime considerano il genere di una persona il frutto della complessa interazione tra variabili biologiche e variabili culturali, in un mammifero del tutto speciale – capace di pensiero, linguaggio e autocoscienza – qual è l’essere umano. Le modalità di interazione tra queste variabili sono in larga parte sconosciute, lungo gli anni non solo dell’età evolutiva canonica (dalla nascita fino all’adolescenza e giovinezza) ma anche negli anni seguenti, lungo l’intero ciclo di vita. Lo sforzo della ricerca è proprio quello di comprendere come queste variabili interagiscono nel tempo e con quali esiti, ben lontano da interpretazioni unilaterali sia di tipo unicamente biologico – inapplicabili all’essere umano che ha peculiari caratteristiche cognitive e sociali – sia di tipo unicamente culturale, che negano le influenze biologiche e le differenze tra i sessi. Vi è oggi la consapevolezza che le variabili biologiche e culturali vanno studiate nella loro continua e complessa interazione (Bonino, 2019).

Anche la definizione di identità di genere non trova riscontro nelle conoscenze scientifiche. Essa viene ricondotta a una percezione e rappresentazione puramente soggettiva (per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dal­l’aver concluso un percorso di transizione), escludendo qualunque relazione con il sesso biologico. Ma il riconoscimento di sé in un sesso diverso da quello biologico è definito dalla letteratura scientifica “disforia di genere”, e non certo identità di genere. Si tratta di una condizione che provoca grande sofferenza, ma che riguarda fortunatamente una piccola percentuale della popolazione mondiale, valutata intorno all’1% (Riggio, 2021).

Premesso che lo sforzo educativo degli adulti dovrebbe essere quello di garantire un ambiente che offra le migliori condizioni per lo sviluppo delle disposizioni biologiche dell’individuo in qualunque campo (è quello che viene definito “ambiente ottimale di sviluppo”), per l’identità di genere si tratta di favorire il riconoscimento di sé in un sesso corrispondente a quello biologico, per evitare l’aumento della disforia di genere e della conseguente sofferenza. Non approfondisco qui questo aspetto, la cui trattazione richiederebbe molto spazio. Mi limito a osservare che i periodi dell’infanzia e della fanciullezza sono stati da tempo individuati come importantissimi per lo sviluppo dell’identità sessuale e di genere. L’identificazione di sé come maschio o come femmina è molto precoce e compare già dalla fine del secondo anno di vita. Questa embrionale identificazione di sé, sui cui meccanismi non è ancora stata fatta piena luce, richiede di essere rafforzata e sostenuta dall’ambiente, in famiglia prima e a scuola poi. In concreto, questo significa che i bambini e le bambine devono trovare intorno a sé figure di adulti di entrambi i sessi (purtroppo in questo la nostra scuola è carente) e che l’ambiente deve aiutarli nel rafforzare l’iniziale identificazione che i piccoli fanno di sé. Questo va fatto senza rigidità, tenendo conto della specificità di ogni singolo bambino, senza dimenticare però che i bambini sono dominati, a livello cognitivo, dal realismo percettivo: di conseguenza hanno bisogno di segni concreti e visibili. Ne sono un esempio gli stereotipi culturali sul vestiario, spesso aborriti dagli adulti. In realtà, se usati con parsimonia e flessibilità, essi sono a quest’età dei marcatori utili per i bambini al fine di collocare se stessi in una certa categoria sessuale. L’importante è non dare messaggi svalutanti o rigidi, senza tenere conto delle preferenze individuali. All’adulto sono richieste grande sensibilità, attenzione e rispetto per le esigenze dei piccoli.

L’istituzione della Giornata nazionale all’articolo 7

Il testo recita: 1. La Repubblica riconosce il giorno 17 maggio quale Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la tran­sfobia, al fine di promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché di contra­stare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, in attuazione dei princìpi di eguaglianza e di pari dignità sociale sanciti dalla Costituzione. […] La proposta di istituire per tutte le scuole di ogni ordine e grado la giornata contro la discriminazione delle categorie minoritarie indicate ignora totalmente le conoscenze, ormai da tempo acquisite, sul comportamento aggressivo e sulla sua riduzione, così come quelle sullo sviluppo infantile.

Riguardo alle conoscenze sulla riduzione del comportamento aggressivo, l’errore di questa proposta è di fondare il rispetto degli altri non sulle persone ma su categorie. Una prima osservazione è che le categorie potenzialmente oggetto di discriminazione sono numerosissime, virtualmente infinite. Si dovrebbero quindi immaginare, lungo l’anno scolastico, innumerevoli giornate dedicate a molte altre categorie; si tratterebbe in ogni caso di gruppi sociali che sono già stati riconosciuti, e che sono capaci di imporsi all’attenzione per diventare gruppi di pressione; resterebbero esclusi tutti coloro che non fanno ancora parte di una categoria socialmente riconosciuta (da chi? con quali criteri?) come discriminata.

Un’ulteriore osservazione si fonda sugli studi sul bullismo; questi indicano che un bambino o una bambina possono essere discriminati e subire prepotenze per una qualunque singolarità che li rende diversi dagli altri, nel gruppo in cui vivono. Ne deriva che le ragioni per cui un bambino è oggetto di emarginazione e violenza sono potenzialmente infinite e mutevoli, dipendendo dalle circostanze e dagli ambienti. Può così accadere che un bambino venga discriminato per caratteristiche che, in altri contesti, sarebbero considerate delle qualità (come essere biondi e con gli occhi azzurri dove tutti gli altri sono scuri e con gli occhi neri). Ne deriva che la strada di istituire giornate contro le violenze nei confronti delle varie categorie oggetto di discriminazione è impraticabile perché ci sarebbe sempre qualcuno, discriminato per i più vari motivi, che non viene preso in considerazione.

C’è però una ragione sostanziale per cui istituire giornate contro la discriminazione di una categoria, qualunque essa sia, è profondamente errato e controproducente. La ragione risiede nel fatto che gli studi sulla socialità positiva, primi fra tutti quelli sulla condivisione emotiva e l’empatia, indicano unanimemente che gli esseri umani sono in grado di ridurre l’aggressione e la violenza solo quando riconoscono nell’altro una persona simile a sé, nonostante le diversità che questa può presentare: diversità di sesso, di colore di pelle, di salute, di prestazione, di orientamento sessuale, di peso, di bellezza, eccetera eccetera, in un elenco potenzialmente infinito e mutevole, a seconda delle culture e delle situazioni. Al contrario, la categoria impedisce il riconoscimento della comune umanità, che ha solide basi affettive ed emotive nonché radici biologiche, perché è un’astrazione che annulla la persona e la riduce a entità teorica. Ne deriva che è molto più facile aggredire l’altro quando questi è considerato come rappresentante di una categoria, qualunque essa sia, e non come una persona concreta con cui si entra in relazione.  Questo vale per l’adulto e ancor più vale per il bambino piccolo e il fanciullo; prima della maturazione della capacità di pensiero formale ipotetico-deduttivo in adolescenza, la categoria è qualcosa di non ancora pienamente concettualizzato e privo di rilevanza psicologica. Detto altrimenti, almeno fino alla prima adolescenza, per i bambini non esistono le categorie astratte citate, ma le singole persone che incontra.

Quali sono le conseguenze di queste acquisizioni della psicologia per la pratica educativa? Esse indicano che i bambini vanno educati a rispettare la persona che hanno di fronte, nella quotidianità della vita a scuola, insegnando loro a riconoscervi un essere umano simile a sé. Ciò comporta, in concreto, interagire faccia a faccia, imparare a riconoscere le emozioni, imparare a entrare in sintonia emotiva, sapersi rappresentare i vissuti emotivi di un’altra persona e condividerli, sapersi mettere nei suoi panni, saper comunicare (Bonino, 2012). Per fortuna sono tutte capacità per le quali siamo biologicamente predisposti e l’educazione non deve fare altro che incoraggiarle, contrastando quelle aggressive che non sono specificamente umane. Solo il riconoscimento dell’altro come simile a sé permette di superare il rifiuto per la sua eventuale diversità e permette di conseguenza di accettare l’altro nelle sue differenze, di qualunque tipo esse siano. Lo sforzo educativo deve concentrarsi sul favorire nel bambino il concreto riconoscimento della similarità dell’altro e della comune umanità, al di là delle infinite diversità che le persone possono avere. Quindi l’effetto paradossale della giornata nelle scuole è facilmente quello di non diminuire la discriminazione e la violenza, o addirittura di aumentarle.

Oltre a non ottenere il risultato desiderato, l’introduzione di questa giornata rischia di generare molta confusione nei destinatari. I temi della sessualità vanno affrontati tenendo conto sia delle capacità cognitive ed emotive dei bambini sia dell’esigenza di favorire, con un ambiente educativo adatto, lo sviluppo positivo, senza disforia di genere e senza sofferenza, della loro identità e del loro orientamento sessuale. In un sistema scolastico che non prevede l’educazione sessuale affettiva – di cui ci sarebbe urgentissimo bisogno – polarizzare l’attenzione solo su omosessualità, lesbismo, bisessualità e transessualità rischia di generare soltanto confusione nei bambini e nei ragazzini (cioè in chi frequenta la scuola dell’infanzia, la primaria e anche i primi anni della secondaria di primo grado). Queste categorie non solo sono difficili da concettualizzare, come appena detto, ma rappresentano realtà che sono ben lontane dagli interessi e dai vissuti emotivi dei bambini. Vi è quindi il rischio concreto di creare disorientamento e disagio confrontando i soggetti, in queste età, con realtà che possono essere emotivamente disturbanti. Il rischio è di aumentare la confusione e di rendere ansiogeno e travagliato il processo di identificazione di sé, con conseguente disagio e sofferenza.  Anche in adolescenza, dopo lo sviluppo puberale, la trattazione dovrebbe sempre avvenire nel quadro di un progetto globale di educazione sessuale sentimentale, realizzata da parte di persone esperte in psicologia dell’età evolutiva e non certo da attivisti, di qualunque orientamento essi siano. Appare paradossale accettare il rischio concreto di creare difficoltà alla grande maggioranza dei soggetti in età evolutiva in nome dell’illusoria speranza di aiutare delle minoranze, ancorché discriminate.


Riferimenti bibliografici

Bonino S. (2012). Altruisti per natura. Roma-Bari: Laterza.

Bonino S. (2019). Amori molesti. Natura e cultura nella violenza di coppia. Roma-Bari: Laterza.

Riggio H. R. (2021). Sex and gender. A biopsychological approach. New York-London: Routledge.