Il diario della talpa. Undicesimo episodio

11. USCIRE O NON USCIRE?

Primo giorno di fine lockdown. E inizio… Già, inizio di cosa? Come si chiama il contrario di lockdown? opendown, open up, unlock? Chiamiamolo inizio e basta. Inizio a rilento, dosato, cauto, ma pur sempre inizio. Come se nascessimo oggi per la prima volta. Tutta l’umanità che si affaccia alla vita come se non fosse mai stata viva prima. E scopre il mondo in cui ha abitato fino a ieri, come se ci andasse ad abitare oggi per la prima volta.

Per la prima volta andiamo al lavoro, per la prima volta facciamo visita ai parenti, per la prima volta corriamo nei parchi.

Come se non bastasse, per una balzana coincidenza, oggi è il compleanno di Pantaleo. Lo chiamo per fargli gli auguri, Mi chiede: Quale compleanno? Siamo alle solite. È una talpa così avulsa… Mi dice che sta completando un nuovo termometro per misurare la velocità dell’epidemia. Credo sia molto soddisfatto del suo lavoro. Cerco di riportarlo alla sua festa: Ma guarda, che bello compiere gli anni proprio nel giorno in cui torniamo liberi! Risponde: Liberi da cosa?

Chiudo la conversazione. Riprendo solerte a scavare verso l’alto, per uscire. La terra si fa più friabile e leggera, un pallido raggio solare già s’insinua… E qui, di colpo, mi fermo! Ripiombo qualche centimetro più in basso, dove l’ombra s’allunga ancora intatta nella mia tana, e sento un piccolo tarlo rodere il legno delle mie travi.

È un’immagine. Mi viene da lontano, da un certo libro che ho amato molto, un’immagine che adesso non riesco a togliermi dalla testa e mi arrovella: il castello di Atlante.

“Il castello fatto per incanto tutto d’acciaio, e sì lucente e bello ch’altro al mondo non è mirabil tanto”.

Il mago Atlante lo ha costruito. Il vecchio incantator. Il negromante. Colui che viaggia sul cavallo alato Ippogrifo. Lo ha costruito per difendere il suo figlio adottivo amatissimo, Ruggiero, dalla brutta fine che lo attende: se sposerà Bradamante e avrà dei figli, morirà giovane. Il mago dunque lo rinchiude nel castello, così che non incontri mai Bradamante, non si sposi, non metta su famiglia: non viva, ma anche non muoia. E perché non patisca di solitudine, si mette a rapire a destra e a manca donne e cavalieri, rinchiude anche loro nel castello, e fa in modo che tutti insieme vivano felici, tra “suoni, canti, vestir, giuochi, vivande”.

Sembrerebbe una prigione, ma non lo è. Atlante stesso a un certo punto lo rivela: “Né per maligna intenzion, ahi lasso, feci la bella rocca in cima al sasso, né per avidità son rubatore; ma per ritrar sol dall’estremo passo un cavalier gentil, mi mosse amore”.

Il “malvagio invisibil signor di quel palagio” non è poi così malvagio: per amore ha costruito il castello e vi ha rinchiuso Ruggiero! Ha inventato per lui un luogo sicuro e protetto, fuori dal mondo, così che gli fosse evitato la crudele sorte di morire.

Ma, come sappiamo, al destino nessuno sfugge: Bradamante trova il castello! Ama Ruggiero e vuole liberarlo, quindi combatte contro il mago e, con l’aiuto di un anello fatato, vince.

Atlante a questo punto spezza l’incantesimo: distrugge il suo castello, lo fa scomparire in un soffio. “A un tratto il colle riman deserto, inospite et inculto. Né muro appar né torre in alcun lato, come se mai castel non vi sia stato”.

È questa l’immagine che adesso mi colpisce: le mura si dissolvono e le donne e i cavalieri che abitavano tra quelle mura si ritrovano all’improvviso fuori, all’aria, in aperta campagna. Una pianura sterminata e brulla, che assomiglia tanto a un deserto, a una terra desolata. E se ne stanno lì, per un tempo che immagino lunghissimo, inerti, inebetiti. Non sanno cosa fare, dove andare. Un po’ si aggirano, un po’ si guardano intorno. In un attimo la vita s’è spezzata.  Si sentono spersi. Spaesati. Il mago se n’è andato, ha cancellato l’incanto e li ha lasciati liberi.

Liberi tutti!

Ma quei tutti hanno un’enorme difficoltà ad andarsene. Rimangono lì. Vagolano per un po’. Si sentono spogliati di qualcosa, defraudati. Nudi. Forse sono anche pieni di rabbia e di rancore. Disperati, o soltanto infinitamente tristi.

“Le donne e i cavallier si trovar fuora de le superbe stanze alla campagna: e furon di lor molte a chi ne dolse; che tal franchezza un gran piacer lor tolse”. La franchezza, il diventar franchi, liberi, ha tolto loro il piacere. Così dice Ariosto.

Quale piacere? Il piacere di vivere rinchiusi? Lontani, separati dal fuori, dal mondo che c’è fuori, troppo grande, troppo vuoto? Troppo pieno, ma di cose vuote?

E se fuori non fosse il posto dove noi, talpe o non talpe, vorremmo vivere? Se fuori fossimo obbligati a modi di vivere che non vorremmo più fossero i nostri?

E se ci mancasse la vita dentro? Eccolo il tarlo che mi rode: e se la vita vera fosse la vita che facevamo rinchiusi nel castello?

Ora che il mago ha dissolto la prigione, ora che possiamo (almeno in parte) uscire, ho paura che ci sentiremo spersi come i cavalieri dell’Ariosto (e non chiedetemi chi sia il mago, perché non so rispondere: di certo non è un premier, di certo non è un virus…): liberi, ma abbandonati nel vuoto.

E se non volessimo uscire?

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