La “sperimentalità” dei vaccini contro il covid-19: un punto di vista giuridico.

L’articolo si propone di fornire un semplice contributo informato al pubblico dibattito senza alcuna pretesa di rappresentare una parere professionale sul tema.

In questi ultimi tempi si sono moltiplicati i dibattiti sul fatto che i vaccini (o, per meglio dire, le terapie) contro il covid siano o meno farmaci sperimentali. Nell’agone dialettico si sono cimentati in tanti e anche un discreto numero di giuristi, in particolare esperti di diritto costituzionale. Il tema della definizione di “sperimentalità” di una terapia – ad esempio quando dalla qualificazione si vogliono trarre conseguenze in tema di legittimità di eventuali obblighi vaccinali (o del green pass) – è infatti questione giuridica prima che politica o medica. Questo significa che – per discuterne – occorre prima di tutto evitare di cadere vittima dell’idea (che spesso il profano del diritto condivide) per cui, se la legge parla di “esperimento” o di farmaco “sperimentale”, il contenuto dei termini in questione potrebbe essere individuato semplicemente utilizzando o il vocabolario comune o (per i profani più attenti) il glossario medico. La realtà è invece che le norme sono strumenti che definiscono degli istituti giuridici che hanno uno scopo, e che – di conseguenza – la loro interpretazione non può che seguire regole che rispettino la funzione dell’istituto che di volta in volta le norme da interpretare concorrono a definire. Funzione che, a sua volta, deve essere desunta da quelle stesse norme, nel rispetto del principio di non contraddizione logica, in forza del quale norme che contengono definizioni di tenore letterale analogo non dovrebbero avere – se non definiscono istituti che hanno scopi radicalmente differenti – un contenuto diverso.

Tutto questo per dire che il tema merita di essere trattato, anche quando viene posto in termini di rispetto del diritto costituzionale e/o internazionale, tenendo conto del diritto regolatorio farmaceutico, ossia della parte (del diritto amministrativo e dell’Unione Europea) che disciplina – appunto – la sperimentazione di farmaci e trattamenti ad uso umano. E dunque – al fine di evitare antinomie, ossia contrasti tra definizioni uguali contenute in norme differenti – l’individuazione di quali farmaci possano considerarsi sperimentali (e di quali studi clinici possono essere considerati attività sperimentali), anche se condotta per verificare la possibilità di applicare principi e norme costituzionali o internazionali, non può prescindere da un esame delle norme (nazionali e di fonte UE) che disciplinano l’attività di sperimentazione dei farmaci al fine di garantire la sicurezza della loro somministrazione al pubblico. Con questo scritto intendo dunque dare un contributo al dibattito, ben conscio del fatto che ogni giurista si limita a indicare interpretazioni sulla base della sua conoscenza delle norme e dei principi ermeneutici, mentre sono altri soggetti – in primo luogo i giudici, ma anche i decisori politici – che hanno il non facile compito di decidere come stanno le cose, traendone le dovute conseguenze a seconda della sede.

Nel rispetto delle premesse indicate, dunque, possiamo porci la domanda: i farmaci autorizzati in via condizionata (e, nello specifico, i cosiddetti vaccini anti-covid) possono essere considerati “farmaci sperimentali” e/o attualmente sottoposti ad attività di studio clinico definibili come “sperimentazione”? Per rispondere a queste domande possiamo affrontare il tema in tre modi diversi.

Il primo – più semplice, ma forse anche un po’ semplicistico (e che dunque trova ampi consensi anche tra i non giuristi e tra i giuristi che hanno meno familiarità con le complicazioni del diritto regolatori farmaceutico) – è quello per cui, se un farmaco viene autorizzato per il commercio dall’ente regolatore, allora avrebbe per definizione cessato la fase di sperimentazione. Si tratta di una posizione che (certamente condivisibile in relazione alle AIC ordinarie) per le autorizzazioni in deroga, come quella concessa per ora ai cosiddetti vaccini anti-covid, richiede di superare almeno uno scolio.

E’ infatti vero che anche i farmaci autorizzati in deroga hanno superato una parte degli stessi test clinici previsti per quelli ordinari (quelli delle fasi uno, due e tre), ma altrettanto vero è – come vedremo quando esamineremo il contenuto di due autorizzazioni condizionate relative a vaccini anti-covid – che alcuni studi clinici sugli effetti del farmaco devono essere comunque condotti in epoca successiva al momento dell’autorizzazione condizionata, al fine di conseguire l’autorizzazione definitiva ordinaria (autorizzazione ordinaria che – si badi bene, perché il punto è importante – ancorché concessa a posteriori resta comunque necessaria per la prosecuzione della legittima vendita del farmaco).

Proprio muovendo da questa ultima considerazione, infatti, si potrebbe sostenere che – essendo come vedremo alcuni di questi test aggiuntivi riconducibili al genus attività di sperimentazione clinica ed essendo questi test in corso fino alla concessione della autorizzazione definitiva – i vaccini autorizzati in deroga, fino al momento della concessione dell’AIC ordinaria, potrebbero essere classificabili come farmaci sperimentali, appunto per il fatto che la verifica della loro sicurezza (quella ordinariamente richiesta per la somministrazione al pubblico) resta subordinata alla svolgimento di ulteriori verifiche e test sperimentali. Questo significa che a ben vedere – anche usando il criterio “semplice” che piace ai medici – resta possibile sostenere che i vaccini, per quanto già autorizzati (ma solo in via condizionata), siano ancora sperimentali.

Per risolvere il dubbio occorre dunque passare al secondo approccio al tema della “sperimentalità” dei vaccini; quello più attento alla coerenza del sistema nel suo complesso e che dunque passa per l’individuazione delle definizioni di “sperimentazione” e di “farmaco sperimentale” contenute nel diritto farmaceutico.

La prima fonte da considerare è rappresentata dal regolamento n. 536/2014 del Parlamento e del Consiglio UE sulla sperimentazione clinica di medicinali per uso umano, promulgato il 16 aprile 2014 [il testo è accessibile al seguente link]. La sua importanza deriva dal fatto che si tratta del regolamento che deve sostituire (abrogandola) la direttiva n. 2001/20/CE concernente il ravvicinamento del diritto degli Stati membri in tema di applicazione della buona pratica clinica nell’esecuzione della sperimentazione clinica di medicinali ad uso umano. Si noti che il Regolamento in questione, per quanto adottato nel 2014, sarà in realtà applicabile solo dopo la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’UE dell’avviso con il quale la Commissione europea avrà confermato la piena funzionalità del cosiddetto CTIS (Clinical Trial Information System). Questo significa che – essendo l’operatività del sistema CTIS attualmente prevista per dicembre 2021 – è assai probabile che il Regolamento possa iniziare ad applicarsi a decorrere da quella data, dunque da fine anno. Al di là della data di effettiva entrata in vigore, il regolamento riveste già ora un ruolo importante nel sistema del diritto farmaceutico dell’UE, in quanto destinato a disciplinare organicamente – con norme di applicazione uniforme che prevarranno, abrogandone le parti incompatibili, sulle singole discipline nazionali – la materia di cui stiamo parlando.

Prima di verificare il contenuto del regolamento in questione, può essere il caso di esaminare la direttiva che quel regolamento va a sostituire [accessibile al seguente link], tenendo conto del fatto che – per quanto non direttamente applicabile negli Stati Membri – anche questo testo normativo può fornire indicazioni sull’interpretazione delle rispettive normative nazionali di attuazione, così come anche sul senso dei termini utilizzati nel regolamento.

Ebbene: l’art. 2 della direttiva – intitolato “definizioni” – alla lettera d) definisce come “medicinale in fase di sperimentazione” ogni “principio attivo in forma farmaceutica o placebo sottoposto a sperimentazione oppure utilizzato come riferimento nel corso di una sperimentazione clinica, compresi i prodotti che hanno già ottenuto un’autorizzazione di commercializzazione se utilizzati o preparati (secondo formula magistrale o confezionati) in maniera diversa da quella autorizzata, o utilizzati per indicazioni non autorizzate o per ottenere ulteriori informazioni sulla forma autorizzata” (le enfasi sono aggiunte, n.d.r.). Si noti in particolare la frase finale, secondo cui va considerato in fase di sperimentazione anche un farmaco che, per quanto già autorizzato al commercio, viene usato al fine di ottenere ulteriori informazioni sulla forma autorizzata. Il che – come vedremo meglio infra – accade proprio in relazione ai farmaci autorizzati in deroga, come i cosiddetti vaccini anti-covid.

A sua volta, l’art. 2 lettera a) della direttiva, definisce la “sperimentazione clinica”, come segue: “qualsiasi indagine effettuata su soggetti umani volta a scoprire o verificare gli effetti clinici, farmacologici e/o gli altri effetti farmacodinamici di uno o più medicinali in fase di sperimentazione e/o a individuare qualsiasi tipo di reazione avversa nei confronti di uno o più medicinali in fase di sperimentazione, e/o a studiarne l’assorbimento, la distribuzione, il metabolismo e l’eliminazione al fine di accertarne l’innocuità e/o l’efficacia”. Secondo la direttiva, si definisce come sperimentazione qualunque indagine – condotta su esseri umani – che mira a valutare gli effetti o la sicurezza di un “medicinale in fase di sperimentazione”. E deve considerarsi in fase di sperimentazione, come abbiamo visto, ogni medicinale – anche se già autorizzato per la commercializzazione nell’UE – purché usato, tra le altre cose, per raccogliere informazioni sugli effetti dello stesso medicinale. La definizione pecca di una certa circolarità, ma fa ritenere che se un farmaco è ancora soggetto a esami clinici condotti su persone, anche se già autorizzato, deve considerarsi un farmaco sperimentale. Per la direttiva, insomma, parrebbe che a fare la differenza – per poter considerare sperimentale un farmaco – sia il fatto che quel farmaco (anche dopo aver ottenuto una autorizzazione condizionata) è ancora soggetto a “indagini” cliniche relative ai suoi effetti.

Ma procediamo ora con l’esame della normativa nazionale di attuazione della suddetta direttiva, che è rappresentata dal decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 211 [accessibile nel testo ufficiale qui].

All’art. 2 (definizioni) del decreto – come quasi sempre avviene – troviamo delle definizioni assai simili a quelle della direttiva. E dunque: alla lettera d) leggiamo che per “medicinale  sperimentale” si intende “una  forma  farmaceutica  di  un principio   attivo   o   di   un  placebo  saggiato  come  medicinale sperimentale o come controllo in una sperimentazione clinica compresi i prodotti   che hanno già ottenuto un’autorizzazione di commercializzazione ma  che  sono  utilizzati  o  preparati (secondo formula  magistrale  o  confezionati) in forme diverse da quella autorizzata, o quando sono utilizzati per indicazioni non autorizzate o per ottenere ulteriori informazioni sulla forma autorizzata”. Alla lettera a) leggiamo invece che – per “sperimentazione   clinica” – dobbiamo intendere “qualsiasi studio  sull’uomo finalizzato   a   scoprire   o   verificare   gli   effetti  clinici, farmacologici  e/o  altri  effetti  farmacodinamici  di  uno  o  più  medicinali sperimentali, e/o a individuare qualsiasi reazione avversa ad uno a più medicinali sperimentali, e/o a studiarne l’assorbimento,  la  distribuzione,  il metabolismo e l’eliminazione, con  l’obiettivo di accertarne la sicurezza e/o l’efficacia”. La legge italiana pare dunque discostarsi dalla direttiva, prevedendo una nozione più ampia di sperimentazione: la norma nazionale parla infatti di ogni “studio” (non di ogni “indagine”, come la direttiva), facendo supporre che – quanto meno nel nostro ordinamento nazionale – possano rientrare nel concetto di attività di sperimentazione anche le procedure di semplice verifica dei dati raccolti senza protocolli aggiuntivi (ad esempio in sede di farmacovigilanza passiva), ancorché si tratti di attività che non implichino la conduzione di esami fisici aggiuntivi sui soggetti che ricevono (o hanno ricevuto) il farmaco. La differenza è importante e merita di essere sottolineata.

Assume tuttavia rilevanza ai fini della nostra indagine anche il decreto legislativo del 6 novembre 2007, n. 200 [accessibile al link che è uno dei decreti attuativi della diversa direttiva 2005/28/CE [il cui testo ufficiale è accessibile al seguente link]. Si tratta di una seconda direttiva che indica principi e linee guida dettagliate per la pratica clinica relativa ai medicinali in fase di sperimentazione a uso umano, nonché dei requisiti per l’autorizzazione alla fabbricazione o importazione di tali medicinali. E’ una direttiva che – di per sé – non ha un contenuto particolarmente interessante, mentre il relativo decreto attuativo (che analizzeremo qui appresso) contiene invece definizioni rilevanti per la nostra indagine.

La prima di esse è quella di “medicinale sperimentale” (art. 1 lettera h), definito come “una forma farmaceutica di un principio attivo o di un placebo saggiato come medicinale sperimentale o come controllo in una sperimentazione clinica, compresi i prodotti che hanno già ottenuto un’autorizzazione di commercializzazione, ma che sono utilizzati o preparati (secondo formula magistrale o confezionati) in forme diverse da quella autorizzata, o quando sono utilizzati per indicazioni non autorizzate o per ottenere ulteriori informazioni sulla forma autorizzata o comunque utilizzati come controllo”. Qui per sperimentazione si intende ogni “uso” del farmaco – concetto a ben vedere ancora più ampio rispetto a quello di “studio” che abbiamo visto in precedenza – finalizzato a raccogliere dati sugli effetti del farmaco.

Seguono – in particolare alle lettere o) e p) dell’art. 1 del Decreto – le definizioni di “sperimentazione clinica” e – molto interessante ai nostri fini – quella di “sperimentazione non interventistica”.

Per “sperimentazione clinica” si intende infatti “qualsiasi studio sull’essere umano finalizzato a scoprire o verificare gli effetti clinici, farmacologici o altri effetti farmacodinamici di uno o più medicinali sperimentali, o a individuare qualsiasi reazione avversa ad uno o più medicinali sperimentali, o a studiarne l’assorbimento, la distribuzione, il metabolismo e l’eliminazione, con l’obiettivo di accertarne la sicurezza o l’efficacia, nonchè altri elementi di carattere scientifico e non”. Anche qui – dunque – il nostro legislatore include nella stessa categoria di sperimentazione clinica anche il semplice “studio”, dunque confermando quanto risultava già dall’altro decreto legislativo, ossia che per sperimentazione clinica – quanto meno secondo il nostro diritto nazionale – si può intendere anche una semplice verifica di dati senza condurre analisi cliniche (dunque attività fisica) su chi riceve il farmaco.

Che per il nostro legislatore la nozione di “sperimentazione” si estenda anche a semplici “studi” di dati clinici – dunque senza che sia necessario condurre indagini o esami fisici su chi riceve il farmaco – trova conferma nella previsione della sottospecie di sperimentazione – definita “sperimentazione non interventistica” – che viene descritta come “uno studio nel quale i medicinali sono prescritti secondo le indicazioni dell’autorizzazione all’immissione in commercio ove l’assegnazione del paziente ad una determinata strategia terapeutica non è decisa in anticipo da un protocollo di sperimentazione, rientra nella normale pratica clinica e la decisione di prescrivere il medicinale è del tutto indipendente da quella di includere il paziente nello studio, e nella quale ai pazienti non si applica nessuna procedura supplementare di diagnosi o monitoraggio”. Anche questa forma di studio (senza indagine medica e senza definizione di protocolli aggiuntivi) viene infatti definita “sperimentazione” dalla normativa nazionale italiana.

Pare insomma che il nostro diritto regolatorio nazionale adotti una nozione di sperimentazione di tipo formalistico, nel senso che – per aversi sperimentazione – non è necessario lo svolgimento di esami clinici sui soggetti che assumono il farmaco, ma sarebbe sufficiente anche la semplice raccolta e analisi di dati relativi agli effetti dei farmaci, senza la predisposizione di protocolli specifici all’uopo. Questa impostazione si spiega peraltro con il fatto che il legislatore nazionale ha inteso adottare per il settore farmaceutico un concetto di massima precauzione, considerando cioè ancora in fase sperimentale qualunque farmaco che sia ancora soggetto ad una qualunque forma di verifica degli effetti precedente alla sua piena commerciabilità con una autorizzazione ordinaria.

Questa considerazione è importante in quanto, come vedremo meglio infra, la somministrazione al pubblico di vaccini autorizzati in via condizionata resta sottoposta a farmacovigilanza e raccolta dati aggiuntivi anche in vista della formazione del dossier finale per la concessione dell’AIC definitiva: attività che, di conseguenza, potrebbe essere ritenuta una ipotesi di “sperimentazione non interventistica”. E tanto potrebbe essere a sua volta sufficiente per considerare come “medicinale sperimentale” il farmaco oggetto di autorizzazione  condizionata, in quanto di farmaco ancora oggetto a studi volti a ottenere ulteriori informazioni di natura clinica (ad esempio effetti avversi) sulla forma già autorizzata al commercio del farmaco stesso, in vista della sua autorizzazione ordinaria. Come vedremo tra poco, peraltro, i vaccini anti-covid in realtà – prima della concessione della autorizzazione definitiva – sono soggetti ad almeno un test clinico vero e proprio (uno studio randomizzato contro placebo, in cieco per l’osservatore), dunque a procedure che paiono rientrare nel concetto di sperimentazione con esame clinico propriamente detto.

Esaurito l’esame del nostro diritto nazionale – ed esaminata la direttiva che verrà sostituita dal regolamento – passiamo finalmente al contenuto del regolamento che, come si è anticipato, dovrebbe entrare in vigore nel prossimo futuro per disciplinare in modo uniforme ed organico la materia.

L’art. 2.2.3 del regolamento definisce come “sperimentazione clinica a basso livello di intervento” l’attività che segue: “una sperimentazione clinica che soddisfa tutte le seguenti condizioni: a) i medicinali sperimentali, ad esclusione dei placebo, sono autorizzati; b) in base al protocollo della sperimentazione clinica, i) i medicinali sperimentali sono utilizzati in conformità alle condizioni dell’autorizzazione all’immissione in commercio; o ii) l’impiego di medicinali sperimentali è basato su elementi di evidenza scientifica e supportato da pubblicazioni scientifiche sulla sicurezza e l’efficacia di tali medicinali sperimentali in uno qualsiasi degli Stati membri interessati; e c) le procedure diagnostiche o di monitoraggio aggiuntive pongono solo rischi o oneri aggiuntivi minimi per la sicurezza dei soggetti rispetto alla normale pratica clinica in qualsiasi Stato membro interessato”.

Qui il punto cui fare attenzione è la lettera c): come si è già avuto modo di accennare, dopo la concessione dell’autorizzazione condizionata, le case farmaceutiche – insieme al SSN – stanno proseguendo nella raccolta di dati clinici sui vaccini, ad esempio sugli effetti avversi, per completare il fascicolo sugli effetti a medio periodo del farmaco che consentirà la concessione dell’autorizzazione ordinaria. Orbene: se la procedura di raccolta dati implica procedure diverse (e ulteriori) rispetto a quelle di normale farmacovigilanza per i farmaci autorizzati ordinariamente, è legittimo sostenere che vi sia “monitoraggio aggiuntivo” rispetto alla normale pratica clinica dello stato membro. E se vi è un monitoraggio aggiuntivo, ricadremmo allora nell’ambito della definizione di sperimentazione a basso livello di intervento secondo il regolamento e – di conseguenza – i vaccini autorizzati in via condizionata sarebbero annoverabili tra i farmaci sperimentali.

A tale riguardo può essere allora il caso di segnalare che il regolamento N. 507/2006 della Commissione del 29 marzo 2006 sulle autorizzazioni in deroga dei farmaci dispone – all’art. 5 – che “Il titolare di un’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata ha l’obbligo specifico di completare gli studi in corso o di condurre nuovi studi al fine di confermare che il rapporto rischio/beneficio è positivo e di fornire i dati supplementari di cui all’articolo 4, paragrafo 1. Possono essere imposti obblighi specifici anche in relazione alla raccolta di dati di farmacovigilanza. 2. Gli obblighi specifici di cui al paragrafo 1 e il calendario per soddisfarli sono chiaramente precisati nell’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata. 3. Gli obblighi specifici e il calendario per soddisfarli sono resi pubblici dall’Agenzia”. Questo significa, in sostanza – che per capire se i cosiddetti vaccini covid sono ancora in corso di sperimentazione (a basso livello di intervento) secondo il regolamento UE n. 536/2014 – occorre capire se, nel concedere le autorizzazioni condizionate per questi vaccini, sono stati previsti dall’ente regolatore specifici obblighi di monitoraggio: se la risposta è sì, sono farmaci sperimentali, altrimenti no.

Assume dunque rilevanza in tal senso quello che si legge in questa dichiarazione ufficiale pubblicata dalla Commissione Europea, in particolare nelle frasi che seguono: “Inoltre, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) e l’Agenzia europea per i medicinali (EMA), in stretta collaborazione con la Commissione, gli Stati membri e i partner europei e internazionali, stanno istituendo attività rafforzate di monitoraggio per l’efficacia, la copertura, la sicurezza e l’impatto dei vaccini, compresi studi specifici per i vaccini anti-covid-19. Questi studi di monitoraggio supplementari e indipendenti vengono proposti per raccogliere e analizzare i dati sulla vaccinazione forniti dalle autorità pubbliche di tutti gli Stati membri sull’efficacia e la sicurezza dei vaccini. Gli studi contribuiranno a definire la sicurezza e l’efficacia del vaccino durante il suo ciclo di vita. Questi dati supplementari possono essere utilizzati anche per integrare eventuali azioni normative, ad esempio modifiche delle condizioni d’uso, avvertenze e relative modifiche delle informazioni sul prodotto per gli operatori sanitari e i pazienti” (n.d.r. le enfasi sono aggiunte). Insomma, pare proprio che – quanto meno stando a sentire la stessa Commissione UE – per i vaccini di cui stiamo parlano sono state previste procedure di monitoraggio aggiuntive rispetto a quelle per altri farmaci (e, per quanto si legge, anche rispetto a quella per altri vaccini) di guisa che – fino alla concessione dell’AIC ordinaria – i vaccini autorizzati in via condizionata potrebbero ben considerarsi come farmaci sottoposti a sperimentazione clinica a basso livello di intervento, ai sensi del regolamento 536/2014.

L’impressione resta confermata quando scendiamo nel dettaglio dei singoli casi ed esaminiamo le autorizzazioni condizionate concesse sui vaccini. Se prendiamo ad esempio l’AIC di Moderna [in italiano], leggiamo – inter alia – quanto segue: “OBBLIGO SPECIFICO DI COMPLETARE LE ATTIVITÀ POST-AUTORIZZATIVE PER L’AUTORIZZAZIONE ALL’IMMISSIONE IN COMMERCIO SUBORDINATA A CONDIZIONI. La presente autorizzazione all’immissione in commercio è subordinata a condizioni; pertanto ai sensi dell’articolo 14 a del Regolamento 726/2004/CE e successive modifiche, il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio deve completare, entro la tempistica stabilita, le seguenti attività: Descrizione Tempistica Al fine di completare la caratterizzazione del principio attivo e dei processi di produzione del prodotto finito, il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio deve fornire dati aggiuntivi. Gennaio 2021 Al fine di confermare la coerenza del principio attivo e del processo di produzione del prodotto finito (scale iniziali e finali), il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio deve fornire dati aggiuntivi di comparabilità e validazione. Aprile 2021 I rapporti ad interim saranno forniti su base mensile prima di tale data. Al fine di garantire una qualità costante del prodotto, il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio deve fornire informazioni aggiuntive sulla stabilità del principio attivo e del prodotto finito, ed esaminare il principio attivo e le specifiche del prodotto finito a seguito di ulteriori esperienze di produzione. Giugno 2021 Al fine di confermare l’efficacia e la sicurezza di COVID-19 Vaccine Moderna, il titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio deve presentare la Relazione finale dello studio clinico per lo studio mRNA- 1273-P301 randomizzato, controllato con placebo, in cieco per l’osservatore Dicembre 2022”. Si noti che lo stesso tipo di sperimentazione aggiuntiva (dunque anche quella che consiste in uno studio clinico randomizzato verso placebo in cieco) è prevista per il vaccino Pfizer.

L’esame delle specifiche AIC conferma che una serie di specifiche attività aggiuntive di monitoraggio degli effetti dei vaccini – rispetto a quanto accade con le autorizzazioni ordinarie – sono state previste dall’ente regolatore a carico dei produttori in sede di concessione dell’autorizzazione condizionata. E risulta anche – in particolare – che almeno una di queste attività di verifica aggiuntiva – consistendo in uno “studio clinico randomizzato, controllato con placebo, in cieco per l’osservatore” – presenti tutti i crismi per essere considerata una forma di sperimentazione clinica propriamente detta. Le considerazioni che precedono portano dunque a concludere che – sulla base di una interpretazione del concetto di farmaco sperimentale che voglia restare coerente col diritto regolatorio farmaceutico applicabile nel nostro paese (sia quello di fonte nazionale attualmente in vigore, sia quello dell’UE attualmente in vigore e sia infine quello di prossima entrata in vigore) – i cosiddetti vaccini contro il covid, sino all’avvenuta concessione dell’AIC definitiva, sono farmaci soggetti ad attività di sperimentazione sia clinica sia clinica a basso livello di intervento. Il che consentirebbe di classificarli come farmaci sperimentali.

Ma l’esame non può esaurirsi qui, giacché – come si diceva – il diritto si deve interpreta a seconda della funzione delle norme che si applicano. E nel caso dei vaccini anti-covid, in realtà, il dibattito sulla “sperimentalità” sorge essenzialmente per verificare l’applicabilità di alcuni principi e norme – costituzionali e di diritto internazionale – che prevedono dei limiti per i pubblici poteri di imporre obblighi di somministrazione di farmaci sperimentali.

Per completare l’indagine, dunque, occorre capire se la nozione di farmaco sperimentale desumibile dall’esame delle fonti di diritto regolatorio farmaceutico consente di soddisfare la ratio delle norme che prevedono quelle forme di cautela per la somministrazione di farmaci sperimentali. E qui occorre partire dalla considerazione che tanto le norme internazionali anzidette quanto quelle, di diritto farmaceutico, che disciplinano l’attività di sperimentazione  – sono accomunate dal fatto di ispirarsi al principio di piena volontarietà del consenso, in forza del quale – chi assume questa particolare categoria di farmaci – deve aver maturato la propria decisione in piena libertà, ossia – per un verso – dopo aver ottenuto una corretta, veritiera e adeguata informazione sulle possibili conseguenze per la sua salute e – per altro verso – senza aver subito coartazioni o pressioni di alcun genere per indurlo ad assumerlo. Si noti infatti che alcune delle normative di diritto regolatorio UE e nazionale citate in precedenza contengono disposizioni relative alla necessità del consenso informato di chi è coinvolto nell’attività di sperimentazione dei farmaci.

Questo consente di sostenere che tutte queste normative – tanto quelle regolatorie quanto quelle, di natura costituzionale o di fonte internazionale, che pongono limiti alla potestà degli stati di imporre la somministrazione di farmaci sperimentali – sono tutte quante ispirate a un principio di massima precauzione, mirando in ultima analisi a tutelare i cittadini, ma anche la salute pubblica, contro i rischi generati dal fatto che un farmaco ancora in fase di sperimentazione presenta normalmente dei margini di rischio per la salute superiori rispetto a quelli relativi a farmaci già completamente sperimentati, di guisa che nessuno deve essere in qualche modo costretto o indotto a esporsi a quel rischio se non in piena ed assoluta libertà e dopo una corretta informazione sulle possibili conseguenza dell’assunzione. Se però questa è la prospettiva comune che ispira tutte le norme di cui stiamo parlando (sia quelle di fonte internazionale e/o costituzionali, sia quelle contenute in norme di diritto regolatorio) è allora possibile considerare come farmaco sperimentale, ai fini dell’applicazione di tutte queste norme (dunque anche di quelle non regolatorie), ogni sostanza che contiene un principio attivo che – secondo l’ordinamento applicabile nello stato di riferimento – non si può considerare abbastanza sicuro da poter essere messo in commercio su larga scala senza la necessità di condurre ulteriori studi.

Se le cose stanno in questi termini, la “sperimentalità” di un farmaco autorizzato in via condizionata negli stati dell’UE (e in Italia) potrebbe allora essere fatta discendere dalla constatazione che, nonostante la concessione dell’autorizzazione condizionata, questi farmaci devono comunque ottenere – sulla base di studi degli effetti a medio periodo e di sperimentazioni cliniche aggiuntive (che, come si è visto poc’anzi, nel caso di due vaccini contro il covid includono uno “studio clinico randomizzato, controllato con placebo, in cieco per l’osservatore”) – una successiva autorizzazione definitiva, che ha lo specifico scopo di confermare la sicurezza del farmaco stesso, certificata dall’AIC definitiva.

E qui il diavolo, come spesso accade con le questioni legali, sta nei dettagli: i vaccini anti-covid hanno infatti superato anche la cosiddetta fase 3 della sperimentazione clinica, dunque – per capire si tratta di farmaci ritenuti dal legislatore sicuri “come” gli altri farmaci, vale a dire quelli autorizzati in via ordinaria – occorrerebbe condurre una analisi differenziale tra gli studi richiesti alle case farmaceutiche per la concessione dell’autorizzazione definitiva e quelli solitamente richiesti per i farmaci a valle della concessione di una autorizzazione ordinaria. Se vi è una significativa differenza, nel senso che per le autorizzazioni condizionate in genere (o per quelle sui vaccini in particolare) vengono (o sono state specificamente) richieste verifiche aggiuntive rispetto a quelle per i farmaci ordinari, questo sarebbe un indizio nel senso della minore sicurezza del farmaco autorizzato in via condizionata rispetto al farmaco autorizzato in via ordinaria (dunque del fatto che il primo sia un farmaco sperimentale ai fini delle norme che vietano obblighi di somministrazione senza il consenso del soggetto che riceve il farmaco). Se invece gli studi post-autorizzazione che sono stati richiesti per i vaccini anti-covid sono sostanzialmente i medesimi rispetto a quelli normalmente richiesti per i farmaci autorizzati in via ordinaria, se ne dovrebbe concludere che la sicurezza di questi farmaci sia analoga rispetto ai farmaci autorizzati in via ordinaria (e che dunque i vaccini contro il covid non sono sperimentali ai fini dell’applicazione delle norme di cui stiamo discutendo).

Nel contesto di un’analisi che voglia tuttavia essere davvero “sostanziale” non possono tuttavia essere trascurati due argomenti. Il primo è che lo stesso fatto che esista una autorizzazione condizionata (anticipata) concessa solo in situazioni particolari, più rapida e diversa rispetto a quella definitiva, potrebbe confermare che – in astratto – si tratta di una autorizzazione che (proprio perché più rapida) garantisce un margine minore di sicurezza rispetto ad un farmaco autorizzato in via ordinaria. In sostanza: un farmaco autorizzato in via condizionata dovrebbe in certa misura “presumersi” meno sicuro rispetto a quelli autorizzati in via ordinaria. Che dunque i farmaci autorizzati in deroga siano in certa misura più rischiosi di quelli autorizzati in via ordinaria è difficile da negare (altrimenti non avrebbe senso concedere autorizzazioni condizionate), restando semmai da capire in quale misura essi siano più pericolosi (e – soprattutto – se questa misura può essere ritenuta a sua volta tale da far scattare i divieti di coercizione alla loro sperimentazione).

A tale ultimo riguardo, potrebbe allora assumere rilevanza il fatto che le case farmaceutiche abbiano preteso dagli Stati un manleva che li mettesse al riparo da pretese relative ai danni da effetti avversi (e che gli Stati l’hanno concessa). Per altro verso, qui da noi in Italia, per lo specifico caso dei vaccini contro il covid è stato previsto anche uno scudo penale (in particolare una specifica causa di non punibilità per lesioni colpose e omicidio colposo), derogando – con una norma eccezionale – alle disposizioni del nostro codice penale. Orbene: nessuna di queste cautelare viene predisposta in relazione ai farmaci autorizzati in via ordinaria, dunque dimostrando che tanto le case farmaceutiche quanto gli stati temono gli effetti collaterali di questi vaccini in misura sensibilmente maggiore di quanto non temano gli effetti collaterali dei farmaci autorizzati in via ordinaria. Ma, si badi bene, pare che li temano anche in misura maggiore rispetto ad altri farmaci autorizzati in deroga, per i quali a chi scrive non consta che, in passato, siano mai stati previsti scudi penali o manleve eccezionali di tale incisività. La prudenza mostrata dalle case farmaceutiche (così come, se possibile ancora più significativa, la ampia disponibilità dello stato a concedere “salvacondotti” in relazione ai danni da effetti avversi dei vaccini) non può dunque essere ignorata, rappresentando un forte argomento “sostanziale” a conferma del fatto che, con i vaccini anti-covid autorizzati in deroga, un rischio maggiore per la salute dei cittadini non solo esiste, ma deve ritenersi tutt’altro che remoto o trascurabile.

Quest’ultima considerazione confermerebbe insomma – per comportamenti concludenti – la tesi, già sostenibile sulla base dell’esame delle norme di diritto regolatorio farmaceutico, per cui i cosiddetti vaccini anti-covid sarebbero non solo farmaci sperimentali, ma anche farmaci che – rispetto a quelli autorizzati in via ordinaria – sono connotati da un grado di rischio aggiuntivo per la salute di entità tale da consentire l’applicazione delle norme in tema di necessità, per la loro somministrazione, di un consenso libero e informato di chi riceve il corrispondente trattamento.

A conclusione di questo lungo e complesso discorso è possibile affermare che esistono degli argomenti – desumibili tanto dal diritto regolatorio farmaceutico UE e nazionale quanto dalla ratio delle norme che pongono limiti alle sperimentazioni farmaceutiche senza il pieno e libero consenso di chi riceve il farmaco – per sostenere che, sino all’avvenuta concessione delle AIC definitive, i vaccini anti-covid rientrino nella categoria dei farmaci sperimentali, così come per sostenere che una parte delle attività di verifica alle quali questi vaccini sono soggetti in vista dell’ottenimento dell’autorizzazione definitiva al commercio rientrino nel concetto di attività sperimentale (sotto il profilo della sperimentazione clinica propriamente detta, o come sperimentazione clinica a basso livello di intervento o come sperimentazione non interventistica). Infine, vi sono argomenti anche per sostenere che questi vaccini presentino apprezzabili margini di rischio per la salute rispetto ai farmaci autorizzati in via ordinaria (ma, forse, anche rispetto ad altri farmaci autorizzati in deroga in passato). Tutto questo induce a supporre che si tratti di farmaci che potrebbero anche rientrare nel concetto di farmaco o trattamento sperimentale rilevante ai fini dell’applicazione delle normative che – a diverso titolo e con diversa fonte – impongono ai pubblici poteri restrizioni e limiti all’imposizione di obblighi di somministrazione. Del resto è verosimile supporre che proprio simili considerazioni abbiano sinora consigliato al Governo estrema prudenza nel porre degli obblighi vaccinali generalizzati, preferendovi l’escamotage della pressione indiretta via green pass.