Le possibili ragioni dell’insistenza del Ministero della Salute sulla questione dei protocolli di cura domiciliare del Covid.

Ha destato un certo scalpore sui social media la notizia che AIFA e Ministero della Salute hanno impugnato – con esito positivo – la sospensiva concessa dal TAR sul famoso protocollo “Tachipirina e vigile attesa” per il trattamento dei casi di Covid. Il TAR, sospendendo il protocollo in via provvisoria con una decisione d’urgenza, aveva infatti in prima battuta lasciato liberi i medici di trattare simili casi in scienza e coscienza senza rischiare l’aggravio in termini di possibile responsabilità professionale derivante dal fatto di essersi discostati dai protocolli indicati dal Ministero. Tutto sommato, la sospensiva poteva essere considerata un risultato accettabile per il Ministero, che avrebbe potuto lasciar fare, sostenendo di voler rispettare la decisione dei giudici, lavandosi in tal modo le mani dall’accusa di voler mantenere a tutti i cosi un protocollo assai criticato. E invece Ministero e AIFA hanno insistito, impugnando la sospensiva dinanzi al Consiglio di Stato, che ha accolto il ricorso, con l’effetto di rimettere Speranza sul banco dei “cattivi” che non vogliono curare la gente. Perché dunque tutta questa insistenza, quando la decisione del TAR avrebbe in certo modo levato le castagne dal fuoco anche al Ministro?

A prima vista si potrebbe pensare che tratti dell’ennesimo esempio della inveterata tendenza dei nostri politici, quando si rendono conto di aver commesso un errore, a perseverare nell’errore (in modo da sostenere di non aver sbagliato) invece che assumersene la responsabilità dinanzi agli elettori, tentando di rimediare. Speranza avrebbe insomma semplicemente difeso il suo operato passato per non indebolirsi politicamente. Esiste tuttavia una lettura alternativa della vicenda, nel senso che l’insistenza nella difesa dei protocolli di “non cura” potrebbe in realtà dipendere dalla necessità di tutelare interessi assai più importanti rispetto alla “tenuta politica” di un ministro. Ma per capire quali potrebbero essere questi interessi occorre partire dall’analisi del contenuto della decisione del Consiglio di Stato che ha annullato la sospensiva del TAR. In particolare va sottolineato che il Consiglio di Stato ha espressamente affermato che va in ogni caso salvaguardata la liberta dei medici di curare in scienza e coscienza il Covid, di guisa che l’unico vero effetto della decisione di annullare la sospensiva è quello di non far venire meno l’efficacia giuridica del protocollo “tachipirina e vigile attesa”. Quel protocollo, dunque, oggi esiste e non esiste allo stesso tempo: esiste formalmente in quanto non ne è stata sospesa l’efficacia, ma non esiste sul piano degli effetti sostanziali perché il Consiglio di Stato ha anche sostenuto che non deve considerarsi vincolante per i medici. Perché dunque questo bizantinismo? Per capirlo occorre guardare altrove, in particolare al contenuto dei regolamenti relativi alle autorizzazioni al commercio dei farmaci (e dunque dei vaccini), per capire che in realtà l’effetto del protocollo che il Consiglio di Stato ha “salvato” si colloca su un piano differente rispetto a quello della responsabilità medica.

Come è noto, le autorizzazioni all’immissione in commercio dei vaccini Covid (di tutti i vaccini Covid attualmente presenti sul mercato dei paesi UE) sono autorizzazioni cosiddette “condizionate”. Per quanto la vulgata sostenga che si tratti di vaccini “sperimentali”, in realtà i vaccini in questione sono stati sperimentati, ma in misura non sufficiente per generare la documentazione ritenuta idonea – in condizioni normali – perché l’EMA (ossia l’agenzia europea del farmaco) conceda l’autorizzazione al commercio. Diciamo dunque che si tratta di vaccini sperimentati, ma non abbastanza per gli standard dei tempi ordinari. I regolamenti comunitari prevedono tuttavia che si possa comunque autorizzare la commercializzazione di farmaci (e dunque di vaccini) per i quali il fascicolo sperimentale non è ancora completo, a patto che vengano rispettate una serie di condizioni, tra le quali vi è quella della necessità e urgenza del trattamento sanitario corrispondente. L’autorizzazione subordinata a condizioni serve in altre parole a rendere prioritaria una procedura di autorizzazione, in modo da sveltire l’approvazione di trattamenti e vaccini ad esempio durante situazioni di emergenza per la salute pubblica. In particolare il regolamento UE sulle autorizzazioni dei medicinali prevede che una autorizzazione condizionata possa essere concessa – sulla base di dati meno completi di quelli normalmente richiesti – per farmaci che rispondono a una esigenza medica non soddisfatta adeguatamente da altre terapie.

Il concetto di “esigenza medica non soddisfatta” ovviamente significa – in parole povere – che non deve esistere già una cura alternativa ritenuta efficace per la malattia. Se dunque una cura alternativa efficace esistesse per il Covid – e, in particolare, se il Ministero della salute o l’AIFA riconoscessero ufficialmente che una cura efficace esiste, ecco che metterebbero a rischio la validità delle autorizzazioni condizionate all’immissione al commercio dei vaccini, per mancanza di una condizione essenziale, rappresentata appunto dall’esigenza medica non soddisfatta. E, si badi, anche se AIFA e Ministero non ritirassero le autorizzazioni in questione (eventualmente sostenendo che solo l’Agenzia Europea del Farmaco abbia il potere di farlo), da un lato avrebbero creato un imbarazzo all’EMA e, dall’altro, permarrebbe il rischio che qualunque soggetto interessato potrebbe agire dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per far dichiarare nulle le determinazioni AIFA che hanno rese efficaci in Italia le autorizzazioni (condizionate) concesse a dall’Agenzia Europea del Farmaco sui vari vaccini. Per farla breve: se si trovasse davvero una cura per il Covid certificata come efficace da qualche Ministero della salute di uno stato membro dell’UE, potrebbe venire giù tutto il castello costruito sulla ricetta europea “lockdown fino ai vaccini” – verosimilmente decisa nell’aprile del 2020 in un incontro dei governi dei maggiori paesi UE – che tanti disastri (economici e forse non solo) ha sinora provocato nel vecchio continente. Il che sarebbe uno smacco clamoroso per l’UE e per le forze politiche che tanto si sono spese per appoggiare l’approccio vaccinale (e dunque chiusurista) di reazione al Covid. Ma non basta ancora: se venissero meno per quella ragione le autorizzazioni al commercio dei vaccini, gli stati si troverebbero anche nella scomoda situazione di dover pagare miliardi di euro alle case farmaceutiche per l’acquisto di vaccini che non potrebbero poi neppure somministrare ai loro cittadini. E qui sarebbe la Commissione Europea a finire inevitabilmente sulla graticola, accusata dagli stati membri di aver fatto loro spendere un mucchio di danaro per nulla.

Questa lettura spiegherebbe del resto bene anche perché il Ministero – nell’accingersi a rivedere il protocollo della tachipirina e vigile attesa – si sia premurato, a quanto pare, di chiamare solo esperti contrari alle cure domiciliari e dunque favorevoli al vecchio schema. Anche qui – infatti – la ragione per l’adozione di un nuovo protocollo potrebbe non essere quella di verificare se davvero, e come, si può curare la malattia precocemente in modo efficace (con l’effetto di sgravare le strutture ospedaliere della pressione generata dai ricoveri dei malati di Covid), ma semmai poter continuare a sostenere ufficialmente che le varie cure domiciliari sinora proposte non sarebbero efficaci, in modo da poter continuare a sostenere che rappresenti ancora una “necessità medica” la somministrazione di massa di vaccini autorizzati solamente in via condizionata.

Sotto questo profilo l’azione del Ministero – e dell’AIFA – appare particolarmente ben congegnata. Il semplice fatto di adottare un nuovo protocollo di cure consentirebbe infatti di far decadere l’azione di annullamento già pendente davanti al TAR: se viene adottato un nuovo protocollo, il vecchio decade. E se decade il vecchio protocollo, viene meno automaticamente – per sopravvenuto ritiro dell’atto amministrativo – il procedimento di annullamento di quell’atto già pendente davanti al TAR. In questo modo cesserebbe il rischio che un giudice, rendendo la sentenza definitiva, sostenga “ufficialmente” che esistono delle cure efficaci per il Covid. Dunque, la direzione in cui si stanno muovendo sia il Ministero che l’AIFA è verosimilmente quella di ottenere una sospensiva dell’ordinanza cautelare del TAR, in modo da avere il tempo – prima della fine del processo di merito davanti allo stesso TAR – di adottare un nuovo protocollo che, per il semplice fatto di essere adottato in sostituzione del vecchio, faccia decadere l’azione pendente contro il vecchio protocollo. Il tutto facendo al contempo in modo che il contenuto del nuovo protocollo adottato dal Ministero sia tale da consentire ancora di sostenere che “ufficialmente” non esistono terapie efficaci contro il Covid, così da non creare i presupposti giuridici perché terzi possano attaccare dinanzi al TAR (o all’EMA) le autorizzazioni al commercio condizionate dei vaccini. Tutto questo sino al momento in cui le case farmaceutiche non avranno completato le sperimentazioni necessarie per presentare all’EMA la documentazione completa per ottenere una autorizzazione ordinaria al commercio dei vaccini.

Questa potrebbe dunque essere la vera ragione per cui il nostro Ministero della salute si è tanto speso in passato (e ancora oggi insiste) per non curarci dal Covid. La prova del nove – del resto – potrebbe arrivare appunto quando, a test clinici ultimati, saranno concesse dall’EMA le autorizzazioni definitive al commercio dei vaccini. Se a partire da quel momento il Ministero inizierà a dire che invece è possibile curare efficacemente il Covid, sarà chiara la ragione per cui in precedenza non l’ha mai voluto ammettere.