Elogio del corteggiamento

Non so se gli operai stradali, o i carpentieri intenti a tirar su qualche casa sulla pubblica via, usino ancora fischiare dietro un paio di belle gambe (una volta accadeva regolarmente), ma se per caso ancora lo facessero, mi spiacerebbe fossero denunciati per molestie. Capisco che una fanciulla possa sentirsi imbarazzata (una volta sarebbe arrossita) da un fischio che, ahimè, rileva in modo così marcato una sua qualità meramente fisica, ma non direi che debba sentirsi offesa, e meno che mai vittima di una violenza; spero sia attrezzata a sopportare questa che, per quanto rozza e inopportuna, è solo, da che mondo è mondo, un segnale di ammirazione.

Si parla molto, in questi giorni, del rapporto tra uomini e donne, di violenza, stupro, molestie, soprattutto in ambiente di lavoro. Non voglio addentrarmi in tali complicate e drammatiche questioni. Se ne occupa già un nugolo piuttosto cospicuo di “esperti”, anche molto agguerriti. Dico solo che qua e là, nei giorni scorsi, m’è parso di notare una certa confusione: non mi sembra bello, per chi è stato vittima di un vero stupro, essere più o meno indirettamente equiparata all’attrice che, per calcolo o per voluttà, decide di concedersi per una sera alle pressioni del suo regista o produttore. Distinguerei con grande cura!

Userei anche una certa attenzione a non dare l’idea che ogni avance maschile sia già in qualche modo una forma di violenza, come non mi ha mai convinto l’idea, molto di moda mezzo secolo fa, che la trasmissione culturale sia una forma di “violenza simbolica”. Mi viene paura che, a forza di sentirsi accusati di violenza, gli uomini si prendano paura; non tanto che si tengano lontani da noi donne, ma decidano che è più prudente e saggio smettere quella pratica antica ma, almeno da noi popoli mediterranei, molto consueta e diffusa che si chiama corteggiamento. Mi dispiacerebbe. E non per ragioni nostalgico-passatiste, ma per ragioni, direi, letterarie.

Mi sembra che il corteggiamento sia, innanzi tutto, un’attività piuttosto gratuita, faccia parte cioè di quella visione della vita che è il contrario dell’utilitarismo, e si avvicina semmai all’idea di spreco. Una forma di generosità di sé, in qualche modo. Uno “si spreca”, si butta via, si dà all’altro e si com-promette (attraverso parole, gesti, doni). Si gioca la faccia, in poche parole. È vero che in genere si corteggia per ottenere un favore, ma è anche vero che si sa perfettamente di rischiare l’insuccesso, il rifiuto, il non conseguimento del fine. Corteggiare risulta quindi, in qualche misura, qualcosa di fine a se stesso, che trova in sé il suo senso compiuto, fuori da ogni concreta realizzazione. È un investimento a perdere, un desiderio assoluto, cioè sciolto, svincolato. È una delle forme supreme della felicità, qualcosa che, per la sua miscela di libertà, rischio, imprevedibilità, improvvisazione, sembra contenere in sé tutti gli ingredienti che Ortega y Gasset, in uno dei suoi scritti più suggestivi, ritrovava nell’attività venatoria (Discorso sulla caccia, 1942).

Ed è qualcosa che ha molto a che fare col tempo, si nutre di tempo, e si svolge in un tempo, che può essere anche molto lungo. Un corteggiamento può durare anni. E si basa sull’attesa: prelude a un tempo che non c’è ancora e potrebbe non esserci mai. Il corteggiamento convoca quel tempo futuro, lo pre-figura, distogliendoci dal mero e piatto presente, dalla limitatezza di ciò che avviene per certo, e soltanto in concreto.

Nelle forme più alte, corteggiare è una semplice dichiarazione di… ammirazione. Ammirare. Mirare, guardare. Implica di per sé distanza. Stare da lontano a guardare la tua bellezza, le tue qualità, fisiche e non. Ad-mirarti. L’amore da lontano, di provenzaleggiante memoria. Quell’amor cortese (appunto! l’origine etimologica è sempre la corte) che ha fondato tutta la nostra poesia d’amore dallo Stilnovo in poi. Ci si innamorava anche solo per sentito dire, di una donna lontana e mai vista e che mai si potrà incontrare. O si amava una donna sposata ad altri, o addirittura morta. Comunque assente, irraggiungibile, inarrivabile, perduta per sempre. Un amore sublimato e traslato. Non attuato. Trasferito, per esempio, sulla scrittura. E differito. Sognato, immaginato. Insomma, la vittoria dell’astratto, del fantasticare, del fantasma. Non ti posso avere, non ci sei, non sei vera: ma scriverò di te tutta la vita. Petrarca, Dante…

Non vorrei però deviare eccessivamente dal tema. Troppo facile buttarla sul letterario. E allora racconterò un piccolo aneddoto mio personale. Ho vissuto un anno in Svezia, quand’ero molto giovane, e subito all’inizio mi capitò una serata strana. Un collega mi invitò a cena a casa sua. Era un bel giovane del Nord della Svezia; non ero particolarmente attratta, ma molto curiosa, e mi parve bello fare un po’ amicizia. Ci andai, a piedi; era una piacevolissima serata nevosa. Dopo cena quel ragazzo, che non ricordo come si chiamava, mi chiese di andare a vivere con lui, in quella casa. “Ho bisogno di una donna”, mi disse. Fu più o meno questa la frase che usò. Rimasi basita. Ma come? Pensai: questo tale finora, in ufficio, non mi ha quasi mai rivolto la parola, ora m’invita a cena, è la prima volta che ci vediamo, non mi dice se gli piaccio, se si è innamorato di me, non prova a baciarmi, non mi sfiora neanche una mano, neanche per sbaglio, e poi su due piedi, tranquillamente seduti qui in salotto, mi chiede se vengo a vivere con lui? Ma cosa vuol dire?

Mi guardai intorno e, siccome notai per casa un certo disordine, gli risposi: Sì, vedo che hai bisogno di una donna: ma delle pulizie…

Non fui gentile, lo so. È che non ci capii nulla. Semplicemente lui aveva usato un codice che non era il mio, e che mi era totalmente oscuro. Popoli del Nord e popoli del Sud? Può darsi. Non mi aveva corteggiata, ecco tutto. Non aveva messo in atto tutta quella serie di gesti strategici che devono durare un certo tempo e ti preparano, ti fanno capire e non capire, accennano, alludono: ti inducono insomma a una comprensione di cui però non sarai mai certa.

Il corteggiamento apre alla fantasia. Immette in zone narrative illimitate, e libere. Segnali lampeggianti, bagliori, flash. Lettere, messaggini, fiori, cenette, passeggiate, con gelato o senza, piccoli (o grandi) regali, peluche, orecchini, diademi… Non importa cosa, come. Il corteggiamento è tutta una complessa, articolata e suggestiva costruzione fantasmagorica di un senso alluso, posticipato, mai chiarissimo, anzi, ambiguo (com’è ambiguo il linguaggio poetico, appunto), sospeso, intermittente, depistante. E sommamente affascinante. È come entrare al Luna Park, e prender posto sul trenino fantasma: tutto buio, ogni tanto ti sembra che qualcuno o qualcosa ti tocchi, ti sfiori i capelli, ogni tanto un angolo s’illumina e poi si spegne, a ogni curva ti chiedi cosa ti aspetta.

Il corteggiamento è teatro, poesia, narrazione romanzesca. Differisce qualcosa nel tempo, costruisce un’attesa, presuppone un altro e un altrove. In questo senso è letteratura: perché è metafora, porta il senso al di là, lo devia dal letterale, trasfigura, trasporta. È tutto ciò che si oppone alla concretezza bieca, alla lettera di un senso subito chiarito, compreso perché piattamente univoco.

Il ragazzo svedese del Nord, non avendomi corteggiata, mi privò di tutta quell’apertura fantasiosa e ambigua. Fermò la realtà a quel che era. Troppo poco, per me. Mi accompagnò a casa nella notte, nella neve ormai altissima. Gentile, educato. Forse mi avrebbe amato, chissà. Forse avremmo davvero felicemente vissuto insieme. E forse è stato solo un vuoto di parole, che mi ha respinta, una mia incapacità, un mio eccesso di desiderio simbolico. L’amore per la letteratura gioca brutti scherzi.

Insegnavo proprio Letteratura Italiana, lassù, in una bellissima e antica Università. Avevo allievi sui vent’anni. Soprattutto allieve, di cui diventai anche amica. Mi capitò quindi di andare a casa di alcune di loro, e di notare la foto del loro fidanzato, da qualche parte, ben incorniciata: quasi tutte avevano il fidanzato italiano, del Sud Italia. Mi colpì molto. Vedevo quelle foto di ragazzi bruni, dai capelli e dalle barbe folte, ispide, nere. Molti erano pescatori isolani, bruciati dal sole. Mi parvero così in contrasto, quelle immagini, con la fisionomia eterea, allampanata e bionda delle mie allieve svedesi che un giorno ne chiesi conto a una di loro: Ma si può sapere perché avete tutte il fidanzato italiano? Sorrise, e mi svelò l’arcano: Chiaro, mi disse, da voi gli uomini sanno corteggiare.

Non vorrei che adesso, a poco a poco, gli uomini diventassero tutti nordici. Vorrei che ci invitassero ancora a cena, ecco. A una cena tranquilla e serena in cui, sì, tutto può succedere, sia che ci si lasci con una stretta di mano sulla porta, sia che si finisca a passar la notte a casa dell’uno o dell’altra. Senza che ci si debba vicendevolmente tutelare, magari con un contratto preventivamente stipulato, una specie di consenso informato. Come in ospedale, prima di un’operazione.

Tutelarsi, sempre? Abbiamo battezzato in tanti modi l’epoca in cui viviamo: società dello spettacolo, dell’intrattenimento, società liquida. Aggiungerei “società del ricorso”. Viviamo sul chivalà, sospettosi, infidi, pronti a rivalerci, accusare, denunciare. Il genitore dell’allievo bocciato denuncia l’insegnante, il figlio del malato che non guarisce denuncia il medico. Mai il caso, la sfortuna, il destino, o la propria responsabilità. Sempre vittime di errori e ingiustizie, mai soggetti attivi della nostra vita. Né disposti ad accettare gli eventi, casuali, inevitabili; ad aprirci all’imprevedibilità, a sorprenderci e lasciarci andare all’imprevisto, accettando quel che ci viene. Non abbiamo più nessun’idea trascendentale, e magica, dell’esistenza. Forse per questo ci accusiamo-denunciamo l’un l’altro.

Comunque, sono rimasta in Svezia solo un annetto: ho disdetto il mio contratto (biennale e rinnovabile), e son tornata in Italia. E siccome lassù avevo buone possibilità di proseguire la carriera accademica, potrei dire questo (se non credessi alle scelte e al destino): che devo la mia mancata carriera a un uomo che non mi ha corteggiata.

Articolo pubblicato il 26 novembre 2017 su Il Sole 24 Ore