I paesi che hanno evitato la seconda ondata

Ci siamo abituati un po’ tutti, in questi lunghi mesi dell’epidemia, a usare la parola “ondata”. L’ondata del Covid, la prima ondata, la seconda ondata. L’ho fatto anch’io, e lo farò ancora, perché non so trovare una parola diversa e più adatta.

Però dovremmo smetterla, o almeno renderci conto che è una parola molto fuorviante.

Quando diciamo che è arrivata un’ondata, e che ha sommerso tutto il mondo, ogni paese e ogni continente, descriviamo l’epidemia come un evento ineluttabile, che arriva da fuori, e cui nessuno si può sottrarre.

Questo, in un certo (assurdo) senso, ci rassicura. Rassicura i cittadini, perché in fondo “mal comune mezzo gaudio”. Ed è addirittura una manna per i politici perché permette loro di pensare, e soprattutto di dire: vedete? è successo dappertutto, dunque se è successo anche da noi non è colpa nostra.

Il medesimo fatalismo investe da tempo i discorsi sulla “seconda ondata”. Anche la seconda ondata l’abbiamo percepita come una minaccia incombente, che tutto sommato ci aspettavamo, e che ora puntualmente è arrivata, in tutto il mondo. E quindi anche da noi. I sondaggi confermano che, anche durante i momenti più sereni dell’estate, quando cercavano di convincerci che tutto andava per il meglio, che eravamo un modello per gli altri, e che comunque eravamo preparati, anche allora la maggioranza dei cittadini una seconda ondata se l’aspettava, quasi fosse un evento ineluttabile.

Eppure non è vero. Ci sono porzioni del mondo – anche del mondo a noi più simile, quello delle società avanzate, dotate di istituzioni democratiche – in cui la seconda ondata non è affatto arrivata (e talora nemmeno la prima). Quel che è arrivato non è un’ondata che tutto e tutti travolge, ma un modesto numero incremento dei decessi (unico indicatore affidabile nei confronti internazionali), più o meno rapidamente riportato sotto controllo.

Insomma ci sono paesi che ce l’hanno fatta, o ce la stanno facendo, a tenere sotto controllo l’epidemia. Quali sono? E quanti sono?

Se consideriamo il 27 paesi a noi più comparabili (società avanzate, democratiche, con istituzioni di tipo occidentale), sono ben 10 – più di 1 su 3, dunque – quelli che non hanno subito una seconda ondata. Quattro sono nel sud-est asiatico: Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong. Due sono nell’emisfero boreale: Australia e Nuova Zelanda. Ma quattro sono in Europa: Norvegia, Finlandia, Danimarca, Irlanda.

Nei primi i numeri dell’epidemia sono infimi, negli ultimi (quelli europei) sono molto modesti (meno di un decimo di quelli della nostra prima ondata).

Dunque non è obbligatorio subire la seconda ondata. Anzi, si potrebbe dire che – quando arriva – l’ondata è il frutto di decisioni, scelte, comportamenti che un dato paese adotta e che producono, come conseguenza, un’impennata dei contagi. L’onda non vien da fuori, ma è prodotta da dentro.

Ma come si fa a non produrla?

Il fatto interessante è che, storicamente (ormai esiste una storia del Covid), non è esistito un modo solo, unico, di evitare la seconda ondata. I paesi che ce l’hanno fatta non hanno messo in atto tutti le medesime contromisure, salvo forse una: forti limitazioni agli ingressi, che purtroppo in Italia sono state quasi sempre snobbate, ora per ragioni economiche (se no danneggiamo l’industria turistica), ora per ragioni organizzative (come facciamo a fare migliaia di tamponi al giorno negli aeroporti?), ora per ragioni ideologiche (sbarchi e accoglienza, volontà di non “discriminare”).

Per il resto ognuno dei 10 paesi che ce l’hanno fatta hanno trovato ciascuno la sua strada, che è sempre consistita nell’adozione di un mix di misure, non in una misura soltanto.  Non solo lockdown più o meno prolungati e severi, ma tamponi di massa, app per il tracciamento, Covid-hotel e quarantena assistita, rispetto rigoroso del distanziamento negli ambienti chiusi, uso generalizzato delle mascherine e degli occhiali, disinfezione delle superfici, sanificazione e aerazione degli ambienti.

Tomas Pueyo, a mio avviso di gran lunga l’analista della pandemia più lucido, ha battezzato questo approccio “strategia del formaggio svizzero” (swiss cheese strategy), il celebre formaggio a buchi, simile alla nostra groviera tanto amata da Topo Gigio. L’idea è che, per impedire la formazione dell’onda, non basti un unico strato di formaggio (leggi: una particolare misura di contrasto), perché ogni strato ha dei buchi in cui l’epidemia può trovare un varco, ma occorra giustapporne più d’uno, in modo che dove uno strato non funziona, possa interviene uno degli strati successivi, ciascuno con i suoi buchi sparpagliati in modo irregolare e casuale. Detto in altre parole: giudicata in sé ogni misura è insufficiente e lacunosa, ma è il pacchetto complessivo, una sorta di filtro multi-strato, che deve essere efficace.

Che il nostro “italian cheese” non abbia funzionato è fuori di dubbio, e la seconda ondata – con la sua lunga scia di morti – è lì a dimostrarlo. C’è solo da sperare che fra tutti, Governo, Regioni, cittadini, si diventi capaci di mettere insieme gli strati del nostro formaggio anti-Covid. Altrimenti, dopo aver prodotto la seconda ondata, ci appresteremo a procurarci la terza.

Pubblicato su Il Messaggero del 28 novembre 2020




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 27 novembre) la temperatura dell’epidemia è scesa di 5.6 gradi, passando da 198.6 a 193.0 gradi pseudo-Kelvin.

Come ieri, il miglioramento si deve soprattutto al calo dei nuovi contagi (+192 mila nuovi casi nell’ultima settimana rispetto ai 238 mila della settimana precedente) ed in parte alla diminuzione degli ingressi ospedalieri stimati. Continuano invece a salire i decessi (+5.1 mila nell’ultima settimana rispetto ai 4.4 mila di quella precedente).

La riduzione settimanale della temperatura è pari a -27.7 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 26 novembre) la temperatura dell’epidemia è tornata sotto quota 200. Il termometro di oggi segna 198.6 gradi pseudo-Kelvin ed è sceso di 3.5 gradi.

Questo risultato è dovuto in misura preponderante alla diminuzione dei nuovi contagi (+201 mila nuovi casi nell’ultima settimana rispetto ai 242 mila della settimana precedente) ed in parte al calo degli ingressi ospedalieri stimati. Tornano a salire i decessi (+4.9 mila nell’ultima settimana rispetto ai 4.2 mila di quella precedente).

La riduzione settimanale della temperatura è pari a -23.6 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 25 novembre) la temperatura dell’epidemia è scesa di ben 6.5 gradi passando da 208.6 a 202.1 gradi pseudo-Kelvin.

La diminuzione dei nuovi contagi continua ad essere il fattore principale alla base del miglioramento della temperatura (+208 mila nuovi casi nell’ultima settimana rispetto ai 244 mila della settimana precedente; il tasso di positività è pari all’11.2%, in diminuzione rispetto a ieri). Pesa anche la flessione degli ingressi nelle strutture ospedaliere. In lieve calo i decessi: ieri i nuovi decessi sono scesi a 722, contro gli 853 del giorno precedente.

La riduzione settimanale della temperatura è pari a -21.2 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Il ritorno della talpa: il diritto di ricevere risposte

Essendo di nuovo rinchiusa, passo molto tempo davanti alla tivù. Voglio sapere, essere informata, ascoltare opinioni. La sera, al buio della mia galleria, mi metto in poltrona e guardo: telegiornali, inchieste speciali, talkshow. Giro per canali e ne pesco uno qua uno là, non importa dove sia e chi parli. Sono avida di gente che parla. Mi aspetto ogni volta che qualcuno m’illumini, che mi dica la verità. Sono affetta da masochismo e vacue speranze, destinata quindi a perenni delusioni e frustrazioni, lo so.

Ma c’è una cosa che sommamente m’indigna: che nessun politico mai risponda alla domanda!

Ho analizzato molto la questione, è da non credere. Il giornalista chiede una cosa specifica (ad esempio: “Perché non avete fatto più tamponi quando i contagi erano bassi ed era utile farli per contenere l’epidemia?”) e il politico, senza la minima difficoltà o vergogna, parla d’altro. Riempie il vuoto con parole non importa quali e, cosa ancor peggiore, secondo uno schema retorico fisso e orribilmente ripetitivo:

1) Intanto mi lasci dire che…

2) Abbiamo passato l’estate a lavorare…

3) Anche gli altri Paesi però…

4) Stiamo facendo molti sforzi per…

Scusate, ma fare sforzi assicura di per sé dei risultati? Non so, sarà che nella vita precedente ho fatto l’insegnante, ma mi viene in mente il solito allievo impreparato, che fa scena muta all’interrogazione e quando l’insegnante gli dà 4 dice: Ma io ho studiato!

La cosa grave è che l’intervistatore tace, non reagisce, non incalza il politico, non gli fa notare che non ha risposto e non pretende che risponda. Nulla. Silenzio. Si passa ad altro. Ad altre domande che innescheranno altre non-risposte. Mistero! Perché il giornalista tollera che il politico non risponda? Qual è il suo lavoro? Per chi lavora?

Nel mondo delle talpe è tutto molto più nitido. Forse siamo delle sempliciotte, ma quel che pensiamo è questo: se ti faccio una domanda, tu per piacere rispondi a quella domanda, non è che te ne puoi partire in tutt’altro discorso. Oppure se non vuoi rispondere lo dici, dici: Mi dispiace, mi scusi, a questo non rispondo, passiamo a un’altra domanda. Onestà. E chiarezza. Non trovate che ci vorrebbero?

Lo dico in un altro modo, con un esempio. Ci troviamo sulla panchina, io e la talpa Cristina mia vicina di casa, chiacchieriamo prendendo un po’ d’aria e godendoci la campagna, e a un certo punto io le chiedo:

Senti, Cristina, tuo figlio ha poi trovato lavoro?

E Cristina mi risponde:

Ma guarda, le patate al forno le puoi fare in vari modi, io le faccio col rosmarino.

Vi par possibile? No, che non vi par possibile. Eppure è quel che succede ogni giorno, più volte al giorno, in ogni rete tivù, a ogni programma, con qualsiasi conduttrice o conduttore, con qualsiasi politico, ministro, sottosegretario o tirapiedi: l’uno pone una domanda precisa e l’altro risponde a tutt’altro. Cioè, non risponde.

E qui, di nuovo, il mio vecchio mestiere mi sovviene: se io durante un’interrogazione chiedevo cos’ha scritto Petrarca, e l’allievo mi rispondeva che Cagliari è una ridente città della Sardegna, io non solo lo mandavo a posto con 2, ma chiamavo anche l’ambulanza, molto preoccupata per la sua salute mentale.

Ora, perché non diamo 2 ai politici? Perché non chiamiamo l’ambulanza?

Perché tolleriamo che non rispondano?

Mi piacerebbe che la smettessimo di tollerare. Che non gliela lasciassimo passar liscia. Mi piacerebbe che, se tu politico non rispondi, io giornalista lo rimarcassi con grande energia: Non hai risposto, Non hai risposto, Non hai risposto! Un po’ à la Sgarbi (può non piacere, ma funziona): Capra! Capra! Capra! E se continui a non rispondere, io chiudo il collegamento dicendo che tu, politico tal dei tali, non hai risposto alle domande. Sancisco la tua non-risposta, ti inchiodo a quel che sei.

Mi piacerebbe che i politici avessero paura di andare in tivù, non che ci andassero allegramente ogni giorno come a un picnic tra amici. Non so se l’avete notato, ma non esiste, qui in Italia, alcun programma tivù in cui i politici temano di andare: non è la prova che il conduttore non sta facendo il suo dovere?

Credo che abbiamo, noi cittadini, il diritto di ricevere risposte. Oggi più che mai, visto il disastro in cui siamo precipitati, credo sia un diritto sacrosanto.

Ebbene, questo diritto io lo vedo continuamente violato, calpestato.

Non capisco perché permettiamo questo, non capisco perché si facciano tante interviste e tanti talkshow se poi si accetta di non avere risposte e si sopportano queste continue elusioni e fughe. È, anche, un’offesa all’intelligenza dei telespettatori, cioè di noi cittadini. Va bene, l’epidemia ci ha resi confusi e inermi, tristi e a tratti disperati. Ma non ci ha ancora instupiditi.

Non capisco che gioco perverso sia, a chi giovi, e chi abbia paura di chi.

Dobbiamo smettere di giocare. E anche di aver paura. Siamo gente libera o no?

Okay, sono risbucata dalla galleria. Siamo di nuovo rinchiusi, quindi le talpe ritornano, e a tratti risbucano.

Non è come l’altra volta, però: adesso dipende da dove abiti. In certi posti sei chiuso, in altri meno, in altri ancora quasi per niente. Questo rende tutto meno semplice, e anche meno chiaro. A marzo c’era una chiarezza adamantina che ci rendeva un pochino più sereni: eravamo tutti chiusi uguale. Ora ce lo chiediamo ogni giorno, se e quanto siamo chiusi, o aperti ma poco, o semichiusi, o chiusi con vista mare, o aperti senza via d’uscita…

Comunque siamo tornati talpe, chi più chi meno. E adesso abbiamo capito che forse la talpitudine non ci abbandonerà mai del tutto, d’ora in poi: sarà uno stato intermittente. Come le lucine di Natale. Avremo una pelliccia marroniccia da indossare in certi periodi, e in certi altri rimettere nell’armadio, con le tasche piene di naftalina. Il mondo è cambiato. Prima, nell’armadio, avevamo solo cappottini di lana o morbidi piumini di penne d’anatra. Ora quella pellicciotta da talpa esiste, e ci squadra con aria minacciosa: Ricordati che sei talpa, e (ogni tanto) talpa ritornerai.

Ogni tanto però usciamo a parlarci, tra talpe. Almeno questo. Parliamoci! Le parole non mi sono mai parse così teneramente inutili… Mi fa tenerezza, la loro abbagliante inutilità. Ma sono convinta che ora meno che mai si debba tacere. Inutili di tutto il mondo, unitevi e parlatevi!

La parola è quel che ci resta, l’unica libertà che nessuno ci può togliere. Meglio se scritta. Scripta manent ancora, tutto sommato: i libri per esempio resisteranno sempre e oggi più che mai devono far sentire la loro voce.

Usiamola dunque, questa parola! Con lealtà, e parsimonia… Ad esempio per esigere risposte.

Pubblicato su La Stampa del 15 novembre 2020