Cosa fu davvero Weimar

La lettura dell’articolo di Francesco Cundari, Corrispondenze da Weimar (‘Il Foglio del 7/8 luglio) -una lunga recensione del saggio di Benjamin Carter Hett, La morte della democrazia ( The Death of Democracy: Hitler’s Rise to Power and the Downfall of the Weimar Republic, Penguin Books 2018)- ci riporta una stagione storiografica che sembrava passata dopo decenni di revisionismo. È come se, per Cundari, Ernst Nolte, George L. Mosse, Renzo De Felice, Walter Laqueur, Domenico Settembrini, Andreas Hillgruber, François Furet, Augusto Del Noce, Hannah Arendt non fossero mai esistiti. Non è il ritorno, il suo, alle interpretazioni più o meno marxiste e gramsciane dei Nicola Tranfaglia, dei Guido Quazza, dei Domenico Losurdo, ma al loro stile di pensiero che divideva la storia in pecore bianche e in pecore nere e a queste ultime non riconosceva né ragioni, né ideali ma, nel migliore dei casi, l’imbecillitas di chi si lascia mobilitare in difesa di interessi non suoi. Scrive Cundari, citando Hett, «la chiave per capire perché molti tedeschi sostennero Hitler stava anzitutto nel “rifiuto nazista di un mondo razionale basato sui dati di fatto |…| Il trauma della sconfitta spinse milioni di tedeschi a credere a una particolare narrazione della guerra non perché fosse oggettivamente vera ma perché era emotivamente necessaria”. È dunque questo impasto di vittimismo e aggressività, ricerca del capro espiatorio e paura del futuro, narrazioni autoconsolatorie e calcoli sbagliati, a spianare la strada a Hitler». Forse è il mio impenitente revisionismo a indurmi a ritenere che “autoconsolatorio” sia proprio il modo di spiegare l’ascesa irresistibile del Fuhrer con la cecità dei suoi elettori e con le loro paure indotte ad arte dagli imprenditori del panico. Conta poco che il nocciolo duro del giudizio storico di Hett e del suo entusiasta recensore italiano si differenzi da quello marxista classico per quanto riguarda l’identità del nemico ontologico della democrazia, ieri il capitalismo, oggi il rigetto della globalizzazione. Sostituire alle semplificazioni di un tempo quelle odierne non porta lontano. Dire che il nazismo «fu anzitutto un “movimento di protesta nazionalista contro la globalizzazione”» è ancora più privo di senso che definirlo «l’espressione degli interessi degli ambienti più reazionari e più aggressivi della borghesia monopolistica», giacché, nel secondo caso, il diavolo è un soggetto sociale ben determinato, nel primo è una tendenza storica, per lo più indicata con un termine “globalizzazione” il cui significato odierno trasposto nella Germania e nell’Europa di cent’anni fa non rinvia a fatti precisi del passato ma a obiettivi polemici del presente. E infatti non mancano riferimenti a Trump, ai populisti e ai “sovranisti”, né ci viene risparmiato il monito del grillo parlante: stiamo attenti, non siamo diversi dai tedeschi degli anni Venti e Trenta, anche noi abbiamo i nostri imbonitori dediti allo smercio della paura e masse di individui sempre disposti a dare credito alle loro fake news giacché il mondo è vulgo.

Gli apologeti di Weimar possono tirare fuori dai loro bauli magici ogni sorta di demoni però non debbono esagerare nell’alterare i fatti o meglio, nel puntare i riflettori soltanto sulle zone luminose del loro Lost Eden. Mi scuso per la lunga citazione ma mi sembra emblematica del modo di narrare la storia di Hett/Cundari: la Germania di Weimar «aveva il più avanzato movimento per i diritti degli omosessuali. Aveva un attivo movimento femminista che, avendo ottenuto il diritto di voto, andava verso il diritto all’aborto. Il movimento dei lavoratori si era guadagnato la giornata di otto ore. E la Germania degli anni Venti non era all’avanguardia solo in campo politico e sociale. Dalla pittura espressionista all’architettura del Bauhaus, dalla letteratura alla scienza, non c’era campo del pensiero e delle arti in cui non sembrasse primeggiare. In quegli anni Bertolt Brecht rivoluzionava il teatro. Il cinema tedesco, con registi come Fritz Lang e Murnau, si imponeva sulla scena internazionale. Per non parlar delle scienze, in un tempo in cui circa un terzo delle riviste di fisica al mondo erano scritte in tedesco, e a Berlino insegnava un certo Albert Einstein».

Di qui la domanda che già vent’anni fa, dopo essere stati a scuola dai grandi storici revisionisti del Novecento, ci saremmo vergognati a porre: «Come fu possibile, dunque, che nel cuore di una democrazia così illuminata, moderna, si affermasse d’improvviso la barbarie nazista?». Ormai ce l’hanno spiegato centinaia di saggi, articoli, libri che riempiono intere scaffalature (nella mia modesta biblioteca occupano una parete!) ma, evidentemente, non sono degni di considerazione, forse perché non possono venir usati, in America, contro gli elettori di Trump e, in Italia, contro le orde di Salvini e di Di Maio.

Cundari, però, sa bene che il rifiuto di un mondo razionale non fu solo nazista ma caratterizzò una corrente di pensiero, la rivoluzione conservatrice, i cui aderenti forse non erano ottusi e imbecilli. Non potevano certo dirsi “barbari” Thomas Mann, Oswald Spengler, Othmar Spann, Arthur Moeller van den Bruck, Rainer Rilke, Hugo von Hofmannsthal, Ernst von Salomon, Ernst Jünger, Gottfried Benn, Carl Schmitt, Werner Sombart, per non parlare di uno dei massimi compositori del Novecento, Richard Strauss. Non tutti i conservatori rivoluzionari, è vero, aderirono al nazismo ma se non si riconobbero nelle istituzioni e nel clima di Weimar ci sarà stata pure una ragione.

Forse tutti condivisero il disgusto di Stefan Zweig «Ber­lino si trasformò nella Babele del mondo. Bar, parchi di divertimento, pub crebbero come funghi. Ragazzi truccati, i fianchi messi in rilievo dalla vita assottigliata ad arte, passeggiavano per la Kurfürstendamm, e non erano soltanto professionisti. Ogni studente di liceo desiderava raggranellare qualche soldo e nei bar con le luci abbassate si potevano vedere pubblici funzionari e magnati della finanza adescare senza vergogna marinai ubriachi. Neppure la Roma di Svetonio conobbe orge pari ai balli dei travestiti a Berlino, dove centinaia di uo­mini in abiti femminili e donne vestite da uomo danzavano sotto gli occhi indulgenti della polizia. Nel generale collasso dei valori, una sorta di pazzia parve cogliere proprio quegli strati della classe media che fin a quel momento erano parsi incrollabili nel, loro ordine. Giovani signore andavano van­tandosi con orgoglio delle loro perversioni e per una sedi­cenne essere in odore di verginità sarebbe stato considerato un’ignominia in tutte le scuole di Berlino».

«Non tutto è esagerazione nel racconto di Zweig», commenta Peter Gay, ne La cultura di Weimar (Ed. it. Dedalo, Bari 1978) ma se solo un terzo del racconto di Zweig fosse vero, non si dovrebbe essere più comprensivi nei riguardi dei tedeschi, che vedevano sconvolta la loro “casa in ordine” e crollare quel mondo della Tradizione, nutrito di luteranesimo, di senso del dovere, di spirito di servizio che aveva fatto la loro grandezza e li aveva resi così potenti da sconfiggere due imperi (quello degli Asburgo e quello di Napoleone III) nel giro di cinque anni? Del resto non è un caso che il recente Babylon Berlin del regista Tom Tykwe abbia riscosso un tale successo da sfidare i colossi americani. Come scrive Michela Tamburrino, su La Stampa, «Tutto il fascino ruggente di un periodo storico in passato solo sfiorato; siamo nei folli Anni Venti, a Berlino, capitale cosmopolita nella quale si incontrano gli estremi: lusso e povertà, femministe, omosessuali, nazisti, comunisti, in un’ubriacatura che precede la grande crisi finanziaria e l’inflazione, quando gli echi della Grande guerra non si sono spenti e si intravedono le premesse del disastro a venire». Si comprende che i tedeschi siano rimasti sconvolti da un’opera che non rievoca giorni radiosi ma un incubo senza fine, terminato in una tragedia da crepuscolo degli dei. »

Già prima di Babylon Berlin, però, un grande film, Cabaret di Bob Fosse (1972) ispirato ai racconti berlinesi di Christopher Isherwood, ci aveva mostrato l’ambivalenza di Weimar, la tolleranza, nel cabaret, per l’unione di un uomo e di una grossa scimmia e la scena campestre in cui ragazzi biondi in divisa nazista intonano un inno patriottico che commuove tutti i presenti.

In realtà, il fallimento di Weimar fu dovuto all’incapacità di tenere assieme la Gemeinschaft, la dimensione comunitaria (le tradizioni, lo spirito  nazionale, i “costumi della mente e gli abiti del cuore”, che sono irriducibili e non universalizzabili in quanto appartengono a un popolo particolare e non a un altro) e la Gesellschaft, la dimensione societaria (in cui maturano i diritti universali dell’uomo e del cittadino, le scienze, le grandi creazioni artistiche destinate a diventare “patrimonio  dell’umanità”). I momenti trasgressivi di Weimar non erano modalità dell’umano che chiedevano di essere riconosciute e inserite in un quadro di valori autenticamente pluralistico (come nei paesi anglosassoni) ma pugni nello stomaco della vecchia, putrefatta, società borghese che trovava nei disegni di George Grosz la sua crudele caricatura e nella satira di Bertolt Brecht la sua implacabile Erinni.

Un autentico liberale, come Raymond Aron, in poche righe, nel Saggio sulla destra. Il conservatorismo nelle società industriali (1957) -Ed. Guida, 2006- aveva detto l’essenziale «Cresciuto all’ombra della monarchia, il parlamento (della Repubblica di Weimar) avrebbe potuto ottenere la sovranità e condividere il prestigio delle istituzioni tradizionali. Promosso di colpo all’onnipotenza, dopo una rivoluzione involontaria, venne schiacciato dal disprezzo di chi si definiva nazionale, dal risentimento delle masse e dall’amarezza frutto di una sconfitta della quale aveva raccolto l’eredità». Senza “il prestigio delle istituzioni tradizionali” una democrazia non dura: Aron tirava in campo la “legittimità politica”, un concetto ormai incomprensibile nell’era dell’imperialismo del diritto e dell’economia.

Articolo inviato a Il Foglio