Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

La temperatura dell’epidemia è tornata a diminuire. Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 18 febbraio) il termometro segna 78.8 gradi pseudo-Kelvin ed è in diminuzione di 1.3 gradi.

Il miglioramento è dovuto al calo dei nuovi contagi (nell’ultima settimana si sono registrati 74 mila nuovi casi rispetto ai 78 mila della settimana precedente) e ad una diminuzione più lieve dei decessi (2.1 mila decessi settimanali rispetto ai 2.4 mila della settimana precedente). Continuano a rimasti stabili gli ingressi ospedalieri stimati.

La riduzione settimanale della temperatura è pari a -6.3 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

La temperatura dell’epidemia è stata calcolata considerando i soli casi identificati mediante test molecolare.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Fake news e distorsione delle percezioni

Le distorsioni della realtà dovute a percezioni parziali e deformate degli accadimenti e dei più rilevanti fenomeni non sono certo una novità, dall’avvento della società di massa. Già all’inizio del secolo scorso molti psicologi e sociologi si interrogavano sulla formazione delle opinioni, sottolineando come nel giudicare un fenomeno contasse a volte più l’opinione che si aveva della realtà che la realtà stessa. L’opinione, come argomentava un secolo fa il politologo Walter Lippmann, non è altro che il frutto della percezione della realtà filtrata da un ambiente cognitivo formato da stereotipi, da visioni semplificate e parziali della realtà. Con l’avvento dei social media, come noto, questo processo è divenuto talmente pervasivo che ha finito per influenzare in maniera decisiva la costruzione sia della personalità individuale che di quella collettiva.

E le fake news, sempre più presenti sul Web per screditare la parte avversa e rinforzare le proprie credenze, sono divenute nel tempo una sorta di informazione alternativa cui si ricorre aprioristicamente e acriticamente per convincersi di essere “nel giusto”, andando solo raramente a identificare la bontà e la correttezza delle fonti. Il motivo pare evidente: le notizie che confermano il proprio pregiudizio, vere o false che siano, vengono credute, condivise e propagate in rete, all’interno della “bolla” delle amicizie sui social; il contrario accade per quelle che smentiscono la propria opinione, che vengono considerate non veritiere, messe in discussione sebbene ci siano evidenti prove a loro sostegno. Non si mette in discussione la propria percezione dei fatti, ma i dati reali: è la percezione che vince sui fatti.

Una logica talmente evidente che anche la “scelta” di quale virologo fidarsi (e affidarsi) trae origine dalla propria percezione della pandemia: se non vogliamo più lockdown, scegliamo quello che afferma che il virus è ormai sotto controllo; se siamo dell’avviso che non sono prudenti le riaperture incontrollate, optiamo con chi ci dice che il peggio deve ancora venire.

A corollario, in una recente indagine Ipsos, è stato chiesto agli italiani se a loro parere i nostri concittadini siano in grado di distinguere le notizie false da quelle vere: secondo quasi il 65% degli intervistati “gli altri” non sono capaci di differenziarle correttamente. Ma alla domanda successiva: “Lei personalmente è in grado di farlo?”, in questo caso la stragrande maggioranza è convinto di riuscire ad identificare la presenza di una fake news, mentre soltanto il 30% dichiara la propria difficoltà a farlo.

E il tema delle falsità che circolano in Rete non è certo marginale, capace com’è di influenzare i cittadini in scelte a volte cruciali, come quella elettorale. Nel corso dell’ultima campagna presidenziale Usa, si è stimato che siano circolate sul Web circa otto milioni di notizie false, contro i sette milioni di notizie corrette e verificabili. Una sproporzione quasi agghiacciante, ma che non desta particolari reazioni nei gestori delle diverse piattaforme social.

Ma qual è il motivo per cui il dato percettivo, emozionale è così rilevante? Perché oggi, nella costruzione della propria personalità, la piramide di un tempo si è quasi capovolta. Fino a qualche decennio fa, le credenze individuali e collettive si basavano in primo luogo sui tratti valoriali che venivano introiettati attraverso la socializzazione primaria e secondaria, difficilmente modificabili; su questi si costruivano i solidi atteggiamenti di base nei confronti delle strutture sociali esistenti, da cui derivavano le più aleatorie opinioni, suscettibili di possibili cambiamenti più rapidi, a seconda dei diversi accadimenti, e infine le emozioni, reazioni a volte effimere di fronte a notizie o dichiarazioni di diversi attori sociali.

Oggi, come si diceva, questa sorta di piramide appare sempre più rovesciata: avendo perso rilevanza la struttura valoriale, l’ideologia di fondo, in una società sempre più atomizzata, sono le emozioni, le percezioni, quelle che presiedono alla costruzione della propria personalità; su queste nascono le opinioni prevalenti, gli atteggiamenti e infine i valori di riferimento. Ma se le emozioni si basano su fake news, su dati inattendibili, ne consegue che si sedimentano e divengono prevalenti opinioni e atteggiamenti totalmente scollegati dalla realtà vera, che però vengono alimentate nel tempo da ulteriori fake news; queste ultime non “possono” venir smentite, pena la perdita dei propri ancoraggi e la conseguente confusione della propria soggettività.

Una volta costruita una echo chamber di riferimento, le false notizie vengono accettate supinamente per consolidare quella appartenenza, almeno fino al momento in cui nuove emozioni creeranno una nuova piramide. Se le opinioni sono volatili, tra i comuni cittadini così come tra gli stessi politici, non così la percezione di sé, che subisce una sorta di auto-inganno per conservare una ipotetica coerenza della propria personalità.

In un interessante esperimento effettuato qualche anno fa, si chiedeva agli intervistati la propria opinione su un tema che sarebbe stato discusso in un talk show televisivo. Una volta terminata la trasmissione, si riponeva agli stessi intervistati l’identica domanda, per verificare se la discussione televisiva avesse fatto mutare la loro opinione. A volte si registrava un cambiamento del 30-40% rispetto alla prima intervista ma, invitati a dichiarare se avessero cambiato opinione, soltanto il 3-4% affermava di averlo fatto.

La estrema volatilità elettorale, i repentini mutamenti nella fiducia per i diversi leader, il rapido cambiamento delle opinioni sui temi sociali e politici sono la evidente conseguenza della fragilità delle personalità individuali e collettive.

Le percezioni diffuse dunque sono le leve che permettono alle fake news di venir accettate come vere. Percezioni della realtà che, come si diceva, sono spesso scollegate dalla realtà stessa ma, nondimeno, tratteggiano una sorta di mondo parallelo su cui costruire le proprie opinioni, atteggiamenti e valori. E conseguenti comportamenti.

Qualche anno fa è stata effettuata da Ipsos un’indagine in contemporanea in 14 paesi, chiedendo a campioni rappresentativi delle rispettive popolazioni una serie di domande sulla situazione del proprio paese in merito a diversi temi. Infine, è stata calcolato un “indice di ignoranza”, derivato dalla distanza tra i dati reali e i dati percepiti dagli intervistati. L’Italia è risultata in prima posizione assoluta, seguita da Stati Uniti, Corea del sud e Polonia, mentre nelle ultime posizioni (cioè i cittadini più informati) si situavano Svezia, Germania, Giappone e Spagna.

Nella tabella seguente sono presentati i dati riguardanti il nostro paese, per i principali temi affrontati, che ci dipingono una cittadinanza con percezioni della realtà gravemente distorte, conseguenza evidente del combinato di fake news, credenze falsate e storytelling del mondo politico.




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 17 febbraio) la temperatura dell’epidemia è rimasta invariata a 80.1 gradi pseudo-Kelvin.

La stazionarietà della temperatura dipende da due dinamiche opposte: la diminuzione dei nuovi contagi è stata controbilanciata da un leggero aumento dei decessi. Sono rimasti sostanzialmente stabili gli ingressi ospedalieri stimati.

La riduzione settimanale della temperatura è pari a -4.4 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

La temperatura dell’epidemia è stata calcolata considerando i soli casi identificati mediante test molecolare.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Anche oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 16 febbraio) la temperatura dell’epidemia è diminuita di poco più di un grado, passando da 81.3 a 80.1 gradi pseudo-Kelvin (-1.2).

Come ieri, questa diminuzione si deve al miglioramento di tutte e tre le componenti che concorrono al calcolo dell’indice. Calano i nuovi contagi (nell’ultima settimana si sono registrati 76 mila nuovi casi rispetto ai 77 mila della settimana precedente), i decessi (2.1 mila decessi settimanali rispetto ai 2.6 mila della settimana precedente) e gli ingressi ospedalieri stimati.

La riduzione settimanale della temperatura è pari a -6.1 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

La temperatura dell’epidemia è stata calcolata considerando i soli casi identificati mediante test molecolare.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Modello orientale?

La politica sanitaria del governo Conte bis “ha causato decine di migliaia di morti e affossato l’economia”.

Potrebbe essere un riassunto, rozzo e semplicistico, del mio ultimo libro (La notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia). E invece no. Ora a riconoscere questi due tristissimi fatti – le vite umane perdute, i punti di Pil bruciati – è nientemeno che Walter Ricciardi, il consulente principe del ministro Speranza, che ci spiega che “nel precedente governo” il ministro stesso “trovava un muro”, perché a prevalere era “la linea di chi voleva convivere con il virus”.

Nella sostanza, un atto di accusa gravissimo verso il ministro della salute. Se è vero che, fin da ottobre, il consulente lo avvertiva della pericolosità della linea sanitaria adottata, e se è vero che il ministro ne condivideva analisi e suggerimenti, allora come ha fatto, il ministro stesso, ad avallare una linea che avrebbe “causato decine di migliaia di morti e affossato l’economia” ?

Volendo lasciar da parte il passato (peraltro greve di responsabilità, di cui mi auguro che a un certo punto qualcuno si faccia carico), ora che Draghi sta per enunciare il suo programma ci piacerebbe che venisse finalmente detta una parola chiara sulla politica sanitaria svolta finora e su quella futura. Perché, arrivati a questo punto, noi italiani siamo davanti a un paradosso davvero singolare. Da una parte, un ministro della sanità che viene confermato non si sa se per proseguire o per capovolgere la disastrosa politica sanitaria adottata fin qui. Dall’altra, un coro di critiche diametralmente opposte: per buona parte della destra il disastro è stato chiudere troppo, per Ricciardi e per la maggior parte degli studiosi indipendenti il disastro – se mai – è stato chiudere troppo tardi e troppo poco.

Ciò detto, il j’accuse retrospettivo di Ricciardi è comunque più che mai opportuno e saggio. Aspettavamo da mesi un discorso del genere, chiaro e coraggioso, che mettesse finalmente i cittadini di fronte alla grave situazione che abbiamo davanti: il piano di vaccinazione che ritarda, e l’incubo delle varianti emergenti.

Ma è sui modi che abbiamo per uscirne, che dobbiamo interrogarci. Ricciardi propone l’abbandono del protocollo occidentale (che persegue la mitigazione dell’epidemia) a favore del protocollo orientale e dell’emisfero Sud (che persegue la soppressione del virus). Un cambio di passo davvero decisivo, una clamorosa inversione di rotta, cui personalmente non posso che plaudire, come non possono che plaudire quanti, come  gli studiosi di Lettera 150, lo hanno invocato fin dalla primavera scorsa.

I cardini del passaggio, secondo Ricciardi, dovrebbero essere tre: “lockdown breve e mirato, tornare a testare e tracciare, vaccinare a tutto spiano”. Ed è qui la domanda nevralgica: è questa la sostanza del protocollo dei paesi lontani, dal Giappone alla Corea del Sud, dall’Australia alla Nuova Zelanda, che ce l’hanno fatta a ridurre quasi a zero la circolazione del virus? (lascio volutamente fuori dalla lista la Cina, che Ricciardi evoca ma, in quanto dittatura, è un modello improponibile in un paese democratico).

A me sembra che il modello dei paesi lontani sia molto più complesso. Intanto, ovviamente, i vaccini non potevano far parte delle loro armi di difesa; e poi, non esiste una ricetta unica di quei paesi; infine, il lockdown assai raramente costituisce l’ingrediente fondamentale.

Il lockdown può anche diventare assolutamente necessario (come lo è oggi in Italia), ma non è la via maestra per la soppressione del virus. È il primo e doveroso passo, a cui però vanno affiancate altre misure, senza le quali si rischia un ulteriore fallimento.

Le ricette dei paesi lontani hanno due ingredienti basilari comuni: il controllo rigoroso delle frontiere da parte del governo, e il rispetto scrupoloso delle regole di distanziamento e autoprotezione da parte dei cittadini, entrambe condizioni che in Italia non si sono mai verificate.

E hanno poi ingredienti specifici, altrettanto basilari: il tracciamento elettronico (anche a scapito della privacy), l’uso sistematico e generalizzato delle mascherine, la stretta sorveglianza sul rispetto della quarantena, i tamponi di massa, e infine, sì, i lockdown duri e circoscritti. Ogni paese ha scelto un mix diverso dei vari ingredienti, ma il punto è che tutti hanno messo in campo più di un tipo di misura, perché una o due misure soltanto non bastano.

E noi? Facciamoci qualche domanda. Noi saremmo disposti a rinunciare alla privacy e lasciarci tracciare, rispettare rigorosamente le regole, indossare sempre le mascherine FFP2, sugli autobus, nei negozi, per strada? Saremmo disposti a controllare le frontiere (e chiuderle addirittura, in alcuni casi), nei modi in cui avviene per esempio in Giappone, dove i viaggiatori che arrivano in aeroporto vengono sottoposti a test in entrata e in uscita, e il governo pretende di sorvegliare la quarantena con il Gps?

Non è un caso che noi europei, noi occidentali, abbiamo perseguito il modello del mitigare e non quello del sopprimere, ovvero, per dirla con una formula che ormai ci è familiare: noi europei abbiamo scelto la filosofia del “convivere col virus”. Filosofia che ora, di fronte alle varianti pericolose che ci invadono, ci rendiamo conto che non può più funzionare.

Se ora volessimo davvero cambiare modello, dovremmo smettere i panni europei, la mentalità occidentale e, non dico diventare orientali, ma almeno provarci.

Quel che voglio dire è che un lockdown duro ora non basta. Ben venga, anche se – non mi stancherò mai di dirlo – il lockdown non è la soluzione, bensì semplicemente il certificato di fallimento della politica sanitaria. Ben venga, perché arrivati a questo punto, non ha alternative: ma deve più che mai, ora, accompagnarsi all’attuazione di molte, se non tutte, le altre misure di contenimento e prevenzione. Soprattutto perché la campagna vaccinale non potrà avere effetti apprezzabili prima dell’estate, e più che mai ove tale campagna dovesse subire ulteriori ritardi; e perché intanto le varianti ad alta trasmissibilità accelerano la circolazione del virus. In questa situazione, un inasprimento delle misure attuali non accompagnato da tutto il resto non basterà certo a sradicare il virus.

Questo ci aspettiamo che il nuovo governo ci sappia indicare, con chiarezza e coraggio. Perché la delusione più grande sarebbe ascoltare l’ennesima ripetizione della promessa di “fare tutti gli sforzi per accelerare la campagna vaccinale”, magari accompagnata da qualche concessione alla linea della prudenza, ma senza un chiaro e dettagliato cronoprogramma su tutto quel che ancora non si è fatto, o si è appena iniziato a fare.

Pubblicato su Il Messaggero del 16 febbraio 2021