Black Magic Woman

Antefatto. È martedì 5 dicembre 2023, sono passati 2 mesi dall’attacco terroristico di Hamas a civili israeliani. Tre presidenti di prestigiose università americane (tra cui Harvard) sono chiamate a rispondere ad alcune domande davanti al Congresso. Le domande girano intorno al quesito se, secondo le regole degli illustri atenei, invocare il genocidio degli ebrei costituisca oppure no bullismo o molestia (e sia quindi sanzionabile, secondo i codici accademici).

Le malcapitate presidenti, tutte donne e una pure black, cominciano a tergiversare e annaspare, e finiscono per rifugiarsi in un pilatesco “dipende dal contesto”. Di qui un mare di polemiche, che conduce alle dimissioni della presidente dell’Università della  Pennsylvania (la bianca Elizabeth Magill), poi a quelle della presidente di Harvard (la nera Claudine Gay). Al momento in cui scrivo, benché invitata ripetutamente a farlo, non si è ancora dimessa la presidente del MIT (la bianca Sally Kornbluth).

Può sembrare strano, e per qualcuno pure scandaloso, ma le risposte delle tre poverette, per quanto goffe, imbarazzate, e poco lucide, non erano poi così destituite di fondamento su un piano legale. Come ha subito notato Will Kreeley, direttore della Fondazione per i Diritti di Espressione dell’Individuo, effettivamente sul piano legale tutto dipende da come e in che situazione l’invito al genocidio viene formulato. Semmai, come non ha mancato di notare lo stesso Kreeley, è frustrante vedere i vertici accademici, così pronti alla censura quando viene infranta l’ortodossia woke, disseppelire scrupoli pro-libero pensiero (“free speech scruples”) solo sotto il fuoco di un’audizione congressuale. Il massimo dell’ipocrisia: nelle università americane gli studenti sono sanzionabili per le più minuscole ed evanescenti “micro-aggressioni”, ma diventano oggetto di pensose riflessioni sulla libertà di pensiero quando le vittime bisognose di tutela sono gli ebrei.

Ma la storia non è tutta qui. Anzi il lato più interessante viene dopo. Perché, mentre a Elizabeth Magill, presidente dell’università della Pennsylvania, bastano 4 giorni per decidere di dimettersi, a Claudine Gay, presidente della più prestigiosa università statunitense, occorrono ben 2 mesi. La lettera di dimissioni arriva solo il 2 gennaio, pochi giorni fa. Una lettera piena di belle frasi sulle meraviglie di Harvard e sul proprio impegno, ma parca di spiegazioni sulle ragioni delle sue dimissioni, e del tutto priva di scuse.

Che cosa, dunque, ha convinto la presidente di Harvard a dimettersi?

Semplice: l’accusa di plagio, basata sulla scoperta di numerosi passaggi copiati nella sua produzione scientifica (ne ho esaminati diversi, e devo dire che alcuni sono effettivamente inaccettabili, altri banali e perdonabilissimi). Il lato interessante della storia è però quel che è venuto fuori esaminando il suo curriculum accademico: la produzione scientifica della Gay, pluriosannata nei mesi scorsi in quanto prima donna nera eletta a capo della più prestigiosa università americana, è a dir poco imbarazzante. Specie nell’ultimo decennio, la prof.ssa Gay ha pubblicato pochissimo, e sulla qualità di quel poco che ha pubblicato non sono mancate perplessità e dubbi da parte di vari studiosi. Qualcuno ha azzardato una difesa dicendo: che cosa c’entra la produzione scientifica? se fai il rettore di Harvard quel che conta non sono i titoli accademici, quel che conta è che tu sia bravo a rastrellare fondi (o fundraising, che suona meglio). Probabilmente è anche vero, e infatti qualcuno ha notato che proprio per questo la Gay andava cacciata, visto che ci sono già le prime rinunce di donatori importanti (Ferragni docet, sui traffici della beneficenza tutto il mondo è paese).

Ma c’è un’altra lettura possibile, di cui si parla negli Stati Uniti, ma che è rimasta in sordina da noi. Qualcuno ha fatto notare che la vera ragione per cui una mediocre studiosa come la Gay è stata scelta per occupare il vertice della più importante università americana sono le sue “immutable characteristics”, ovvero le sue permanenti qualità innate di essere donna e di essere nera. In un mondo nel quale non si pensa più che lo scopo dell’università sia perseguire la verità, bensì sia di promuovere la Social Justice, non è poi così strano che quelle caratteristiche immutabili facciano miracoli, come pietre magiche: Black Magic Woman, come magistralmente cantavano i Santana mezzo secolo fa.




Diritto alla rappresaglia (linguistica)?

Bene ha fatto Chiara Valerio a definire “gesto dada” la piccola provocazione messa in atto da Cecilia Guerra (deputata Pd) quando, alla Camera dei Deputati, si è rivolta al presidente dell’assemblea Giorgio Mulé chiamandolo “signora presidente”. Altrettanto bene ha fatto Giorgio Mulé a provare a metterla sul ridere. E benissimo ha fatto il quotidiano Libero a prendersi la libertà (se no, perché chiamarsi Libero?) di proclamare Meloni “Uomo dell’anno”, come in passato era già successo con altre donne illustri. Nel 1999, la campagna elettorale per Emma Bonino Presidente della Repubblica ne esibiva una foto sorridente, con la scritta “Finalmente l’uomo giusto”. Per non parlare di Angela Merkel, spesso descritta come grande “uomo di Stato”, o addirittura come l’unico vero uomo di Stato di cui l’Europa disponesse.

Insomma tutto bene finché si resta sul giocoso. La lingua è anche un gioco, l’ironia è una risorsa insostituibile della lingua vivente, guai a chi prova a ingessarla con regole, divieti, intimidazioni più o meno arroganti.

Male, invece, hanno fatto altri. Tanto per cominciare, il deputato Marco Perissa (Fratelli d’Italia), che ha acceso la miccia chiamando “segretario” la segretaria del Pd Elly Schlein, ben sapendo che ella preferisce essere chiamata segretaria. In secondo luogo Cecilia Guerra, che anziché restare sul giocoso, si è spinta a teorizzare una sorta di diritto di rappresaglia linguistica: se il deputato Perissa si permette di chiamare “segretario” la segretaria del mio partito Elly Schlein, allora è lecito a me chiamare  Giorgio Mulé “signora presidente”. In terzo luogo, Elly Schlein, che improvvisamente accortasi che lo statuto del Pd, parlando sempre e solo di segretario del partito, finiva per legittimare il deputato Perissa, non ha trovato di meglio che annunciare un congresso per cambiare lo statuto del partito. Così suscitando
la contro-reazione di Perissa, infantile e logica al tempo stesso : “Finché lo statuto Pd dice che Schlein è segretario nazionale, la chiamerò così”.

Peggio di tutti, almeno ai miei occhi, ha infine fatto Michele Serra, che pare aver perduto il sense of humour che lo aveva reso famoso quand’era giovane e dirigeva Cuore (capolavoro assoluto della satira politica). In un serioso articolo nella sua rubrica su Repubblica, ha definito nientemeno che “inappuntabili sotto ogni punto di vista” le parole di Cecilia Guerra, aggiungendo che il ragionamento della deputata Pd – se tu chiamare uomo me, io chiamare donna te – “non fa una grinza” e “non c’è replica possibile”. Il tutto per lapidariamente concludere: “la deputata Guerra ha ragione, il deputato Perissa ha torto”.

Mah…

Siamo sicuri che non c’è replica possibile?

Io ne ho in mente parecchie, ma le più importanti sono due. Primo, la lingua da sempre ammette infinite variazioni e sfumature, sottigliezze e connotazioni, che ne costituiscono la ricchezza (e la potenza espressiva). La lingua è libera, e nessuno ha diritto di fissare le regole e le parole con cui dobbiamo rivolgerci agli altri, salvo un’unica basilare restrizione: mai offendere intenzionalmente. Da questo punto di vista, Giorgio Perissa e Cecilia Guerra non hanno l’uno torto e l’altra ragione, ma hanno torto entrambi, perché entrambi hanno deliberatamente usato il genere che l’interlocutore non gradiva. Entrambi hanno cercato di ferire.

Secondo. La pretesa degli intellettuali di regolare l’uso della lingua è l’espressione più plateale del “razzismo dei laureati” (copyright Federico Rampini). Una brutta bestia, non solo perché umilia i ceti meno istruiti, che con le sottigliezze dei legislatori della lingua non si raccapezzano, ma perché ingessa il discorso pubblico. Non vi siete accorti di quanto circospetti, prudenti, insipidi – e in definitiva noiosi – stiamo diventando per il terrore di essere beccati in fallo su un aggettivo, un avverbio, un accostamento?

Avanti così, e perderemo del tutto la nostra libertà.




Perché si fanno pochi figli – A proposito di “inverno demografico”

Nel 2011, in piena crisi finanziaria, per la prima volta dall’Unità d’Italia la popolazione italiana supera i 60 milioni di abitanti. Nei due anni successivi continua a crescere, toccando l’apice di 60 milioni e 350 mila abitanti nel 2013. Da allora inizia un inesorabile declino, che nel 2017 la riporta sotto i 60 milioni di abitanti, nel 2022 sotto i 59 milioni di abitanti, fino a questo 2023 che si chiuderà con una popolazione intorno ai 58.8 milioni di abitanti.

È un trend inesorabile?

Sì e no. Con le nascite scese sotto le 400 mila unità l’anno, e le morti salite intorno alle 650 mila (dopo i picchi dell’epidemia, quando avevano superato le 700 mila l’anno), lo sbilancio è di almeno 250 mila unità l’anno. Quindi il calo della popolazione è inevitabile, a meno che l’afflusso netto di stranieri si attesti intorno alla medesima cifra, o le donne residenti in Italia – italiane e straniere – tornino a fare figli.

Ma né la prima né la seconda condizione si stanno verificando. Come mai?

Apparentemente, il flusso degli stranieri (100-150 mila sbarchi l’anno, decine di ingressi dalla rotta balcanica, più 150 mila arrivi attraverso i decreti flussi) sarebbe sufficiente a neutralizzare il calo demografico “naturale”. Se ciò non avviene, è per un complesso di motivi: molti stranieri si limitano a transitare dall’Italia, diretti verso altri paesi europei; altri – per lo più irregolari – si fermano da noi, ma non prendono la residenza; quanto ai lavoratori ammessi con i decreti flussi, più di metà dei permessi sono stagionali. Il risultato è che la popolazione straniera residente, da circa un decennio, fluttua appena al di sopra dei 5 milioni di persone, senza alcuna capacità di attenuare il calo demografico.

Quanto alla seconda condizione, ossia una ripresa della natalità, è ancora più chimerica della prima. Le nascite sono poche sia perché, esaurito il baby boom degli anni ’50 e ’60, le donne in età fertile sono sempre di meno, sia – soprattutto – perché le donne fanno sempre meno figli. Ciò vale per le italiane, il cui tasso di fecondità è sceso sotto 1.2 nati per donna (era ancora vicino a 2 intorno al 1980), ma anche per le straniere, la cui propensione a fare figli – tuttora maggiore di quella delle italiane – è scesa ancora più rapidamente.

Quanto sia incisivo questo fattore lo rivela un semplice calcolo: se le donne italiane avessero un tasso di fecondità analogo a quello delle donne francesi (1.9), le nascite si salirebbero da meno di 400 mila a oltre 600 mila l’anno, una cifra quasi sufficiente a pareggiare il numero di morti.

Ma perché le donne italiane fanno così pochi figli?

Si sente spesso invocare la precarietà di tante occupazioni, la mancanza di asili nido, l’incertezza del futuro. Queste spiegazioni, tuttavia, sono basate su una confusione concettuale: è vero che con posti di lavoro meglio retribuiti, maggiori servizi sociali, un’economia più dinamica, il tasso di fecondità sarebbe maggiore di quello attuale; nello stesso tempo, però, non si può non notare che negli anni ’70 e ’80, quando i tassi di fecondità erano ancora prossimi a 2, la carenza di asili nido era ancora maggiore di oggi, la quota di posti di lavoro precari era analoga (se non superiore), e il tenore di vita era decisamente più basso di quello attuale. Quel che si tende a ignorare, se non a nascondere, è l’abissale cambiamento culturale che è intervenuto fra l’epoca in cui era il lavoro il centro delle nostre vite, e l’epoca in cui centrali sono diventati il consumo, l’intrattenimento, l’organizzazione scientifica del tempo libero. È perché teniamo troppo al nostro modo di vita e alle nostre più o meno abusate libertà che l’impresa di fare figli ci appare tanto ardua e rischiosa. Un figlio – non solo per la madre – significa meno cene con gli amici, meno weekend lunghi, meno svaghi, meno tempo per sé stessi, in definitiva: meno spensieratezza, fine dell’adolescenza prolungata. È anche per questo, e non solo per ragioni professionali, che una quota così ampia delle giovani donne che, alla fine, i figli comunque li fanno, attendono lo scoccare dei 30-35 anni, quando l’orologio biologico le avverte che il tempo sta per scadere.

La realtà indicibile è che, se non fossimo diventati una “società signorile di massa”, impegnata ad espandere senza limiti la sfera dei diritti, e refrattaria ad ogni contenimento dei desideri individuali, l’avventura di mettere al mondo dei figli ci spaventerebbe di meno.

Ecco perché le spiegazioni basate su precarietà, servizi sociali carenti, incertezza del futuro ci appaiono tanto seducenti, a dispetto della loro debolezza scientifica. Attribuendo a cause esterne l’origine delle nostre decisioni, quelle spiegazioni funzionano come perfette razionalizzazioni, che ci evitano il disagio di riconoscere le ragioni per cui, oggi, la scelta di fare e allevare figli è diventata così poco attraente.




I media hanno ridotto la qualità della democrazia in Italia?

Come è noto, nella teoria liberal-democratica dei media, la libertà di parola e la libertà di stampa sono considerate fondamentali per garantire che un’ampia gamma di punti di vista e opinioni siano liberamente espresse: ciò migliora la qualità della democrazia. Questa visione è sostenuta da importanti pensatori liberali, tra cui Tocqueville (1838) e Stuart Mill (1859) e da una letteratura estremamente ampia.Essa, tuttavia, non sempre risponde al vero. In fondo, i giornali sono imprese e, come ogni altra impresa, perseguono la massimizzazione del profitto. Tale obiettivo non sempre collima con il perseguimento del benessere della collettività.Un caso eclatante in questo senso è quanto avvenuto negli ultimi decenni in Italia dove i media, e in particolare i quotidiani, hanno indotto nei cittadini la percezione di una corruzione più estesa di quella effettiva.È un fatto che, stando ai dati raccolti da Transparency International sulla corruzione percepita, emerge che l’Italia ha un livello di corruzione (colto dal Corruption Perceived Index: CPI) molto più alto degli altri paesi avanzati. Nel ranking mondiale del grado di corruzione (che cresce con il grado di corruzione) il nostro Paese si colloca in una posizione molto più alta rispetto agli altri paesi avanzati. Nel 2019 (prima della crisi del COVID-19) l’Italia occupava il 51° posto in questa classifica, mentre nello stesso anno Francia e Germania si collocavano rispettivamente al 23° e 9° posto (Tabella 1). La posizione dell’Italia è analoga, e talvolta persino peggiore, a quella di paesi emergenti o in via di sviluppo, come, ad esempio, Botswana, El Salvador, Gambia, Ghana, Indonesia e Santa Lucia.

Tabella 1- Classifica dei paesi rispetto alla corruzione percepita

1995 2003 2009 2013 2015 2019 2022
Francia 18 23 24 22 23 23 21
Germania 13 16 14 12 11 9 9
Grecia 30 50 71 80 58 60 51
Italia 33 35 63 69 61 51 41
Portogallo 22 25 35 33 28 30 33
Spagna 26 23 32 40 37 30 35
Regno Unito 12 11 17 14 11 12 18

Fonte: Transparency International database. Legenda: Quanto più elevato è il posto in classifica tanto più elevata è la corruzione percepita nel paese.

Tuttavia, se si considerano indicatori oggettivi del livello di corruzione, sembra che la corruzione nel nostro Paese sia poco discosta da quella dei principali Paesi europei e, soprattutto, molto inferiore a quella riscontrabile in Paesi in via di sviluppo o emergenti che hanno una corruzione percepita analoga a quella dell’Italia. Ad esempio, prendendo a riferimento l’indagine campionaria contenuta nello Special Eurobarometer Report on Corruption della Commissione europea, si rileva che, sempre per il 2019, la quota del totale degli intervistati che aveva risposto affermativamente alla domanda “Do you know anyone who takes or has taken bribes?” era del 7 per cento per l’Italia e rispettivamente dell’8 e 13 per cento per Germania e Francia. Anche nella survey del Global Corruption Barometer di Transparency International relativo al 2021[1] risultava che la percentuale di cittadini che nei 12 mesi precedenti avevano pagato una tangente per fruire di servizi pubblici era del 3 per cento per l’Italia e rispettivamente del 3 e 5 per cento per Germania e Francia.[2]Dalla Tabella 1 emerge non solo che il ranking rispetto al grado di corruzione dell’Italia è più elevato di quello degli altri paesi avanzati, ma anche che esso è aumentato in misura molto pronunciata tra il 2008 e il 2012. Tuttavia, se si considera un indicatore oggettivo del grado di corruzione come le condanne per reati contro il patrimonio pubblico di funzionari pubblici si evince che tra il 2000 e il 2017 (ultimo anno in cui l’Istat riporta questi dati), e in particolare tra il 2008 e il 2012, non vi è stato alcun significativo aumento della corruzione effettiva (Tabella 2).

Tabella 2 – Condanne definitive per reati contro la PA di funzionari pubblici

Corruzione (a)

 

 

Concussione

(b)

 

 

Peculato

(c)

 

 

Malversazione

(d)

 

 

Corruzione e Peculato

(a)+(c)

 

Reati contro la PA di funzionari pubblici (a+b+c+d)
Media 2000-2004 309 58 141 19 450 527
Media 2005-2009 226 55 153 72 379 507
Media 2010-2014 177 52 159 46 336 417
Media 2015-2017 190 22 182 93 372 488

Fonte: Istat.

L’esistenza della discrepanza tra corruzione effettiva e corruzione percepita e il suo aumento dopo il 2008 sono evidenziati anche dal Rapporto del governo Monti sulla corruzione del 2012 in cui si scrive: “… il raffronto tra i dati giudiziari e quelli relativi alla percezione del fenomeno corruttivo induce a ritenere la sussistenza di un rapporto inversamente proporzionale tra corruzione ‘praticata’ e corruzione ‘denunciata e sanzionata’: mentre la seconda si è in modo robusto ridimensionata, la prima è ampiamente lievitata, come dimostrano i dati sul Corruption Perception Index di Transparency International, le cui ultime rilevazioni collocano l’Italia al sessantanovesimo posto (a pari merito con Ghana e  Macedonia), con un progressivo aggravamento della corruzione percepita negli ultimi anni”.[3]

È lecito, dunque, chiedersi come si sia generata questa discrepanza e perché sia aumentata tra il 2008 e il 2012.

Un’ipotesi plausibile è che l’elevata percezione di corruzione nel nostro paese sia stata in larga misura “fabbricata” dai media e dai giornali. Conferma di ciò si ha dalla elevata correlazione tra il ranking dell’Italia rispetto al CPI rilevato da Transparency International e il numero di articoli dedicati dai principali quotidiani italiani a casi di corruzione politica (Figura 1).

Figura 1 – CPI ranking e numero di articoli su casi di corruzione politica del Corriere della Sera e de La Repubblica

(a)   CPI ranking dell’Italia secondo Transparency International    

 

(b) CPI ranking dell’Italia secondo lo Special Eurobarometer Report on Corruption

Fonte: Transparency International, Special Eurobarometer Report on Corruption, e archivi elettronici del Corriere della Sera (archivio.corriere.it) e della Repubblica (https://ricerca.repubblica.it/ricerca/repubblica.

Legenda: le linee verdi nella Figura 1(a) e 1(b) indicano rispettivamente la posizione dell’Italia nella rilevazione di Transparency International e in quella del Rapporto Eurobarometer sulla Corruzione; le linee blu e rossa nei due quadranti indicano il numero di articoli dedicati a casi di corruzione politica rispettivamente dal Corriere della Sera e dalla Repubblica. Il numero di articoli è normalizzato ai loro valori massimi; tutte le variabili sono espresse in logaritmi

È un fatto che gli editori di quotidiani dopo la crisi del 2008 e quella del debito sovrano del 2011, a causa della caduta delle vendite e della pubblicità, si trovarono ad affrontare anni molto difficili in termini reddituali. È plausibile che essi, allo scopo di limitare le perdite, sfruttando i pregiudizi dei lettori instillati in essi da Tangentopoli (ovvero di una classe politica corrotta), abbiano deciso di aumentare il numero di pagine e articoli dedicati a scandali politici.

L’elevato livello di corruzione percepita indotto dai quotidiani non è stato privo di effetti sulla democrazia del nostro paese. Esso ha avuto riflessi sulle scelte di policy, sulla fiducia nelle istituzioni democratiche e anche sulla cultura politica e economica degli italiani.

In merito al primo aspetto la classe politica italiana ha adottato una serie di misure di lotta alla corruzione. Si pensi, ad esempio, al Codice degli Appalti proposto dal governo Renzi e approvato nel 2016 dal Parlamento, alle complesse procedure di gara da esso previste, che certamente non hanno favorito l’attuazione di investimenti pubblici e hanno messo a rischio l’uso dei fondi PNRR. Si pensi ancora alla costituzione nel 2014 dell’ANAC, per molti aspetti un doppione della Corte dei Conti. Si pensi alla legge Severino promossa dal governo Monti, nonostante, come si è visto, nel Rapporto sulla corruzione di esso si riconoscesse una discrepanza tra corruzione effettiva e percepita. Si può dire che una buona parte delle leggi emanate negli ultimi 10-15 anni, compresa la legge Gelmini per l’Università, abbiano risentito di questo anelito alla lotta alla corruzione, in molti casi con pregiudizio per l’allocazione efficiente delle risorse del Paese.

Un secondo effetto dell’elevata corruzione percepita è stato l’indebolimento del Parlamento e delle istituzioni democratiche. Infatti, l’elevata corruzione percepita ha infirmato la credibilità del Parlamento. L’indagine Standard Eurobarometer della Commissione Europea mostra che, tra il 2009 e il 2013, in Italia la fiducia degli italiani nel Parlamento si è significativamente indebolita, soprattutto se confrontata con quella rilevata per Francia e Germania (Tabella 3).

 

Tabella 3 – Fiducia nel Parlamento (percentuale degli intervistati)

2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020
Francia 28 31 26 32 19 23 20 19 31 27 27 31
Germania 45 46 42 46 44 49 42 55 58 58 54 55
Grecia 47 17 12 9 12 14 15 12 13 15 23 27
Italia 27 26 14 11 10 18 18 15 20 27 27 27
Portogallo 41 26 22 23 15 20 19 36 42 37 39 40
Spagna 29 21 19 9 8 10 11 17 21 24 19 19

Fonte: Standard Eurobarometer survey, n. 71-94: https://europa.eu/eurobarometer surveys/browse/all.

La sfiducia nel parlamento è derivata dalla convinzione diffusa che la classe politica fosse incompetente e corrotta. In questo contesto, dato il basso status sociale del politico e il rischio di essere coinvolti in indagini giudiziarie e “lapidati” dalla stampa, gli individui di alta qualità professionale sono stati indotti ad evitare la carriera politica. Ciò contribuisce a spiegare perché negli ultimi anni la qualità dei parlamentari in termini di professioni esercitate nella vita civile sembrerebbe essere diminuita significativamente in Italia (Figura 2).

Figura 2 – Qualità professionale dei membri del Senato italiano (quote percentuali)

Fonte: Senato della Repubblica Italiana. Legenda: la linea blu indica la quota percentuale di senatori di elevata qualità professionale (ovvero che nella vita civile esercitano una di queste professioni: Avvocati, Professori universitari, Dirigenti di impresa); la linea rossa indica la quota percentuale di Senatori che nella vita civile esercitano attività impiegatizie e similari.

In terzo luogo, l’elevata corruzione percepita ha favorito tra il 2013 e il 2018 l’eclatante successo elettorale di partiti populisti, in particolare del Movimento Cinque Stelle, che, almeno alle sue origini, invocava la transizione dalla democrazia rappresentativa alla democrazia diretta e volle nel governo Conte l’istituzione di un “Ministero per i Rapporti con il Parlamento e la Democrazia diretta”.

Infine, l’elevato livello di corruzione percepita ha determinato cambiamenti “culturali” negli italiani, aumentandone la resistenza a qualsiasi tipo di riforma, in primis di quelle volte ad un riequilibrio della finanza pubblica: in fondo, se i vecchi politici erano incompetenti e corrotti, bastava mandare a casa questi politici e i conti pubblici sarebbero tornati in ordine.

Quanto esposto non implica che nel nostro Paese, soprattutto in alcune sue aree, non vi sia corruzione. Semplicemente si vuol dire che i giornali, contravvenendo a quello che secondo molti è il loro compito in una democrazia, ne hanno esagerato l’entità con conseguenze negative per la qualità delle istituzioni e la crescita economica e culturale del nostro paese

 

[1] Non è disponibile quello relativo al 2019.

[2] Tale percentuale era sensibilmente più elevata nei paesi emergenti o in via di sviluppo che avevano un ranking più basso dell’Italia rispetto alla corruzione percepita come El Salvador, Colombia, Gambia, Indonesia.

[3] Governo italiano, Presidenza del Consiglio dei Ministri, “Rapporto della Commissione per lo studio e l’elaborazione di proposte in tema di trasparenza e prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione”, 2012, p. VIII.




A proposito di gender gap – Le ragazze e la matematica

Non è la prima volta che, da quando esistono i test internazionali PISA sul livello degli apprendimenti degli studenti, viene denunciato il gender gap in matematica, ossia il fatto che il punteggio delle ragazze sia sistematicamente inferiore a quello dei ragazzi. Una denuncia che ha preso ulteriore vigore quest’anno, quando si è appreso che in nessun altro paese avanzato il gender gap è alto come in Italia. Legioni di commentatori e soprattutto commentatrici si sono esercitate a denunciare gli stereotipi di genere, i luoghi comuni, i pregiudizi che, convincendo le ragazze di non essere portate per la matematica, alimenterebbero vissuti di insicurezza, ne aumenterebbero l’ansia di fronte ai test, le convincerebbero ad evitare le carriere scientifiche (lauree STEM), e le indirizzerebbero verso percorsi di studio svalutati e alla fine poco gratificanti, come l’insegnamento.

Io trovo tutto questo abbastanza umiliante per le studentesse, e per le donne in generale. Alla radice di queste analisi vi è, infatti, una idea della donna come soggetto passivo, condizionabile, e in definitiva privo di autonomia. Una visione non nuova nelle scienze sociali, dove un’intera disciplina (la sociologia) è cresciuta nel segno della “concezione ultrasocializzata dell’uomo”, una teoria che sottolinea il potere dei condizionamenti dell’ambiente sociale, lasciando ben pochi gradi di libertà all’agire umano. Ma una visione nuovissima nell’accanimento con cui, forse anche sotto la spinta emotiva del dibattito sui femminicidi, si ostina a descrivere le giovani donne come vittime dell’educazione (patriarcale) ricevuta, incapaci di perseguire i propri interessi e di effettuare scelte veramente libere.

Se fossi una donna, non dico che mi sentirei offeso (sono già troppe, e troppo stupide, le ragioni per cui quotidianamente ci offendiamo), ma certo mi sentirei mal descritto, e trattato con poco rispetto. E questo per diverse ragioni.

Primo, è abbastanza umiliante che, ogniqualvolta una donna compie una scelta tradizionale, come sposarsi, avere figli, fare l’insegnante, lavorare part-time o non lavorare, scatti il pregiudizio per cui tale scelta sarebbe frutto di condizionamenti, a partire dai ruoli appresi nei primi anni di vita attraverso i giochi ricevuti, gli abiti indossati, i modelli trasmessi dalla famiglia. È vero, la sociologia – maschile e conservatrice – della tradizione funzionalista la mette proprio così, ma ci sono robuste evidenze che le cose possano stare diversamente, e che certe scelte delle donne spesso riflettano le loro genuine preferenze, in parte legate a ovvi fattori biologici (segnalo in particolare i lavori della sociologa Catherine Hakim sulle preferenze femminili). Un conto è battersi per rimuovere i vincoli (ad esempio la carenza di asili nido) che limitano la libertà delle donne, un conto è rappresentare la donna come una vittima-succube-marionetta, le cui credenze, preferenze e scelte di vita avverrebbero nel segno di pesanti condizionamenti culturali. Perché non si prende mai in considerazione l’ipotesi più semplice, e cioè che a tante donne certe attività, certe professioni, certe carriere (ad esempio quella politica), interessino meno che agli uomini?

Secondo, è strano che lo stigma dell’handicap, dell’inadeguatezza, e della necessità di ri-orientamento, sia riservato alle donne, e che i maschi ne siano sostanzialmente esenti. Perché drammatizziamo il gap in matematica, sfavorevole alle ragazze, e non diciamo nulla sul gap in lettura, in cui sono i ragazzi a essere molto indietro rispetto alle ragazze?

Ma direi di più: come mai nessuno tematizza il drammatico ritardo culturale globale dei maschi, che abbandonano gli studi prima delle ragazze, faticano a laurearsi, e hanno quasi sempre risultati di apprendimento inferiori? È forse perché i maschi non sono considerati una categoria protetta?

C’è anche una terza ragione, però, per cui – se fossi una donna – sarei molto arrabbiata. Ed è che nessuno ha preso in considerazione l’ipotesi che il nostro (di noi donne) handicap in matematica sia dovuto al fatto che né i test Pisa né i test Invalsi misurano davvero la capacità matematica, che è innanzitutto capacità di astrazione e deduzione.

Basta esaminare il contenuto (e il formato a quiz!) delle batterie di domande, per rendersi conto che misurano prevalentemente altre abilità, di tipo più pratico, tecnico, calcolistico. Se misurassero davvero l’abilità matematica, forse l’handicap sparirebbe.

Forse?

No, non “forse”, ma quasi certamente. Grazie al Ministero dell’Istruzione e del Merito ho potuto analizzare i dati degli esami di 3a media, e il risultato è sconcertante per i teorici del gender gap: il gap esiste, ma è a favore delle ragazze, che vanno meglio dei ragazzi in tutte le materie, compresa la matematica. E la superiorità in matematica si ripete regione per regione, a tutti i livelli della scala sociale, fra studenti italiani e stranieri, nelle scuole pubbliche e nelle scuole paritarie, negli scrutini e nell’esame finale di licenza media.

Possibile che gli insegnanti, che conoscono i loro allievi e li seguono lungo tutto l’anno, siano giudici meno capaci di un test computerizzato somministrato una volta soltanto?