Un futuro di tasse, chi l’avrebbe detto?

Anche se mancano ancora un sacco di cifre, e persino l’Ufficio Parlamentare di Bilancio si tiene sul vago, di una cosa possiamo purtroppo essere certi: la pressione fiscale programmata per il triennio 2019-2020-20121 è maggiore, sensibilmente maggiore, di quella ereditata nel 2018. Si parte dal 42% circa dell’anno che si sta concludendo, si passa al 42.4 nel 2019, e si sale ancora negli anni successivi. In che misura dipenderà dalle clausole di salvaguardia, che riguardano essenzialmente l’Iva e le accise sui carburanti. Se dovessero scattare anche solo in parte, ci ritroveremmo, fra un paio di anni, con una pressione fiscale compresa fra il 43% e il 44%, ossia esattamente al livello cui era salita con il governo Monti, ai tempi dell’austerità. Un bel paradosso per un governo che vuole cambiare tutto, e i cui esponenti in campagna elettorale avevano solennemente promesso di diminuire le tasse.

In tutto questo c’è una logica, però. Se le tasse aumenteranno non solo l’anno prossimo ma anche nei due anni successivi, è esattamente per il medesimo motivo: finanziare quota 100 e reddito di cittadinanza, ossia le due promesse cui Salvini e Di Maio si sono impiccati, costa un sacco di soldi nel 2019, ma ne costerà ancora di più nel 2020 e nel 2021, quando le due misure andranno a regime, e cadrà del tutto lo sconto di parecchi miliardi connesso al loro avvio ritardato (ad aprile anziché a gennaio).

Di per sé un aumento dell’Iva non dovrebbe essere guardato come il male assoluto. Molti studi suggeriscono che, dal punto di vista della crescita e dell’occupazione, vi siano forme di prelievo ben più dannose, a partire da quelle che gravano sui produttori: Ires e Irap innanzitutto, ma anche i contributi sociali. La vera domanda non è se nel 2020-2021 l’Iva verrà aumentata di nuovo (cosa estremamente probabile), ma quale sarà la destinazione del maggiore gettito (investimenti o spesa corrente), e soprattutto se l’aumento dell’Iva avverrà in un quadro di pressione fiscale e contributiva decrescente, costante o crescente.

Io temo che la risposta sia che l’Iva aumenterà, ma non per ridurre altre tasse, bensì per finanziare spesa corrente, il tutto nel quadro di un aumento della pressione fiscale complessiva.

Da dove ricavo questo timore? Essenzialmente dalla legge di bilancio stessa, dalle cui voci è possibile individuare almeno tre linee programmatiche inquietanti.

La prima è un cospicuo aumento della spesa per interessi, dovuta all’impennata dello spread. La seconda è lo smantellamento di alcuni pezzi dello Stato sociale: insegnanti di sostegno, protezione civile, accoglienza richiedenti asilo. La terza è una maggiore penalizzazione delle imprese, sotto forma di minori incentivi e minori rimborsi fiscali.

In concreto questo significa che il governo prevede, per gli anni futuri, un ulteriore massiccio aumento della spesa corrente, in parte per pagare gli interessi sul debito, in parte per mantenere le promesse elettorali (quota 100 e reddito di cittadinanza), ma a fronte di tale aumento riesce solo ad immaginare tagli allo Stato sociale e maggiori oneri per le imprese. E, fatto forse ancora più significativo, non prevede alcuna significativa riduzione generalizzata delle aliquote, con tanti saluti alla più importante promessa della Lega: la flat tax al 15%.

Ora, entrambe le strade delineate nella legge di bilancio (ulteriori oneri per le imprese, ulteriori sforbiciate al welfare), hanno un grave difetto politico: quello di andare contro il mondo dei produttori, che negli ultimi mesi ha già dato chiari e ripetuti segni di scontento, sia sul versante datoriale sia su quello sindacale. Se non vuole indurre una saldatura fra organizzazioni delle imprese e sindacati confederali, il governo non potrà esagerare né nei tagli allo Stato sociale, né in quelli agli incentivi verso le imprese. Detto in altre parole: la copertura delle due costose promesse elettorali cui si è legato andrà cercata anche altrove.

Difficile pensare che questo “altrove” non finisca, come di consueto, per essere un aumento dell’Iva e delle accise, sotto forma di un disinnesco solo parziale della clausole di salvaguardia. E ancor più difficile pensare che, con l’acqua alla gola sul versante dei conti pubblici, il governo riesca ad usare l’aumento dell’Iva per far ripartire gli investimenti pubblici.

Più probabile, specie se l’Italia dovesse entrare in recessione, è che nei prossimi 2-3 anni si assista a un mix di misure che già abbiamo conosciuto in passato: qualche taglio più o meno nascosto alla spesa corrente, presentato come “efficientamento”; qualche taglio o posticipazione degli investimenti pubblici, presentato come “riprogrammazione”; e poi, naturalmente, l’immancabile aumento dell’Iva, presentato come “rimodulazione”.

A riprova del fatto che innovare davvero, nel nostro Paese, è estremamente difficile.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 30 dicembre 2018