Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 9 dicembre) la temperatura dell’epidemia è scesa di ben 7.1 gradi passando da 150.3 a 143.2 gradi pseudo-Kelvin.

La diminuzione è frutto del miglioramento di tutte e tre le componenti alla base dell’indice (nuovi casi, decessi, ingressi ospedalieri). A calare sono soprattutto i nuovi contagi (nell’ultima settimana si sono registrati +128 mila nuovi casi rispetto ai 160 mila della settimana precedente). Continua ad essere significativa la diminuzione dei decessi (+4.6 mila decessi nell’ultima settimana rispetto ai 5.0 mila di quella precedente).

La riduzione settimanale della temperatura è pari a -26.3 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Il termometro di oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 8 dicembre) segna 150.3 gradi pseudo-Kelvin ed è sceso di 4.5 gradi.

Anche oggi, il miglioramento della temperatura si deve soprattutto al calo dei nuovi contagi (nell’ultima settimana si sono registrati +136 mila nuovi casi rispetto ai 165 mila della settimana precedente). Significativo però è anche il contributo dei decessi che hanno finalmente iniziato a diminuire (+4.8 mila decessi nell’ultima settimana rispetto ai 5.0 mila di quella precedente). Sono rimasti sostanzialmente stabili gli inglesi ospedalieri stimati.

La riduzione settimanale della temperatura è pari a -23.2 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Lockdown a rilento

C’è un certo strabismo, ultimamente, nella comunicazione sul Covid. Il messaggio principale è che dobbiamo stare rinchiusi, e che se ci rinchiudono è “per il nostro bene”, come si dice ai bambini per fargli accettare qualche sacrificio. Il numero dei morti (che viaggia verso quota 1000 al giorno) serve assai bene allo scopo.

C’è però anche un messaggio secondario, che accomuna una parte dei media, qualche analista ingenuo, una parte (minoritaria) del governo, e sostanzialmente tutta l’opposizione: le misure sono eccessive, la curva epidemica sta già piegando verso il basso, le terapie intensive si stanno svuotando, è già tempo di allentare un po’ il freno.

Due visioni opposte, insomma.

E allora proviamo a vedere come stanno le cose. Consideriamo il numero di persone contagiose (in grado di trasmettere il virus) nel mese di giugno, e chiediamoci di quanto è aumentato il loro numero nel tempo. La risposta è che, posto a 100 il numero di soggetti contagiosi a giugno, nella prima settimana di settembre erano 250, nella prima di ottobre erano diventati 500, e nella prima settimana di novembre – quando è decollato il semi-lockdown in corso, erano 2500, a dispetto delle (blande) misure adottate nel corso di ottobre. Dopo due settimane di semi-lockdown la curva epidemica era ulteriormente salita (il nostro numero-indice a base giugno segnava quasi 3000), e solo negli ultimi 10-15 giorni ha cominciato a scendere. Ora siamo a circa 2500, cioè allo stesso livello di un mese fa: il semi-lockdown è stato così blando che, nella prima settimana di dicembre, siamo messi più o meno come lo eravamo nella prima settimana di novembre. In breve, siamo ancora lontanissimi dalla situazione di giugno.

Eppure, ci viene obiettato, le terapie intensive si stanno svuotando, il sistema sanitario non è più sotto pressione come fino a poche settimane fa. Dimenticano che, con 7-800 morti al giorno, le terapie intensive cominciano (lentamente) a svuotarsi semplicemente perché il numero di decessi è ancora più grande del numero di nuovo ingressi: se entrano 700 pazienti al giorno, ma ne escono in quanto deceduti 750, si “liberano” 50 posti. Non mi sembra un bel modo di “alleggerire” la pressione sul sistema sanitario.

La realtà è che, per ora, il semi-lockdown sta dando risultati estremamente deludenti. Il valore di Rt è sceso finalmente sotto la soglia critica 1, ma lo ha fatto in una misura così piccola da rendere lentissimo il percorso di abbassamento della curva epidemica. Al ritmo attuale, occorrono 5-6 mesi di chiusura per riportare il numero di infetti al livello di sicurezza raggiunto a giugno. E anche si tornasse a un lockdown totale, come quello attuato dal 22 marzo al 3 maggio, di mesi ne occorrerebbero 2.

E’ una situazione paradossale. Il governo si vanta di non avere imposto un lockdown generalizzato, duro come quello di marzo. L’opposizione, anziché fare due conti e obiettare che di questo passo andiamo a finire a Pasqua, non trova di meglio che invocare aperture, veglioni, sciate e messe in presenza: un insperato assist al governo, che ne esce con l’aureola della saggezza e della prudenza.

Che cos’è che non va?

Non va che non ci stanno dicendo le cose come stanno. Ai ritmi attuali il semi-lockdown ci porterà, dopo l’Epifania, a quota 1400, ossia 14 volte più contagiati che a giugno. E anche immaginando che il valore di Rt dovesse essere abbastanza simile a quello toccato nel lockdown di marzo, tutto quel che potremmo sperare entro l’Epifania è di arrivare vicino a quota 500, dunque 5 volte il numero di contagiati di giugno. Insomma, in una situazione di rischio non trascurabile.

Dunque, dove ci stanno portando?

Temo che stiano navigando a vista, come hanno fatto dal primo giorno. Non possono fare un lockdown totale, perché hanno promesso di non farlo, e comunque non basterebbe. Non possono aprire, o allentare il lockdown come pretende l’opposizione, perché sarebbe un disastro. Non possono ammettere che a gennaio il numero di persone contagiose sarà ancora troppo alto, e che la riapertura porterà di nuovo Rt sopra 1. Non sono abbastanza umili da chiedere scusa, e fare oggi quel che dovevano fare ieri sui terreni chiave: tamponi, tracciamento, medicina territoriale, trasporti.

Una sola cosa sembrano avere in testa: che il vaccino, salvando noi, salverà loro.

E’ l’errore più grande. Perché, anche dovesse tutto filare liscio, il vaccino non risolverà certo l’emergenza del primo semestre 2021, quando milioni di persone avranno l’influenza, la curva epidemica tornerà a salire, e l’arma del lockdown non potrà più essere usata senza distruggere definitivamente l’economia.

Meglio pensarci ora, all’emergenza che verrà, e “non dire gatto se non ce l’hai nel sacco”. Parola di Trapattoni.

Pubblicato su Il Messaggero del 5 dicembre 2020




Il termometro dell’epidemia (release 1.0)

Il termometro di oggi (ultimo dato disponibile, ore 18.00 del 4 dicembre) è sceso di 3.6 gradi, passando da 166.6 a 163.0 gradi pseudo-Kelvin.

Questo risultato si deve al calo di tutte e tre le componenti alla base dell’indice (nuovi contagi, ingressi ospedalieri, decessi). La diminuzione più consistente continua ad essere registrata dai nuovi contagi (nell’ultima settimana si sono registrati +154 mila nuovi casi rispetto ai 192 mila della settimana precedente).

La riduzione settimanale della temperatura è pari a -30.3 gradi.

Va ricordato, come sempre, che l’andamento della temperatura non riflette quello dei contagi attuali, ma quello dei contagi avvenuti 2-3 settimane fa.

Per maggiori dettagli si rimanda alla Nota tecnica.




Cultura e stili di vita centrati sul presente, sindrome del nostro tempo

Uno dei più grandi giuristi del nostro tempo Ernst Wolfgang Boeckenfoerde, in uno scritto ripreso in Diritto e secolarizzazione (ed. it. Laterza 2010), si chiedeva «in quale misura i popoli riuniti in uno Stato possono vivere soltanto della garanzia della libertà del singolo, senza un vincolo unificatore preesistente a questa libertà?». I singoli in virtù del processo di secolarizzazione, che in sostanza estrometteva Dio dalla politica, «dovettero cercare una nuova comunanza e omogeneità, se non volevano che lo Stato cadesse in preda alla disgregazione interna, che porta poi con sé un cosiddetto totale controllo esterno». Nel XIX secolo «una nuova forza unificatrice subentrò a quella antica: l’idea di Nazione. L’unità della Nazione prese il posto dell’unità religiosa e fondò una nuova omogeneità, sia pure orientata in senso più esteriore e politico». Sennonché la Nazione – e lo Stato nazionale – ha perso da tempo la sua «efficacia formativa» e non solo in molti Paesi europei.

Le parole di Boeckenfoerde fanno venire in mente uno degli scritti più ispirati di Rosario Romeo, il principe della storiografia italiana della seconda metà del Novecento, Nazione (1979) pubblicato nell’ “Enciclopedia del Novecento” (e ripreso poi nella raccolta Italia, mille anni ( Ed. Le Monnier). Nella nostra epoca, sosteneva l’Autore, «sono così diffuse e presenti nella cultura di tutto il mondo le tentazioni e i rischi di una concezione e di uno stile di vita tutto risolto nel presente e non più in grado di conferire all’esistenza degli uomini quel senso e significato che viene dalle grandi concezioni storiche e religiose». La causa veniva riportata alla crisi dello Stato nazionale che ha coinciso con un drastico abbassamento della vita culturale. «Quale può essere, si chiedeva Romeo, il livello della vita collettiva in un Paese che ha di fatto rinunciato a decidere in modo autonomo dei propri destini, limitando la propria realtà essenzialmente alla buona amministrazione e alla corretta gestione dell’economia, e rinviando invece ad altre potenze, di altro rango e statura internazionale, le decisioni relative dai grandi problemi della sicurezza e della pace nel contesto mondiale?». La grande potenza diventava, così, condizione necessaria (ma non sufficiente) di responsabilità, di elevazione culturale, di etica pubblica, di senso profondo della dignità del cittadino. Non a caso nel corso universitario tenuto su Richelieu, lo storico legava il ruolo internazionale acquisito dalla Francia grazie al cardinale, all’egemonia che la lingua francese esercitò per due secoli sul vecchio continente, alla grande letteratura, al teatro, all’arte, alle scienze che trovarono a Parigi stabile dimora.

A rileggere le pagine di Boeckenfoerde e di Romeo sembra di trovarsi in un altro pianeta. In particolare la critica mossa dal secondo alle teoriche federaliste (che attribuivano allo stato nazionale la responsabilità di tutte le guerre e dei tutti i crimini), le riserve (già di Benedetto Croce) sul Tribunale di Norimberga, la denuncia della divisione della Germania, l’assenza di retorica occidentalista nel racconto della seconda guerra mondiale sono polpette avvelenate per la mensa del “politicamente corretto”. Quest’ultimo non comprende solo il buonismo universalista ma il ripudio stesso della storia, vista illuministicamente, come un catalogo di violenze insensate, di sopraffazioni, di negazione dei diritti più elementari alla libertà, alla dignità, al rispetto. La cancel culture è il lievito spirituale di quella contraffazione del liberalismo classico che è il moderno libertarismo di ispirazione nordamericana. Quest’ultimo riprende e assolutizza tematiche della grande scuola austriaca degli Hayek e dei Mises, fa a pezzi, nella galleria della “società aperta”, le statue di Immanuel Kant, di John Stuart Mill, di Alexander Hamilton di Max Weber, di Benedetto Croce. La sua filosofia politica è molto semplice: dove c’è stato, c’è nazione, dove c’è nazione, c’è fascismo.

Per il filosofo del diritto, Carlo Lottieri, autore dell’agile manuale Liberali e non. Percorsi di storia del pensiero politico ( Ed. La Scuola 2013) John Stuart Mill – l’autore di On Liberty – si colloca al di fuori del liberalismo non avendo compreso come «le potenzialità negative della ricchezza e delle idee» fossero «una minaccia alla libertà solo indirettamente, quando si alleano con la politica», ovvero con lo Stato moderno, che si è abbattuto sul povero genere umano facendo più vittime delle dieci piaghe d’Egitto. Non lo sfiora neppure l’idea del rapporto libertà individuale/statualità: la fine dell’ordine medievale, con la sua «logica policentrica» è per lui l’inizio del grande arretramento del diritto che nasce dal basso, dal rapporto di persone concrete che stipulano accordi circoscritti e l’ascesa del Leviatano che tutto spiana al suo passaggio. Se ne deduce che il passato – con le sue glorie, con i suoi monumenti civili, con le sue culture impensabili senza i grandi conflitti di civiltà – va rimosso come un incubo che ancora grava sulle nostre vite. Che senso ha idealizzare la regina Vittoria, imperatrice delle Indie, erigere monumenti ai grandi zar modernizzatori, a Giuseppe Mazzini, reo di ritenere che senza la dimensione collettiva e nazionale gli Italiani saranno sempre i paria tra le nazioni, ai grandi re che fecero la Francia – soffocando come riteneva Proudhon l’anima delle singole regioni?

Che si possa fondare una “scuola di pensiero” su queste idee, su questa visione del mondo, si può comprendere. Dovremmo però essere consapevoli che esse creano una frattura insanabile nella cultura liberale. Il liberalismo classico (non quello di Lottieri) nasce dalla profonda meditazione sulla storia, da una critica del razionalismo fondata non su un astratto giusnaturalismo – i diritti individuali assoluti che lo Stato moderno mette in forse – ma sullo scetticismo classico, anch’esso, inteso come senso della relatività delle opinioni, che si traduce in bargaining, in compromesso tra i valori politici in conflitto affidato all’arte politica.

Pubblicato su Il Dubbio del 28 novembre 2020