Il diario della talpa. Nono episodio

9. LE MASCHERINE E NOI

Abbiamo, con le mascherine, un rapporto disturbato. Amore e odio, direi. Un desiderio spasmodico e insoddisfatto, un fastidio insopportabile, un senso di mancanza, una nostalgia, un sordo rancore.

Siamo confusi e incerti. All’inizio ci hanno detto che non servivano. A febbraio ero entrata in varie farmacie per comprarmene un paio, ma i farmacisti mi avevano dissuasa: A che le serve? Mi ero vergognata ed ero uscita senza. Poi ci hanno detto che forse servivano, allora sono tornata in farmacia ma non ce n’erano più. Sparite. Neanche l’ombra di una mascherina.

Siamo, anche, molto ignoranti nei confronti delle mascherine. Non sappiamo bene come metterle, perché usarle, quando toglierle, quali modelli scegliere, di che colore. Abbiamo ascoltato con grande attenzione virologi, politici, giornalisti, pediatri, farmacisti, che per giorni ci hanno indicato, spiegato, mostrato. Non ci abbiamo capito niente.

Quindi noi ci mettiamo, per uscire, una mascherina a caso. Leggera, pesante, chirurgica, col filtro, senza filtro, professionale, con la garza interna, senza garza, con nastrini, con elastici, lavabile, non lavabile, FP2 o PP3 (abbiamo anche, ora, qualche non piccola titubanza verso le lettere dell’alfabeto). Mettiamo la mascherina che abbiamo, l’unica che alla fine siamo riusciti a carpire. Ci sembra, quell’unica mascherina carpita, un dono del cielo, una perla rara. Indossiamo sempre la stessa. Sappiamo che non si fa, che dura solo 4 o 9 ore e che poi bisogna buttarla. Ma che altro possiamo fare? Ce la facciamo durare giorni. La centelliniamo, come un liquore. La rianimiamo, in mille modi: la stendiamo al sole, la laviamo col sapone, la spruzziamo di gel appiccicoso, la mettiamo stesa sotto un coperchio a inalarsi di vapori alcolici, la stiriamo col ferro da stiro insieme alle camicie, la asciughiamo col phon dei capelli. Sappiamo che potrebbe essere piena di virus. Sappiamo che dopo un po’ non funziona più, si è de-impermealizzata, non è più filtrante. Ma abbiamo il terrore di uscire senza. È diventata la nostra armatura. Noi talpe-cavalieri non possiamo non indossare l’armatura. Ci sentiremmo inermi e perdute.

Ora che le farmacie sono state rifornite, è diverso: ci avventiamo sulle farmacie. Siamo diventati avidi di mascherine, voraci. Ci accapigliamo per accaparrarcene quante più possibile. Ce le strappiamo di zampa in zampa, lottiamo con le unghie.

Arriviamo ultimi. C’è gente che ne fa incetta da mesi. Quatta quatta è andata in farmacia ogni giorno, ogni giorno cambiando farmacia, o tornando nella stessa ma cambiando faccia, truccandosi, alterando la voce, mettendosi una parrucca… Così facendo ne ha accumulate immense montagnole, di queste benedette mascherine, che nasconde nel fondo delle proprie gallerie, negli armadi, sotto il letto, nelle scarpiere, nelle buche più profonde del terreno, nella dispensa tra la pasta e i barattoli dei pelati, in certe grotte disabitate. Perché un po’, sì, si vergogna. E non lo confesserebbe mai, di essere un accumulatore seriale di mascherine.

Ci aspetta un tempo infinito in cui andremo in giro mascherati. Mascherinati, si potrà dire?

Come vivremo?

Per esempio, avremo ancora voglia di parlarci, distanziati e mascherati come saremo? Dico parlare nel senso di chiacchierare, conversare. Esiste una vera e propria arte della conversazione, lo sappiamo bene; si tratta di quel sapiente parlar di nulla che in realtà poi, nella sostanza, è parlar di tutto facendo finta che sia nulla. Ci vuole tempo, però, per esercitare l’arte della conversazione, interi pomeriggi a prendere il tè in salotto, o sere interminabili dopo cena seduti sul divano sorseggiando un amaro alle erbe. Non si può chiacchierare a due metri di distanza, in piedi, in tre minuti.

E’ possibile che desisteremo. E ci accontenteremo di poche parole lanciate al vento, a quel ristretto vento che circola nel chiuso tra la tela della mascherina e le nostre labbra. Ci parleremo solo per darci ordini e scambiarci comunicazioni di servizio: Lava tu i piatti, prendimi le pantofole, Mario non vuole più studiare, Marcella s’è messa col panettiere. Cose così. Frasi che iniziano e finiscono in un amen. D’altronde, siamo una società dove da tempo trionfa la comunicazione, non certo la letteratura…

È possibile che alla fine ci stuferemo anche delle nostre parole brevi e scarne, e torneremo a parlarci a gesti. Un po’, in fondo, ci stavamo già da qualche anno esercitando, con quei gesti virtuali che sono i sms, le icone, gli emoticon, le faccine e gli animaletti graziosi che ci mandiamo quotidianamente a iosa. Ci siamo abituati da tempo, a questa comunicazione silente e giocosa che non comunica se non se stessa. Quindi, ce la faremo. Anzi, la mascherina ci aiuterà moltissimo a non dirci più niente, a raggiungere quel vuoto di parole verso cui ci eravamo già tanto sapientemente incamminati.

Certo, si soffoca un po’, dietro una mascherina. E questo è uno spiacevole inconveniente. Dopo neanche dieci minuti cominciamo a sudare e avvertire segni di asfissia. Le nostre fronti s’imperlano, i nostri occhi si arrossano, le nostre lenti si appannano. In effetti, ci manca l’aria. Ce la siamo dimenticata, l’aria. In un certo senso, ci stiamo privando del respiro. Saremo un’umanità che non respira più. Non importa, impareremo altri modi di sopravvivenza. Le specie evolvono. Pensiamo agli anfibi… Un po’ nell’aria, un po’ sott’acqua. Annasperemo in un mondo nuovo.

Quel che ci mancherà di più è il sorriso. Se sorridiamo sotto la mascherina, nessuno vedrà il nostro sorriso. E noi sorridiamo molto, nella vita… Sorridere e ridere è ciò che ci distingue da ogni altro animale, no?

Sorrideremo a vuoto. Avremo sorrisi invisibili e segreti.

O forse impareremo a sorridere con gli occhi. O con le zampe. Non so, qualcosa escogiteremo: perché troviamo intollerabile perdere il sorriso.

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