Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Anche oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 12 novembre) la temperatura dell’epidemia è salita, ma ad un ritmo più contenuto rispetto ai giorni scorsi. Il termometro di oggi segna 213.5 gradi pseudo-Kelvin ed è in aumento di 3.5 gradi.

Questo risultato è dovuto principalmente al cattivo andamento dei nuovi contagi (+241 mila nell’ultima settimana; il tasso di positività è pari al 16.1%, in aumento rispetto a ieri). Significativo è anche l’aumento dei decessi (+3.3 mila negli ultimi sette giorni). Per la prima volta da settembre gli ingressi ospedalieri stimati sono in calo.

L’aumento settimanale della temperatura è pari a +37.5 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Come si fa a combattere la paura? Intervista a Luca Ricolfi

Intervistato dalla Verità, Vittorio Sgarbi dice che si sarebbe dovuta condurre una campagna di comunicazione “positiva” contro il virus. È d’accordo?
In parte sì, e in parte no. Dove sono pienamente d’accordo è quando dice “il governo doveva contenere la malattia, non drammatizzarla”. Perché se il governo, pluri-avvertito e pluri-consigliato dagli studiosi negli ultimi 6 mesi, avesse fatto il suo dovere sui 10 punti della nostra petizione, la malattia sarebbe stata contenuta, non avremmo avuto la seconda ondata, e oggi non ci sarebbe paura. E, in assenza di paura, l’economia girerebbe a regime quasi pieno, compresi musei, scuole ed eventi culturali.
Il mio dissenso con Sgarbi è tecnico, non ideologico. Secondo me la paura non si combatte dando credito agli esperti più tendenziosi e riduzionisti, tipo Zangrillo e Bassetti, ma eliminando alla radice le due paure fondamentali, che sono quella di infettarsi e, ancor più, quella di essere completamente abbandonati al mostro kafkiano della burocrazia sanitaria digitalizzata in caso di infezione. Se sapessimo che il rischio di infezione è molto basso, e che in caso di infezione ai primi sintomi qualcuno verrebbe a casa a visitarci e curarci, avremmo pochissima paura, vivremmo quasi normalmente, e non intaseremmo i pronto soccorso.

Perché il governo sente la necessità di terrorizzare gli italiani?
E’ ovvio: perché l’unica cosa in cui sono maestri è rinchiuderci, e pensano che solo se siamo terrorizzati a dovere obbediremo.

La Fondazione Hume e Lettera 150 hanno sottoposto al governo 10 cose da fare e che il governo non ha fatto. A quali si sarebbe dovuto dare la precedenza?
Intanto vorrei sottolineare la natura bipartisan della petizione, arrivata a 13 mila firme, che sta raccogliendo consensi da persone di tutti gli orientamenti politici.
A mio parere le cose non fatte più importanti sono due. Primo, l’attivazione dei medici di base con dispositivi di protezione, strumenti per effettuare i tamponi, e soprattutto un protocollo di intervento al primo apparire dei sintomi. Secondo, attuazione del piano Crisanti per portare il numero di tamponi per abitante a livelli europei (almeno 3 volte i livelli degli ultimi mesi).

Il governo è ancora in tempo per realizzarle ancora?
No, ormai la situazione è sfuggita di mano. Si può solo sperare che, nonostante sia troppo tardi, faccia ugualmente quel che andava fatto nei mesi estivi. Perché ormai il problema non è evitare la seconda ondata, ma porre le condizioni per evitare la terza, inevitabilmente seguita dall’ennesimo lockdown: una vera catastrofe per l’economia.

Se il governo avesse agito per tempo, oggi in quali condizioni ci troveremmo?
Saremmo tranquillissimi perché i nuovi casi giornalieri sarebbero poche centinaia, nessuno sarebbe terrorizzato, e la gente saprebbe che in caso di infezione non sarà abbandonata.

Nessuno vieta di guidare l’auto per evitare incidenti: come si può applicare questo principio alla lotta contro il virus?
E’ semplice: portando il numero di contagiati e il numero di morti da Covid-19 a livelli paragonabili (o inferiori) a quelli degli incidenti automobilistici. E’ perfettamente possibile e, come Fondazione Hume, abbiamo anche delle ipotesi sui valori soglia da adottare.

Il vostro approccio è stato applicato in qualche Paese del mondo? E là come vanno le cose?
Non esiste un approccio della Fondazione Hume, ma esistono tesi che quasi tutti gli esperti indipendenti sostengono, e che in alcuni paesi sono state prese sul serio.

Ad esempio?
Ad esempio l’importanza di tenere il numero dei casi giornalieri abbastanza basso da consentire il tracciamento (cavallo di battaglia del prof. Andrea Crisanti): una strategia che presuppone un numero di tamponi per abitante triplo rispetto a quello italiano, e un sistema di tracciamento tempestivo e non fallimentare come quello di IMMUNI.
Fra i 30 paesi di tradizione occidentale sono circa la metà quelli che hanno applicato strategie sensate, e ora non sono investiti da una seconda ondata paragonabile alla prima. In Europa: Germania, Danimarca, Finlandia, Norvegia, Irlanda ma in parte anche Grecia e Svezia. Fuori dell’Europa: Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Corea del Sud, Singapore, Taiwan. La più grossa bugia dei maggiori governi europei è stata di presentare l’epidemia come una catastrofe inevitabile e ingovernabile, anziché come un evento che poteva essere fronteggiato.

Lei insegna analisi dei dati. Che cosa pensa della divisione dell’Italia in zone colorate in base a dati e parametri sconosciuti?
Intanto dico che la sbandierata trasparenza non sussiste, perché i dati sulla cui base si decide sono pubblici, ma l’algoritmo che li trasforma in zone non è pubblico (se lo è, ci dicano dove trovarlo!). E’ come se uno dicesse: decido se uscire di casa oppure no in base a umidità e temperatura, ma non vi dico come combino queste due informazioni per prendere la decisione.
Anche su questo punto, comunque, la penso come Sgarbi, che parla di misure diverse all’interno delle singole regioni. La zonizzazione per regioni o macro-zone poteva avere un senso nel primo lockdown, quando la propose inascoltato il Comitato Tecnico Scientifico sulla base dell’ovvia considerazione che la situazione del Sud era completamente diversa da quella del resto d’Italia. Ora, ammesso che si abbiano gli strumenti per differenziare (cosa non chiara, perché i dati comunali sono secretati), forse avrebbe più senso imporre misure diversificate all’interno di ogni regione, su base comunale.
Ma la dura realtà è che è troppo tardi: quel che era razionale e fattibilissimo ancora 1-2 mesi fa, ora è maledettamente difficile perché il governo ha fatto pochissimo quando era ancora in tempo, e si è ostinato a non riconoscere il rapido deterioramento della situazione quando – all’inizio di ottobre –  la seconda ondata in arrivo era chiaramente visibile all’orizzonte.
E’ la nostra disgrazia: i nostri governanti non sono semplicemente incapaci, purtroppo sono anche un po’ struzzi. E’ ingenuo credere che loro sappiano la verità ma non ce la dicano: la realtà è che la nascondono anche a sé stessi. Se così non fosse, il ministro Speranza si sarebbe ben guardato dal pubblicare un libro auto-elogiativo, che ha poi dovuto precipitosamente ritirare. Evidentemente, non aveva capito la situazione.
Pensi in che mani siamo…

Intervista rilasciata l’11 novembre a “La Verità”




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 dell’11 novembre) la temperatura dell’epidemia è salita di 4.7 gradi, passando da 205.3 a 210.0 gradi pseudo-Kelvin.

Alla base del peggioramento vi sono soprattutto due fattori: l’incremento dei nuovi contagi (+238 mila nell’ultima settimana; il tasso di positività è pari al 14.6%, in diminuzione rispetto a ieri) e l’aumento dei decessi (+3.2 mila negli ultimi sette giorni). Crescono in misura più contenuta gli ingressi ospedalieri stimati.

L’aumento settimanale della temperatura è pari a +41.9 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 10 novembre) la temperatura dell’epidemia ha oltrepassato soglia 200, e ciò significa che il flusso stimato dei nuovi contagi è il doppio di quello registrato nella settimana di picco osservato a fine marzo. Il termometro di oggi segna 205.3 gradi pseudo-Kelvin ed è in aumento di 6.5 gradi.

Questo risultato dipende da due fattori. Il peggioramento è dovuto in misura preponderante all’aumento dei nuovi contagi (+235 mila nell’ultima settimana; il tasso di positività è pari al 16,1%, in diminuzione rispetto a ieri) e in misura più moderata dalla crescita dei decessi (+2.900 negli ultimi sette giorni). Stabili gli ingressi ospedalieri stimati.

L’aumento settimanale della temperatura è pari a +42.5 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Non ci resta che il tampone

Ultimamente siamo tutti quanti presi da uno spasmodico, smodato e paradossale desiderio di tampone.

Non siamo diventati di colpo stupidi o masochisti: è che il tampone è l’unica cosa che ci resta, il solo desiderio che abbia, in questa desolazione, una qualche chance di essere esaudito. Nel nostro immaginario, è diventato la manna che scende nel deserto. Il salvagente lanciato al naufrago. L’oracolo che ci dà un responso. L’amico immaginario.

È anche, bisogna dirlo meno poeticamente, il nostro scarica-coscienza. Lo è stato soprattutto quando siamo tornati dalle vacanze e, dopo bagordi, discoteche, cene, aperitivi, feste affollate, molti di noi, quelli che si erano sfrenati di più, si sono precipitati a farsi un tampone: per togliersi il pensiero, e magari andare più sereni ad altre feste. Da settembre in poi il tampone è diventato l’acqua che lava via i peccati, il gesto che ci libera dai sensi di colpa. Tampone-lavacro, tampone-panacea.

Ma ora è di più: il tampone è l’unica cosa che il cittadino ha a disposizione (seppur con enormi difficoltà) per sapere almeno se si è preso il virus o no, in uno Stato che si nega, si nasconde, fa pasticci, confonde, non risolve, non appronta nulla, non ci difende, non ci protegge!

Dove il potere abdica, regna il tampone.

Con enormi difficoltà, però! Difficilissimo avere il dono di un tampone. L’oracolo di Delfi era di gran lunga più accessibile, meno affollato: forse più oscuro, ma sicuramente più disponibile. L’immagine più dolorosa, drammatica, devastante di questi giorni, quella che non mi tolgo dagli occhi, è la gente in coda nella notte, in auto o a piedi, dalle quattro di mattina. Gente che accompagna i suoi bambini, i suoi anziani, magari febbricitanti. Scene intollerabili che non dimenticheremo.

L’aspetto per me più stupefacente è la pazienza. L’infinita sopportazione, venata di rassegnazione. La gente intervistata nella notte, chiusa nella propria auto, non si lamenta, non protesta. Non lancia sassi, non divelle alberi, non incendia palazzi, dice soltanto: Eh sì, sono qui da 7 ore, dormo un po’, mi sono portato da leggere, aspetto, e spero di arrivare a farmelo, il tampone, che mi prendano ancora, che non chiudano, altrimenti dovrò tornare domani.

Come hanno potuto i nostri governanti assistere impassibili a questo supplizio senza vergognarsi? E come abbiamo potuto noi essere così pazienti, e indulgenti?

Ma il tampone è soprattutto ciò che “tampona” la ferita più grande, che sostituisce il Grande Assente, colui che ora più che mai ci manca: il nostro medico curante. La corsa ai tamponi è la risposta, patetica, alla latitanza dei nostri medici. Latitanza non colpevole, intendiamoci, non voluta, anch’essa in qualche modo imposta: il medico di base non può visitarci e non può curarci. Noi lo chiamiamo, gli elenchiamo i sintomi al telefono, e lui ci dice che né potremo noi andare da lui in ambulatorio, né potrà lui venire a visitare noi. Logico, correrebbe il rischio di infettarsi e di infettare tutti i pazienti successivi; si dovrebbe proteggere, ma non gli è stato fornito nessun mezzo di protezione. Quindi ci dice gentilmente di prendere una tachipirina e di aspettare; oppure, se ritiene che i sintomi siano chiari, trasmette una segnalazione alla ASL.

Cioè, ci abbandona! Il nostro medico amato, il medico che ci cura da trent’anni, che conosce ogni nostro minimo acciacco, che è corso al nostro capezzale a ogni nostra febbre o mal di pancia, ora non può che negarsi e abbandonarci: trasmette la segnalazione all’Asl! Aiuto, nulla potrebbe farci più orrore, nulla gettarci di più nello sconforto totale! Di colpo, al suono ASL, abbiamo la percezione netta del tritacarne burocratico in cui finiremo, noi e i nostri poveri sintomi, semplici nomi buttati nella rete, dispersi, maciullati… Di colpo ci sentiamo soli. Forse malati, e irrimediabilmente soli. Perduti nel vuoto.

Mi viene in mente Major Tom. La splendida e tragica canzone di David Bowie dove l’astronauta si perde nello spazio, vi ricordate? Ground Control to Major Tom… Can you hear me, Major Tom…? No, nessuno ci ascolta. La nostra astronave è rotta e non sa da che parte andare. Questa insensata corsa al tampone è il segno della confusione e solitudine in cui ci hanno lasciati. Noi andiamo dal tampone perché è l’unica entità esistente da cui andare! È “lui” il nostro nuovo medico. Un medico impalpabile e impotente, un medico che non ci cura e non si cura di noi. Ma almeno ci solleva l’anima per un po’, ci placa l’ansia.

C’è qualcosa di sinistramente assurdo in tutto ciò, qualcosa di (inconsapevolmente?) perverso e anche un po’ sadico. Possibile che, proprio in epoca di pandemia, la gente perda i suoi medici?

Per questo adesso siamo tutti idealmente dentro quelle auto in coda. Uniti, partecipi, addolorati, sconcertati: siamo lì in piena notte, pieni di freddo e ansia, preoccupati e confusi. In fila al buio per ore.

È l’abbandono, che più ci tormenta. L’essere lasciati in un mare immenso carico di nubi tempestose, senza nemmeno il miraggio di una barchetta, le luci di un elicottero che si avvicina, una corda che ci viene lanciata, una torcia, una coperta di lana…

La legge del mare impone di salvare i naufraghi. Quale legge salverà noi, naufraghi nel mare dell’inefficienza e della cieca, impietosa disorganizzazione?

Pubblicato su La Stampa del 27 ottobre 2020