La triste fine della Hume Tower. I nuovi bigotti

E’ di pochi giorni fa l’ennesima capitolazione, da parte di un’autorità (se così si può ancora definire) accademica britannica, di fronte alla tirannia del politicamente corretto. Si tratta stavolta delle pretese di diverse centinaia di persone (in prevalenza attivisti studenteschi) le quali, con una petizione online, hanno insistito affinché venisse cambiato il nome di un edificio appartenente all’università di Edimburgo, la David Hume Tower. Il filosofo scozzese, una delle figure di punta dell’illuminismo europeo, viene infatti accusato di avere professato opinioni razziste “che giustamente sono oggi causa di grave turbamento” e di non meritare perciò un edificio che porti il suo nome: ignorando bellamente il fatto che le opinioni contestate erano state espresse nel Settecento, cioè in un secolo in cui erano condivise praticamente da tutti, intellettuali compresi, e che è assurdo giudicare idee di tre secoli fa con il metro attuale.

Ormai però questo tipo di reazione del corpo accademico, il suo cedimento all’illogicità, all’incapacità di storicizzare personaggi e comportamenti, allo strisciante terrorismo intellettuale, sembra essere prassi consolidata e quasi obbligata nel mondo anglofono (e, vista l’attuale supremazia culturale di questo mondo, in altri paesi occidentali sono percepibili le prime avvisaglie di questa mentalità). Sempre più le università inviano segnali che vanno contro quella che dovrebbe essere la loro vocazione: trasmettere conoscenze, spirito critico, voglia di dibattere senza preconcetti e senza scomuniche. Sempre più, ad essere considerata prioritaria è l’esigenza di non turbare la cosiddetta sensibilità (per meglio dire: fragilità psicologica e intellettuale) degli studenti. Anziché aiutarli a maturare, l’università sembra fare di tutto per infantilizzarli. Anziché aiutarli ad apprendere, sembra fare di tutto per incoraggiare l’ignoranza e l’approccio isterico e irrazionale ai problemi.

Il fenomeno della cosiddetta “cancel culture” naturalmente non si limita all’ambito accademico, ma mette ormai a repentaglio la libertà di espressione nell’editoria (libri “politicamente scorretti” rifiutati dagli editori, opere del passato messe al bando da scuole e biblioteche perché considerate razziste: valga per tutti, negli Stati Uniti, il caso del capolavoro di Mark Twain, Huckleberry Finn), nei rapporti di lavoro (non si contano più i casi di licenziamenti minacciati o messi in atto perché il dipendente aveva usato un linguaggio o espresso opinioni bollate come disdicevoli, anche in ambito privato), e anche e soprattutto sui cosiddetti “social”, che sarebbe forse meglio definire “antisocial media”. Sconfortante in tale contesto è poi constatare come la resistenza si riduca a poca cosa e come i presunti colpevoli scelgano quasi sempre di umiliarsi pubblicamente con formule di scusa che ricordano le autocritiche dei “nemici del popolo” durante la rivoluzione culturale cinese; non solo, ma nel caso delle università è quasi scontato che il corpo accademico obbedisca senza fiatare ai diktat più assurdi: come nel caso, appunto, della David Hume Tower.

Un recente, e purtroppo raro, esempio di ribellione ai nuovi inquisitori si è visto nello scorso mese di luglio, quando sulla rivista americana Harper’s Magazine è stata pubblicata una lettera, firmata da 150 autori ed accademici di fama (come JK Rowling, Noam Chomsky, Margaret Atwood, Salman Rushdie, Gloria Steinem) in cui si deplorava la crescente intolleranza nei confronti delle opinioni considerate politicamente scorrette. L’appello però sembra avere raccolto successivamente ben poche nuove adesioni, anzi, a far parlare è stato soprattutto il successivo “backlash”, con critiche spesso feroci rivolte da più parti agli autori.

In tutti questi casi, a colpire sono, da un lato, la pusillanimità delle autorità accademiche, che sembrano disposte veramente a tutto pur di non venire turbate nelle loro importanti attività quotidiane (nonché nelle loro prospettive di carriera …), e dall’altro il comportamento, altrettanto vile ed opportunistico, di editori e altri soggetti economici che mostrano di temere come il fuoco il boicottaggio dei loro prodotti da parte degli attivisti digitali. Qui bisogna essere chiari: se le persone cui stanno a cuore il pluralismo di idee e la cultura non si mobilitano con la stessa energia e prontezza di cui si sono dimostrati capaci i loro nemici, finiremo per vivere in un deserto intellettuale in cui le opinioni (o anche soltanto le parole) non conformi potranno soltanto essere bisbigliate fra amici e ogni ambito del sapere dovrà fare i conti con la censura di libri, personaggi, interpretazioni. La vicenda della David Hume Tower ha ora indotto diversi esponenti del mondo accademico britannico ad esprimere in merito posizioni molto critiche; se questo tipo di reazione dovesse estendersi, se i responsabili delle università venissero sistematicamente messi di fronte alla stupidità delle loro azioni, forse comincerebbero a farsi qualche domanda e a chiedersi se vale la pena di perdere la propria credibilità per dare retta ad una manica di bambini viziati di cui tutto induce a pensare che rappresentino solo se stessi.

Stesso discorso per i prodotti editoriali e d’altro genere, di cui gli attivisti minacciano regolarmente il boicottaggio. Anche in questo caso sorge il sospetto che le imprese si lascino prendere dal panico e sopravvalutino di molto il rischio di una perdita economica: rispetto al grande pubblico, che di fronte a certe controversie non ha mai mostrato di voler rinunciare in massa all’acquisto di certi prodotti, gli attivisti digitali fanno la figura di tigri di carta, e sarebbe interessante mettere alla prova l’efficacia delle loro minacce. Per dirne una: il libro di Woody Allen A proposito di niente, che la casa editrice Hachette aveva rinunciato a pubblicare, non sembra aver sofferto oltre misura delle reazioni negative provenienti dall’establishment politicamente corretto (in Italia si è addirittura piazzato subito in cima alla classifica delle vendite online). Proviamo dunque a mostrare ai nuovi bigotti che la censura nelle varie sue forme può essere non solo inutile, ma spesso anche controproducente. Perfino la Chiesa cattolica l’aveva già capito quando, nel lontano 1966, abolì l’Indice dei libri proibiti …. dove dal 1761 figuravano tutti gli scritti di David Hume!