Chi ha paura di lavorare?

Hanno suscitato qualche stupore i dati di giugno sul mercato del lavoro che l’Istat ha rilasciato pochi giorni fa. Da essi, infatti, risulta che negli ultimi 12 mesi gli aumenti di occupazione, che continuano ormai da oltre 3 anni, hanno riguardato solo la fascia dei lavoratori più anziani (50-64 anni), mentre tutte le altre fasce d’età accusano un calo occupazionale. Complessivamente, a dispetto di questi cali, si osserva una crescita del tasso di occupazione (+0.6%), che tocca il nuovo record storico del 62.9%. Se però andiamo a vedere in quali segmenti della popolazione gli aumenti sono più significativi, scopriamo che sono soprattutto le donne a sostenere la crescita del tasso di occupazione, con un incremento (+0.8%) doppio rispetto a quello degli uomini (+0.4%).

Altrettanto significativa la dinamica degli attivi (occupati più disoccupati in cerca di lavoro) al netto della componente demografica: in aumento fra gli anziani (50-64 anni), in diminuzione fra i giovani (15-34 anni), in netto calo fra gli adulti (35-49 anni).

La spiegazione standard per questo tipo di dinamiche è che gli anziani restano al lavoro più a lungo per non perdere benefici pensionistici, mentre l’occupazione femminile è più dinamica di quella maschile semplicemente perché il tasso di occupazione delle donne è il più basso d’Europa, e quindi i margini di incremento sono più ampi. Nessuna spiegazione, per quanto ne so, è invece stata avanzata fin qui per il fatto che il ritiro dal mercato del lavoro (verso l’inattività) tocchi più i giovani-adulti (35-49enni) che i giovani-giovani (15-34enni).

Queste spiegazioni non sono sbagliate, ma hanno una caratteristica comune: quella di metterci al riparo dal riconoscere altre, talora sgradevoli, con-cause dei processi in atto. Il fatto, ad esempio, che gli anziani restino al lavoro più degli altri, e lo facciano per massimizzare i benefici pensionistici, non spiega come mai i non-anziani tendono a ritirarsi dal mercato del lavoro. E nasconde la bassa (e calante) propensione al lavoro dei giovani in età lavorativa (25-34 anni).

Così, spiegare la maggiore dinamica del tasso di occupazione femminile con l’ampiezza del “serbatoio” di donne inoccupate, nasconde la circostanza che le donne sono molto, ma molto più istruite dei maschi, e anche semplicemente per questo danno un maggiore contributo alla crescita occupazionale. I giovani maschi, esigenti e spesso poco preparati, sono il vero anello debole del mercato del lavoro.

Quanto alle fasce di età giovanili e quasi-giovanili (dai 15 ai 49 anni) bisogna osservare che le categorie Istat dei 15-34enni e dei 35-49enni ricalcano grossolanamente la distinzione fra la più giovane generazione Z (centennials, o zoomers) e la meno giovane generazione Y (millenials). Ebbene, grazie a ricerche e indagini demoscopiche, qualcosa sappiamo degli atteggiamenti esistenziali di queste due generazioni. Secondo un’indagine dell’istituto Piepoli la generazione Z, essendo cresciuta in un periodo di crisi economica e di disoccupazione, tende – più della generazione Y – a cercare un posto di lavoro stabile e sicuro, e a tenerselo stretto quando lo ottiene. Secondo un’altra indagine, condotta da EURES (European employment services), i Millenials (generazione Y) tendono a dare una particolare importanza all’equilibrio fra tempo libero e lavoro, e a cercare attivamente nuove opportunità se un dato lavoro non li soddisfa. Di qui un maggiore attaccamento al lavoro della generazione più giovane (Z) rispetto a quella precedente (Y).

Il che, guarda caso, è precisamente quel che l’andamento occupazionale degli ultimi 12 mesi registra: la fuga verso l’inattività, che accomuna entrambe le generazioni, è più accentuata per la fascia 35-49 anni (millenials) che per la fascia 15-34 anni (centennials). Forse, contrariamente a quanto spesso si sente affermare, l’anello debole della catena lavorativa non sono i giovani-giovani, i cosiddetti nativi digitali, ma gli ex-giovani, che la rivoluzione di internet l’hanno attraversata.