Abusi edilizi del nonno, difendo Luigi Di Maio

Del populismo mi piacciono due cose soltanto: lo sforzo di usare un linguaggio comprensibile, e il rispetto per i sentimenti della gente comune. Tutto il resto, a partire dalla politica economica e sociale, mi lascia perplesso, non saprei dire se di più o di meno di quanto mi lasciassero perplesso le gesta dei governi precedenti, che molto hanno contribuito, insieme ai nostri comportamenti quotidiani, a portare l’Italia nella palude in cui tuttora si trova.

La mia lontananza dalle idee sovraniste e populiste, tuttavia, non mi impedisce oggi di dire una cosa: il trattamento che una parte del mondo dell’informazione, e in particolare i media schierati con l’opposizione, hanno riservato a Luigi Di Maio (per la vicenda di un abuso edilizio sanato con un condono) non è degno di un paese civile. Anzi, vorrei dire di più: non è degno di un paese occidentale moderno, e meno che mai di una democrazia liberale.

Non che Di Maio sia l’unica vittima, naturalmente. E’ successo a decine di politici di essere messi alla gogna per presunti illeciti compiuti dai loro familiari. Recentemente è capitato a Maria Elena Boschi per le condotte del padre in banca Etruria, e a Matteo Renzi, anche lui per affari sospetti del padre. Ma, a mia memoria, mai era successo che un politico venisse crocefisso per un illecito (in materia edilizia) compiuto da suo nonno mezzo secolo prima, sanato da suo padre prima che il malcapitato uomo politico di oggi fosse venuto al mondo. Un quotidiano arriva ad accusare Di Maio di non aver tenuto gli occhi ben aperti quando, 12 anni fa, il padre ricevette comunicazione che la domanda di condono – da lui inoltrata venti anni prima – era stata finalmente accolta.

Eppure, più che aberrante, questa vicenda è molto istruttiva. Essa ci permette, infatti, di accorgerci di quanto radicalmente la nostra società e, dentro di essa, il mondo della comunicazione, si siano allontanati dai principi liberali che per tanti decenni sono stati alla base delle nostre istituzioni.

Ce ne siamo allontanati, tanto per cominciare, perché i difensori di quei principi sono i primi a calpestarli. Fa una certa impressione constatare che siano proprio i paladini delle istituzioni liberali, giustamente preoccupati di ogni indebolimento dello stato di diritto, a dimenticare che – nelle società moderne – la responsabilità è personale, e che le (eventuali) colpe dei padri non possono essere imputate ai figli: il superamento della legge del genos, per cui la colpa si trasmette lungo le generazioni, e la vendetta può abbattersi sui discendenti, è un caposaldo della nostra civiltà, uno dei punti cruciali che la separa dalle tante barbarie del passato.

Ma fa ancora più impressione il meccanismo di propagazione mediatica del fango. Quando una notizia, più o meno vera, più o meno completa, più o meno infamante, viene messa in circolo, essa entra istantaneamente nel tritacarne dei social, senza mediazioni, senza contrappesi, senza alcuna reale possibilità di autodifesa dei diretti interessati. Anzi, la tentata autodifesa non fa che peggiorare la situazione, favorendo la propagazione del fango, moltiplicando le voci che pretendono, senza alcuna cognizione di causa, di esibire i propri istinti e i propri impulsi.

Ed è qui che le cose diventano interessanti, e istruttive per chi volesse non chiudere gli occhi. La ragione per cui le figure pubbliche possono sì raccogliere rapidamente un enorme consenso, ma anche risultare improvvisamente vulnerabilissime, è precisamente che sono saltati tutti gli argini che, ancora pochi decenni fa, mettevano un limite all’arbitrio comunicativo: la realtà è che oggi chiunque può dire quel che desidera senza renderne conto a nessuno, i media non hanno alcuno scrupolo nel nascondere le notizie, nell’inventarle, nel deformarle, tecnici ed esperti sono guardati con sospetto, nessuno è considerato al di sopra delle parti, i fatti sono trattati come opinioni, eventi e comportamenti sono sistematicamente giudicati con due pesi e due misure, nessuno è chiamato a rendere conto delle affermazioni che fa, o a scusarsi per le bugie che dice. Insomma: se “uno vale uno”, e tutti siamo felicemente collegati via internet, allora tutte le opinioni sono sullo stesso piano, e quel che è fake ha esattamente gli stessi diritti di quel che non lo è.

In questo senso la vicenda Di Maio è illuminante, ma lo è per tutti. Si può accusare una parte della stampa di faziosità, o addirittura di aver montato un caso per colpire un avversario politico (non è certo il caso della Raggi, che non è partito dagli organi di informazione). Ma ci si dovrebbe rendere conto che il meccanismo è il medesimo che, una decina di giorni fa, aveva condotto la stessa parte politica, da sempre fustigatrice del cattivo giornalismo, ad ospitare sul proprio sito un video completamente manipolato, in cui a un’autorità europea (nella persona di Jeroen Dijsselbloem) venivano messe in bocca dichiarazioni gravissime (un invito ai mercati finanziari ad attaccare l’Italia) ma completamente inventate. E ancora prima aveva condotto a cavalcare le vicende di Renzi e Boschi con la stessa spregiudicatezza con cui oggi gli avversari dei Cinque Stelle cavalcano le malefatte edilizie del nonno di Di Maio.

Ecco, credo che questa vicenda innanzitutto questo ci insegni: allontanarsi troppo dalle istituzioni liberali, con i loro filtri, le loro mediazioni, i loro meccanismi di tutela della verità e della reputazione, può apparire liberatorio, ma è molto pericoloso. Perché un mondo in cui ciò che è fake e irragionevole conta tanto quanto ciò che è vero e ben fondato, può andare in qualsiasi direzione. Anche le più impreviste e inquietanti.

Articolo pubblicato su Il Messaggero di martedì 13 novembre 2018