Lettera sulla cattiva gestione della pandemia

“Quando la prudenza è ovunque il coraggio non è da nessuna parte”
Cardinale Mercier

Caro professor Ricolfi,

in riferimento al suo articolo del 25/4 sul perché non sia stato fatto ciò che ragionevolmente andava fatto per combattere la pandemia, che lei spiega con la superbia e la sordità dei governanti e con la loro incapacità di imparare dagli errori fatti, vorrei suggerirle uno spunto di riflessione diverso.
Anch’io mi arrovello per cercare di spiegarmi scelte, decisioni e comportamenti inspiegabili e alla fine mi sono convinto che almeno una parte in tutto questo ce l’ha l’ostinata “avversione al rischio” della nostra società, dei nostri tempi.

Io sono un medico di base e quindi sulle notizie monotone dell’ultimo anno e mezzo ho sia le conoscenze teoriche che la conoscenza diretta di quello che succedeva per poter fare delle valutazioni affidabili. Ho vissuto il disorientamento dei medici e dei pazienti con i primi casi, ho lavorato e continuo a farlo nelle USCA e ho visto il lento sedimentarsi di procedure efficaci, ho battagliato con strutture burocratiche (uffici di igiene ecc.) assolutamente inadeguati e incapaci di modificarsi, ho affrontato con i pazienti i mille problemi, e spesso errori clamorosi, nei certificati di quarantena, nelle richieste dei tamponi e così via,  ho fatto i vaccini e ho visto come vengono fatti dai colleghi e dai cosiddetti hub, insomma posso abbastanza seriamente definirmi un “esperto” di questa faccenda.

Molte cose non tornavano, nelle scelte dei governanti, nelle rivendicazioni degli operatori, nelle dispute scientifiche e, a copertura di tutto questo, nell’informazione scandalosamente unidirezionale (e spesso fuorviante ad arte) che è stata data. Ed è stata proprio questa univocità dell’informazione, da regime anche se non c’è un regime, che mi ha fatto pensare che una parte importante nelle scelte prese ce l’ha avuta una mentalità prevalente su tutto che è l’esagerata avversione al rischio che permea tutta la nostra società.

All’inizio c’è stata soprattutto l’avversione al rischio di ammalarsi, che ha fatto chiudere la maggior parte degli studi medici (con l’avvallo stupefacente del ministero della salute che non voleva essere accusato di “mandare al macello” i medici, pensi un po’ come avrebbero fatto con questa mentalità a spengere la centrale di Cernobyl…). Poi accanto a questa è comparsa una marea di burocrazia con una gara a chi metteva più regole (sempre per tutelare le persone ovviamente!), pensi alla saggia decisione di liberare dalla quarantena dopo massimo 21 giorni i guariti che ancora risultano positivi al tampone subito contraddetta da una regola più “protettiva” del (credo) ministero del lavoro (o forse un successivo DPCM…) che impediva il ritorno al lavoro finché non si ha un tampone negativo (questo vuol dire per esempio che un dipendente di un supermercato può tranquillamente andare lì a fare la spesa ma non a lavorare (non si dica mai che i nostri governanti facciano esporre al rischio i lavoratori e che i sindacati gli piantino una grana).

Le faccio un ultimo esempio: le vaccinazioni. A parte i primissimi tempi in cui era d’obbligo una maggior cautela, da marzo – aprile quando hanno cominciato a darli anche ai medici di famiglia ormai era noto che non sono vaccini più pericolosi di quello per l’influenza (e comunque quei rarissimi casi di complicazioni non si possono prevedere prima). Eppure questa vaccinazione è stata resa farraginosa da una burocrazia ipertrofica (si figuri che nel consenso informato che ci ha fornito l’Asl per vaccinare gli ultraottantenni, per le donne bisognava barrare anche la casella se erano incinta o allattavano) per cui molti miei colleghi si sono spaventati (rischi di avere grane burocratiche o legali, si torna sempre lì) e ne hanno fatti pochissimi. Soprattutto non ne hanno fatti a domicilio, che pure in quella fascia di età è a volte necessario. All’inizio era un avvertimento della ditta produttrice (Pfizer) che per somma cautela avvertiva che non era stata sperimentata l’efficacia del vaccino con il trasporto dopo la diluizione (sono molecole instabili e poteva essere); alla fine di marzo è arrivato il comunicato Pfizer che si poteva trasportare senza problemi. A me sembrava sufficiente per cui io ho cominciato a farli anche a domicilio ma il coordinatore dei medici della nostra zona in una riunione ha diffidato tutti dal farlo finché non ci fosse stata una dichiarazione ufficiale da parte della Regione Toscana (ma le pare possibile che un medico debba avere un’autorizzazione da parte di un funzionario della regione per fare una cosa che a quel punto era scritta a chiare lettere nel bugiardino del vaccino se non per la solita esagerata prudenza?). Risultato: la maggior parte dei vaccini a domicilio li ha dovuti fare l’Asl con altri medici e infermieri e sa quanti riescono a farne? Sei in sei ore (un medico con un infermiere più un altro medico che passa le giornate al telefono per fissare gli appuntamenti). Mostruosamente inefficiente ma nessun rischio, burocratico ovviamente, perché le complicanze vere, quelle sono identiche anche se ne fanno una al giorno.  Chi emana queste regole non vuole rischiare di essere considerato poco attento alla sicurezza dei suoi dipendenti e dei pazienti e di prendersi una denuncia o un rimbrotto dai suoi superiori sempre per lo stesso motivo e così via fino al ministro della sanità che oltre alle denunce della magistratura teme anche di scontentare i suoi elettori che ormai sono abituati a pretendere un bassissimo livello di rischio.

Cosa è successo negli ultimi anni per produrre questo atteggiamento? Molte leggi a protezione della salute, degli infortuni, della privacy sono giuste ma mi sembra che siano usate oltre la loro necessità e soprattutto in questo caso sembrano più forti dell’emergenza.  Sono i social media che fanno lievitare le paure? Sono i colossi del web che agiscono da persuasori occulti per renderci insicuri affinché sempre più viviamo nel web? Ho solo delle idee vaghe e confuse ma sento che quello che è successo con questa pandemia non si spiega solo con “la superbia e l’arroganza dei governanti e la loro incapacità di imparare dagli errori” che pur ci sono.




Legge Zan: abroghiamo i reati di opinione

Ferve il dibattito sulla cosiddetta legge Zan. Il vero problema è costituito però dall’art. 604 bis del codice penale a cui la proposta rinvia per integrarla.

È di tutta evidenza infatti che non vi è ragione logica e giuridica per non estendere la tutela prevista dal codice penale agli atti di violenza o di discriminazione per motivi sessuali, visto che giustamente questo tipo di atti è già represso laddove siano causati da motivazioni razziali, etniche, nazionali, religiose. Il primo comma dell’articolo 3 della Costituzione non solo legittima, ma impone la suddetta estensione della portata dell’art. 604 bis c.p.

Il vero problema è l’eccessivo ambito applicativo di detto articolo. Un conto sono infatti gli atti di violenza ovvero gli atti discriminatori che hanno una loro manifesta e immediata concretezza. È pure condivisibile sanzionare l’incitamento alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi, e ovviamente sessuali, data la evidenza e normale inequivocità del comportamento represso. Sarebbe semmai opportuno inserire anche i motivi politici. Incitare alla violenza contro chi non la pensa come te non è accettabile in un Paese democratico.

Completamente diverso è invece l’incitamento o la istigazione a commettere atti di discriminazione per motivi fondati su religione, razza, nazione, sesso, genere etc. È opportuno fare qualche esempio.

Se qualcuno dovesse affermare che certe interpretazioni radicali dell’Islam, ancorché non dichiarate fuorilegge, sono pericolose e vanno contrastate, alla luce di una interpretazione letterale dell’art.604 bis, potrebbe essere oggi denunciato per istigazione alla discriminazione religiosa. Se poi dovesse anche affermare che all’interno di talune comunità etnicamente caratterizzate la illegalità è molto diffusa, potrebbe essere pure perseguito per incitamento alla discriminazione etnica. Con il progetto di legge “Zan” il rischio di una denuncia potrebbe correrlo anche chi dovesse sostenere che l’unica famiglia degna di essere incoraggiata con provvidenze economiche è quella fondata sull’unione fra due persone di sesso diverso: da questa premessa taluno potrebbe facilmente dedurre che si vuole istigare a discriminare sulla base degli orientamenti sessuali.  Persino criticare l’utero in affitto, da parte di chi intendesse seguire dettami religiosi, potrebbe dar luogo quanto meno a denunce penali.

L'”incitamento alla discriminazione” costituisce qualcosa di magmatico e di indefinito che necessita sempre di una precisazione interpretativa, lasciando ampio arbitrio alle valutazioni soggettive del Pubblico Ministero e del Giudice.

Tutto ciò è certamente intollerabile perché rischia di violare il principio della libera manifestazione del pensiero. Di ciò si rende ben conto lo stesso legislatore che all’articolo 4 è costretto a riconoscere (bontà sua) che è consentita la libera espressione di convincimenti od opinioni, introducendo peraltro una inaccettabile previsione ulteriore: “sono fatte salve le condotte legittime purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori”. Si puniscono condotte “legittime” (SIC!) sulla base del semplice rischio che possano determinare atti discriminatori: una norma da Stato autoritario. Questo articolo va certamente riscritto.

La ulteriore, grave conseguenza di questa discrezionalità interpretativa sarebbe la differenza di trattamento da procura a procura e da tribunale a tribunale. Le citate affermazioni del codice penale introducono cioè margini di discrezionalità tali che possono determinare incertezza del diritto e violazione del principio di eguaglianza.

Insomma, prima di discutere la legge Zan, appare prioritaria una modifica dell’art. 604 bis c.p. nella parte in cui porta a reprimere la “istigazione a commettere atti di discriminazione”.

Pubblicato su Libero del 7 maggio 2021




Bandiere ammainate

Ora che abbiamo due possibili leggi sulla “omotransfobia” (che parola orribile!), ovvero la legge Zan, già approvata alla Camera, e la legge Ronzulli, presentata pochi giorni fa, possiamo star certi che se ne parlerà per un po’. Su entrambe ho maturato qualche idea, ma non è di questo che voglio parlare qui, se non altro perché l’argomento ha aspetti tecnico-giuridici che non si lasciano affrontare nello spazio di un articolo di giornale. Quello su cui vorrei attirare l’attenzione, invece, è lo sfondo sociologico e culturale su cui questo dibattitto prende forma. Perché lo sfondo è importante, e inevitabilmente influenza il modo in cui le leggi sono interpretate e applicate.

Ebbene, qual è lo sfondo?

Se la questione me l’avessero posta 20 anni fa, avrei risposto soltanto: lo sfondo è il politicamente corretto, ovvero la pretesa di una parte politica (per inciso: quella cui, con crescente imbarazzo, mi sono sempre sentito più vicino) di avere il monopolio del bene. I diritti di gay, lesbiche, transessuali, “diversi” in genere, sono sempre stati a cuore più alla sinistra che alla destra, e anche su questo – oltreché sulla difesa intransigente degli immigrati – il mondo progressista ha costruito l’intima convinzione di essere dalla parte del bene o, peggio, di rappresentare “la parte migliore del paese”. Visto da sinistra, il conflitto politico non è fra due diverse idee del bene, ma fra i paladini del bene e quelli del male (fascisti, razzisti, odiatori delle minoranze oppresse). Io stesso, quando scrissi Perché siamo antipatici? (era il 2004), vedevo nel “complesso dei migliori” il principale disturbo della cultura di sinistra.

Ma oggi?

Oggi non è più così. O meglio non è solo così. Non tanto perché, dopo la (purtroppo breve) parentesi di Veltroni, unico leader progressista che abbia almeno provato a trattare la destra come avversario e non come nemico, il complesso dei migliori si è aggravato, ma perché sul complesso dei migliori si è innestata una nuova patologia: la costruzione sistematica, talora al limite del ridicolo, di categorie di persone definite fragili, e come tali bisognose di tutela. Il fenomeno è nato negli Stati Uniti, si è diffuso nei paesi europei eccessivamente civilizzati (sto usando l’ironia, per chi non sapesse riconoscerla), ed ora sta sbarcando anche in Italia. L’aspetto interessante di questo fenomeno è che mescola e confonde fragilità incontrovertibili (ad esempio i disabili, o comunque vogliate chiamarli), fragilità connesse a pregiudizi (ad esempio gli omosessuali), fragilità per così dire naturali (ad esempio gli introversi) e infine fragilità indotte dalla deriva vittimistica in atto nella maggior parte dei paesi occidentali. Lo zenit di tale deriva è la pretesa dei singoli (ad esempio gli studenti di un campus) di essere chiamati con articoli e desinenze appropriate (he, she, ze) e, ancora più demenziale, l’obbligo per i professori di avvertire i loro studenti che potrebbero essere turbati da opinioni contrarie alla propria, o da passi scabrosi, offensivi, o politicamente scorretti di opere classiche: la Divina Commedia, il libro Cuore, Biancaneve, la mitologia greca, eccetera. Come se la suscettibilità individuale, la paura del diverso, la pretesa di non incontrare mai – nemmeno in un film, o in un racconto, o in una poesia – cose che urtano la nostra sensibilità, fossero caratteristiche ascritte e immodificabili, e non limiti soggettivi che individui maturi dovrebbero imparare a superare (un compito cui, invano, lo stesso Barack Obama ebbe ad esortare i giovani)

Ne ha parlato più volte Federico Rampini, che ha definito la società americana “una collezione di minoranze suscettibili”. Ma ben prima avevano iniziato a discuterne gli psicologi americani, preoccupati della tendenza dei genitori a iper-proteggere i figli, scusandone ogni manchevolezza e alimentandone ogni insicurezza. E’ del 2004, ad esempio, il saggio di Hara Estroff Marano A Nation of Wimps, che assiste allibita e preoccupata alla costruzione di una generazione di “schiappe”. E, più recentemente, è di un’altra psicologa americana, Jean Twenge, la più accurata radiografia della distruzione di ogni autonomia e fiducia in sé stessi della i-generation, la generazione degli iper-connessi. Processi di cui, finalmente, si comincia a parlare  anche in Italia, grazie a libri come quello di Walter Siti (Contro l’impegno, Rizzoli), che descrive minuziosamente la degenerazione della letteratura in pedagogia politica, o come quello di Guia Soncini (L’era della suscettibilità, Marsilio),  un capolavoro di intelligenza e ironia che mette a nudo la follia dei nuovi censori del pensiero e guardiani del linguaggio.

Ed eccoci al punto, il clima in cui le leggi Zan e Ronzulli si contendono il campo. Qualsiasi cosa si pensi dei pregi e difetti delle due leggi, è difficile non riconoscere che nell’arduo (in realtà: impossibile) compito di tutelare alcune minoranze e al tempo stesso preservare pienamente la libertà di espressione, il pendolo della legge Zan pende dal lato della tutela delle minoranze, quello della legge Ronzulli dal lato della libertà di espressione.

E’ un male?

No, è solo sorprendente. Sono stato abituato a pensare che la censura fosse “una cosa di destra”, e che la difesa delle libertà di opinione, di pensiero e di espressione fossero ben incise nelle tavole dei valori del mondo progressista. Così come ero abituato a pensare che la lotta contro le diseguaglianze fosse il primo imperativo della sinistra. Mi ritrovo invece a constatare che, contro la più grande frattura sociale dell’Italia post-Covid, quella fra il mondo dei garantiti (a reddito fisso) e quello dei non garantiti (esposti ai rischi del mercato), oggi è la destra – con la risoluta difesa dei lavoratori autonomi e dei loro dipendenti – ad agitare la bandiera della lotta alle diseguaglianze. E che, di fronte alle problematiche della “omotransfobia”, è innanzitutto la destra a farsi carico della difesa della libertà di espressione, mentre la sinistra semplicemente si rifiuta di vedere un problema che l’onda del politicamente corretto e “l’era della suscettibilità” rendono drammaticamente attuale.

Viviamo in un tempo ben strano…

Pubblicato su Il Messaggero dell’8 maggio 2021




La Neolingua virale

Nei miei precedenti articoli ho sottolineato più volte come nei paesi occidentali, Italia in testa, al di là della pessima gestione del virus ci sia stato anche un evidente tentativo di strumentalizzarlo a fini di potere, per rafforzare i partiti tradizionali, oggi quasi tutti in crisi, mettendo al tempo stesso all’angolo i movimenti antieuropeisti, in genere propensi a simpatizzare con le teorie complottiste e negazioniste.

Questo si può ottenere con vari metodi, ma il più efficace (e quindi il più pericoloso) resta sempre, come ci ha insegnato Orwell, il controllo del linguaggio. Di conseguenza, la creazione di una vera e propria Neolingua virale (nel doppio senso di ispirata al virus e di rapidissima diffusione) è un fenomeno estremamente preoccupante, che merita una attenta analisi.

Tale manipolazione è avvenuta ed avviene tuttora a vari livelli, il primo dei quali è rappresentato dall’uso della menzogna e della censura, che è stato particolarmente grave e diffuso soprattutto sotto il governo Conte, ma anche adesso non è certo finito. Solo per fare un esempio, proprio in questi giorni il Sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri ha dichiarato che la “mitica” app Immuni non è stata un «fallimento», ma “soltanto” una «delusione», dovuta (ça va sans dire) «all’attacco ingiustificato subito dal centrodestra», concludendo che «anche tracciando solo pochi contagi, Immuni resta utile» (La Stampa, 4 maggio 2021, p. 3). L’affermazione è semplicemente incredibile, dato che Immuni ha tracciato in totale poco più di 5000 contagi, cioè un numero assolutamente inutile o, più esattamente, ridicolo (più o meno quanti negli ultimi mesi di verificavano in sole 6 ore), il che le garantisce un posto di tutto riguardo nelle pur lunghissima hit parade di vergognosi fallimenti vantata (purtroppo) dal nostro paese. Tuttavia, di questo ho già parlato ampiamente nell’articolo Il virus dell’autoritarismo, pubblicato in questo stesso sito, a cui pertanto rimando.

Qui aggiungerò soltanto che sta diventando davvero preoccupante il fenomeno della censura dei “dissidenti” da parte dei social media, che in molti casi è giunta fino alla disattivazione dell’account. La cosa è già inaccettabile di per sé, ma lo diventa ancor più se consideriamo che si tratta di aziende private a scopo di lucro, che non hanno mai dimostrato di avere molto a cuore la verità e che, soprattutto, si assumono la responsabilità dei propri contenuti solo a intermittenza, cioè, in pratica, quando la pressione mediatica su un determinato tema è tale da mettere a rischio i loro introiti pubblicitari (un buon punto di riferimento per una riflessione al riguardo è l’articolo pubblicato su questo sito da Mark Bosshard qualche mese fa, quando il fenomeno non era ancora così grave.

La manipolazione del linguaggio in senso stretto, però, è qualcosa di più della semplice menzogna, perché riguarda il modo in cui la menzogna viene fatta passare, che è più sottile (e quindi più pericoloso) del semplice nascondere o negare la verità.

In realtà, la creazione di qualcosa di simile alla Neolingua di 1984 all’interno della nostra società si stava già verificando da diverso tempo, in parte per un processo spontaneo dovuto al progressivo imbarbarimento della società e in parte sotto la spinta di diverse istituzioni, tra cui in primo luogo le grandi burocrazie nazionali e, soprattutto, internazionali. Tuttavia, il virus ha dato un impulso formidabile a questo processo, non solo per le dinamiche che si sono create e di cui ora parleremo, ma anche perché l’esperienza dimostra che tale processo è molto favorito dalla comunicazione via Internet, che con la reclusione forzata a cui siamo stati sottoposti per oltre un anno è cresciuta esponenzialmente.

Un primo tipo di manipolazione è l’uso di termini tecnici di per sé del tutto “neutrali”, come “pandemia”, Covid-19”, “SARS-CoV2” e simili, come se fossero una sorta di “parola d’ordine”, che viene ripetuta (spesso senza neanche sapere cosa significa esattamente) solo per dimostrare la propria lealtà al sistema, come aveva magistralmente spiegato già nel 1978 Václav Havel, il più celebre dissidente della Cecoslovacchia, di cui poi divenne Presidente dopo la caduta del regime comunista: «Il direttore del negozio di verdura ha messo in vetrina, fra le cipolle e le carote, lo slogan: “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”. Perché l’ha fatto? Cosa voleva far sapere al mondo? […] Il motivo […] non è […] la speranza che qualcuno lo legga o l’idea di convincere qualcuno di qualcosa, ma quello di creare, insieme con migliaia di altri slogan, proprio quel panorama che tutti conoscono bene. Panorama che ha anch’esso il proprio significato occulto: ricorda all’uomo dove vive e cosa ci si aspetta da lui; gli comunica cosa fanno gli altri e cosa deve fare anche lui se non vuole essere escluso, cadere nell’isolamento, dividersi dalla società, violare le regole del gioco e rischiare quindi la perdita della propria tranquillità e della propria sicurezza» (Il potere dei senza potere, La Casa di Matriona – Itacalibri, Milano – Castel Bolognese, 2013, pp. 37 e 48). Non è forse una descrizione esattissima anche di ciò che sta accadendo oggi? È per questo che, come forse qualcuno avrà notato, io cerco il più possibile di evitare questi termini, preferendo altri più generici e di per sé meno precisi, come “epidemia”, “virus”, ecc.

La creazione della Neolingua in senso stretto inizia tuttavia solo con l’uso improprio o addirittura insensato di termini di uso comune o con la loro sostituzione con altri creati artificiosamente a tavolino. Per esempio, “distanza sociale” in italiano indica la distanza tra ricchi e poveri, mentre qui viene usata per indicare quella che andrebbe chiamata “distanza di sicurezza”. “Sanificare” o “igienizzare” non sono, a rigore, termini scorretti, ma sono comunque termini del burocratese che sostituiscono il più normale “disinfettare”, così come i termini DPI (“dispositivi di protezione individuale”) al posto di “mascherine” e “tute” e la famigerata DAD (“didattica a distanza”) al posto di teledidattica.

Questo potrebbe non sembrare ancora troppo grave, ma, come sempre Orwell ci ha magistralmente spiegato, per i creatori di Neolingue la sostituzione dei termini del linguaggio naturale con barbarismi creati a tavolino rappresenta di per sé stesso un progresso verso l’obiettivo del controllo totale, perché allontanare le persone dall’espressione naturale del loro pensiero significa allontanarle da sé stesse, confondendole e riducendo la loro capacità di pensare in modo autonomo.

Una riprova indiretta della correttezza della sua intuizione è rappresentata dall’esperienza della Università UCSS-Nopoki di Atalaya, nell’Amazzonia peruviana, con cui collaboro da molti anni, che è nata dall’idea che per preservare l’identità dei popoli amazzonici occorre in primo luogo preservare i loro linguaggi: la cosa sta funzionando, il che significa non solo che l’ipotesi è vera, ma che è vero anche l’inverso, cioè che distruggendo un linguaggio si distrugge anche l’identità del popolo che lo parla (tra parentesi, anche se non c’entra: prima o poi sarebbe il caso di cominciare a riflettere su quanto le differenze linguistiche pesino sulla difficoltà di creare una vera Unione Europea, in cui tutti sentano intimamente di appartenere a uno stesso popolo).

Comunque, l’ultimo e più preoccupane livello è quello in cui il cambio o l’uso improprio della terminologia portano con sé anche una distorsione o addirittura una falsificazione della realtà, il che con il Covid si è verificato con allarmante frequenza.

Comincio da un esempio che trovo particolarmente irritante, cioè l’uso della parola “ristori” al posto di “risarcimenti”, di cui distorce sottilmente il significato, comunicando subliminalmente l’idea che si tratti non di un atto dovuto che deve essere calibrato in base al danno subito, ma piuttosto di una generosa concessione che ha lo scopo, assai più limitato, di dare un po’ di respiro e la cui entità è decisa in base alla benevolenza del governo (il che, in effetti, era esattamente quel che Conte & C. avevano in mente).

Un altro esempio è l’uso di un linguaggio “militare”, che non solo è fuori luogo, ma spesso serve a giustificare comportamenti e provvedimenti in realtà assurdi. Si va dai paragoni con le guerre, tesi a suggerire che siamo di fronte a un’apocalisse (dimenticando che le malattie hanno sempre fatto molti più morti delle guerre: per esempio, senza Covid ogni anno in Italia muoiono 600.000 persone, quanto in tutta la Prima Guerra Mondiale) e che perciò “non dobbiamo dividerci e criticare” (il che nelle guerre vere ha senso, perché un esercito unito può vincere anche se non sta seguendo la strategia migliore, ma nella “guerra” al virus no), fino alla grottesca vicenda del “coprifuoco”, che in guerra significa innanzitutto spegnimento delle luci durante la notte (da cui il nome) per impedire di essere visti dagli aerei nemici, mentre qui è sinonimo di “divieto di uscire di notte”, il che non serve assolutamente a nulla, giacché le probabilità di contagio all’aria aperta è molto bassa (cfr. Ricolfi) e lo diventa ancor più di notte, quando il numero di persone in circolazione è in ogni caso molto inferiore, mentre danneggia tanto gravemente quanto insensatamente bar e ristoranti (qualcuno è mai stato in grado di spiegare in modo intelligibile perché cenare in un locale dovrebbe essere sicuro alle 21,59 e pericoloso alle 22,01?).

E con questo arriviamo all’aspetto in assoluto più pericoloso della Neolingua virale, ovvero all’uso di termini tecnici in senso distorto, in modo tale da determinare convinzioni e, di conseguenza, comportamenti errati.

Il primo di questi equivoci è senza dubbio relativo al concetto di “paese più colpito”, che viene sempre determinato in base al valore assoluto dei contagi e (meno frequentemente) dei morti, il che ha permesso di perpetuare per mesi delle vere e proprie leggende urbane, come quella che l’Italia avrebbe fatto meglio degli USA del “cattivo” Trump solo perché aveva meno morti in assoluto, ma con una popolazione 6,5 volte inferiore, per cui in rapporto ad essa ne ha sempre avuti di più. E l’esperienza non ha insegnato nulla, perché l’equivoco si sta ripetendo tale e quale in questi giorni con l’India: certo, 350.000 contagi e 3.500 morti al giorno fanno impressione, ma, considerando che la popolazione dell’India è 23 volte la nostra, in realtà i valori relativi sono addirittura inferiori ai nostri, anche se è vero che la nostra situazione è in sia pur faticoso miglioramento, mentre la loro è in rapido peggioramento, ma questo non giustifica che in tutti i giornali e telegiornali per l’India si parli di “catastrofe” e se ne ritenga responsabile il governo, mentre nulla del genere accade per l’Italia.

Segue a ruota l’equivoco relativo ai mitici “assembramenti”, che da sempre vengono indicati come la principale causa della diffusione del virus, il che ha portato il governo Conte e tutti gli altri che lo hanno stolidamente imitato a concentrarsi quasi esclusivamente sulle attività all’aperto e sui locali aperti al pubblico, in particolare quelli legati alla non meno mitica “movida” (che la maggior parte di coloro i quali oggi se ne riempiono continuamente la bocca prima non sapeva neanche cosa volesse dire).

Questa convinzione si è formata in gran parte per caso, a causa di uno di quei cortocircuiti politico-mediatici che fanno sì che certe idee buttate lì senza troppo riflettere si diffondano a tal punto da diventare dogmi indiscutibili prima ancora che si abbia il tempo di valutarle scientificamente. La cosa incredibile, però, è che in questo caso non c’era affatto bisogno di nuovi studi, giacché era chiarissimo fin dall’inizio che questa idea era completamente sbagliata, sia in base ai primi studi sui dati di Wuhan, forse l’unica cosa buona fatta dalla OMS in tutta questa disgraziata vicenda, sia, soprattutto, ragionando per analogia con altri virus simili, cosa che però nessuno ha fatto perché a causa del clima di terrore che si era creato nessuno voleva correre rischi (cfr. Dyani Lewis, Covid-19 rarely infects through surfaces. So why are we still deep cleaning?, “Nature”, 590, 26-28).

O meglio, nessuno tranne il sottoscritto: perché se c’è una cosa che davvero mi sento di rivendicare con orgoglio è proprio di aver detto fin dall’inizio che tutta questa fissazione sugli assembramenti era una solenne idiozia. Eppure, perfino adesso che finalmente si comincia ad ammetterlo non si chiede mai scusa per un errore così grave e clamoroso, che, deviando su strade sbagliate le strategie di contenimento, ha causato la morte di migliaia di persone che potevano essere salvate e la rovina di migliaia di locali che non c’era ragione di chiudere.

Perfino Antonella Viola, da sempre una delle scienziate più aprioristicamente schierate a difesa del governo, ha recentemente riconosciuto che «il rischio di contagio all’aperto, sappiamo che è bassissimo: circa 1 contagio ogni 1000 si verifica in queste condizioni, verosimilmente in presenza di assembramenti» (editoriale di La Stampa del 28 aprile 2021). Peccato però che l’illustre immunologa non spieghi perché fino (letteralmente) all’altro ieri non l’avesse mai detto, né perché diavolo abbia sempre difeso a spada tratta (e in parte difenda ancora: vedi coprifuoco) regole che, avendo come unico scopo quello di evitare i suddetti assembramenti, incidono sul contagio totale per appena lo 0,1%, cioè, in pratica, per nulla.

Altro esempio è l’uso dei termini “picco” e “ondata”. Il primo, infatti, suggerisce l’idea che ci sia qualcosa come un Gran Premio della Montagna al Giro d’Italia, che “sta lì” e che noi dobbiamo solo raggiungere e superare, dopodiché (e solo dopo) le cose inizieranno a migliorare. Anche il concetto di “ondata” suggerisce l’idea che l’epidemia sia un fenomeno naturale, in questo caso una specie di tsunami, le cui onde si formano indipendentemente da quel che facciamo e sono già in marcia verso di noi prima che le vediamo, per cui non possiamo far nulla per impedire che ci colpiscano, ma solo cercare di limitare i danni quando questo accadrà. Al contrario, le “ondate” di un’epidemia, così come i suoi “picchi”, non sono la causa delle nostre azioni, bensì il loro effetto: tant’è vero che in molti paesi non si è verificata o la prima o la seconda ondata e in alcuni addirittura nessuna delle due (cfr. Ricolfi, La notte delle ninfee).

Altrettanto fuorviante è il modo in cui in genere si parla della necessità di “rafforzare il sistema sanitario” per non farci più trovare “impreparati”, il che suggerisce irresistibilmente l’idea che si debbano assumere più medici e costruire più ospedali e più terapie intensive. Ora, in parte ciò può anche essere vero, ma in questo modo si evita di affrontare la domanda davvero importante: per che cosa, esattamente, dovremmo essere “preparati”?

Infatti, noi dovremmo innanzitutto prepararci per evitare che la prossima volta sia necessario avere più ospedali e più terapie intensive, il che si può ottenere solo adottando (finalmente) le giuste strategie di prevenzione e non rafforzando quelle sbagliate, tra cui vi è certamente l’aver puntato esclusivamente sulle cure ospedaliere, ignorando completamente o addirittura ostacolando quelle domiciliari (così come, ovviamente, le altre strategie di prevenzione di cui abbiamo parlato ripetutamente su questo sito).

È vero che si è parlato più volte di “potenziare la medicina territoriale”, ma, a parte il fatto che spesso ciò si è fatto per pure ragioni ideologiche, in polemica col sistema sanitario lombardo che risulta ancora indigesto a gran parte della nostra sinistra, ancora una volta questa terminologia suggerisce che il problema sia essenzialmente quello di assumere più medici di base. E ancora una volta bisogna rispondere che in parte ciò può anche essere vero, ma il vero problema è culturale, perché è da almeno vent’anni che i medici, salvo poche eccezioni, hanno smesso di andare a visitare i pazienti a casa, il che ovviamente spinge questi ultimi a rivolgersi sempre più spesso agli ospedali, anche quando non sarebbe necessario. Se non cambia innanzitutto la mentalità, più assunzioni serviranno solo ad avere più studi medici presenti sul territorio, ma non più pazienti assistiti adeguatamente a casa propria.

Altra affermazione estremamente fuorviante è che si deve poter “operare in sicurezza”, il che, per come viene detto, significa di fatto “a rischio zero”, che nel mondo reale semplicemente non esiste. Fermo restando che, come abbiamo più volte spiegato in questo sito e altrove, i danni più gravi sono stati causati da errori su come e quando chiudere e non su come e quando riaprire, non c’è dubbio che questa pretesa irragionevole abbia ritardato riaperture possibili, ma anche, paradossalmente, favorito riaperture a rischio, perché in ogni caso impedisce di ragionare lucidamente in termini di rapporto costi-benefici, cosa che richiede di aver chiaro che il costo non può mai essere zero.

Soprattutto, però, questo ha avuto gravi conseguenze rispetto alla medicina territoriale, di cui abbiamo appena parlato: perché se è vero che in molti casi ai medici di base non sono state fornite le protezioni adeguate, è altrettanto vero che, anche qualora le avessero, in nessun caso il rischio potrà essere azzerato. La verità è che, per quanti sforzi (giustamente) si facciano per renderla più sicura, la professione medica è intrinsecamente pericolosa e bisogna tornare a dirlo chiaramente, perché chi la sceglie dev’esserne consapevole, altrimenti sarà inevitabile che si tiri indietro proprio quando c’è più bisogno della sua opera. E lo stesso vale per i capi degli Ordini dei Medici, che è certamente giusto criticare per avere osteggiato anziché sostenuto quei pochi che visitavano i pazienti, ma un po’ vanno anche capiti, perché è difficile agire diversamente sapendo che non ti viene concesso il minimo margine di errore.

L’ultimo esempio che faccio (ma non certo l’ultimo possibile: individuare gli altri lo lascio come esercizio ai lettori) è quello del celeberrimo slogan “La salute vale più dei soldi”, a cui affianco l’affermazione, tanto cara al Ministro Speranza, per cui “bisogna smetterla di considerare la spesa per la Sanità come una spesa improduttiva”. Qui l’inganno sta nell’intendere il termine “improduttivo” come valutativo e non come meramente descrittivo. “Spesa improduttiva” significa infatti “che non produce utili” e in questo senso la spesa per la sanità è certamente improduttiva, anzi, è addirittura controproducente, poiché facendo vivere più a lungo le persone fa aumentare la spesa per le pensioni e facendone vivere molte con patologie croniche fa aumentare la stessa spesa sanitaria, in una spirale che tende a crescere indefinitamente.

Dire questo non significa però sostenere che tale spesa sia cattiva o superflua: significa solo riconoscere realisticamente che essa, diversamente da altre, non si finanzia da sola e che quindi se la si vuole aumentare lo Stato dovrà trovare altre fonti di introiti. La dura realtà, infatti, è che senza soldi non c’è neanche la salute, non solo perché le cure mediche costano (e molto), ma anche perché, come dimostra la storia, il benessere economico è in sé stesso la più efficace difesa della salute che esista. E poiché in ogni caso le risorse dello Stato non potranno mai essere infinite, ne segue che è giusto (in generale, non solo per il Covid) spendere tutto quel che è possibile per salvare più persone possibile, ma, appunto, solo ciò che è possibile senza arrivare al punto di mandare in bancarotta il paese: perché in un paese in bancarotta morirebbero molte più persone di quelle che potrà mai uccidere il virus.

P.S. Un esempio di spesa non improduttiva, cioè di investimento, è quella per l’Università, che porta dei ritorni già sul breve periodo (in termini di più bandi vinti e quindi di più fondi per la ricerca ottenuti) e ne porta ancor di più sul lungo periodo, grazie ai brevetti, alle applicazioni tecnologiche e al miglioramento del livello culturale medio del paese, il che a sua volta porta a miglioramenti un po’ dovunque. Il fatto che in genere si ritenga invece che quella per l’Università sia una spesa improduttiva e quella per la Sanità un investimento la dice lunga sul livello di confusione mentale in cui si trova la nostra società, anche senza bisogno che ci si metta Speranza a peggiorarlo.




Indice DQP: per la pseudo-immunità di gregge (70% di vaccinati) dobbiamo aspettare settembre 2021

Le autorità politiche e sanitarie, in particolare il ministro Roberto Speranza e la sottosegretaria Sandra Zampa, hanno ripetutamente dichiarato che la campagna di vaccinazione serve a raggiungere la cosiddetta immunità di gregge:

5 dicembre: “Il nostro obiettivo è l’immunità di gregge grazie al vaccino” (Roberto Speranza).

17 dicembre: “Immunità di gregge a settembre-ottobre prossimi (Sandra Zampa).

28 dicembre: “Oggi il ministro Speranza ha precisato che entro marzo raggiungeremo la quota di 13 milioni di italiani vaccinati contro Covid-19, e quindi in estate potremo già essere molto avanti nel perseguimento dell’obiettivo immunità di gregge data dal 70%” (Sandra Zampa).

9 gennaio 2021: “Per arrivare all’immunità di gregge dobbiamo vaccinare l’80% di 60 milioni di italiani” (Sandra Zampa).

13 marzo 2021: “È stata considerata una progressione della capacità vaccinale dalle 170 mila somministrazioni medie giornaliere (registrate dal 1 al 10 marzo) fino ad almeno 500 mila entro il mese di aprile” (Piano vaccinale del Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19). In base al nuovo Piano vaccinale si dovrebbe arrivare a raggiungere il 70% di copertura vaccinale a fine agosto.

Per “immunità di gregge” si intende una situazione nella quale ci sono abbastanza persone vaccinate (e non in grado di trasmettere il virus) da portare la velocità di trasmissione del virus (Rt) al di sotto di 1, con conseguente progressiva estinzione dell’epidemia. Per calcolare la percentuale di vaccinati necessaria (Vc) per avviare il processo di estinzione dell’epidemia occorre conoscere il valore di R0 (velocità di trasmissione in condizioni di normalità) e il valore di E (efficienza media dei vaccini, intesa come capacità di bloccare la trasmissione):

Vc = (1-1/R0)/E

Poiché R0 ed E dipendono dal tipo di varianti presenti in un determinato paese in un dato momento, nonché dalle caratteristiche dei vaccini, nessuno è attualmente in grado di indicare la soglia per l’immunità di gregge. Se E è troppo basso, il valore di Vc supera 1, il che significa che nemmeno vaccinando tutti si ottiene l’immunità di gregge.

Ecco perché la soglia del 70% da noi utilizzata NON è quella che garantisce l’immunità di gregge (e che è sconosciuta), ma è semplicemente la quota realisticamente raggiungibile in un paese come l’Italia, in cui non si possono vaccinare i più giovani (perché manca il vaccino), e una parte degli adulti non intende vaccinarsi.

Ma quante settimane occorreranno per vaccinare un numero di italiani sufficiente a raggiungere una copertura del 70%?

A rispondere a questa domanda provvede l’indice DQP (acronimo di: Di Questo Passo), che stima il numero di settimane che sarebbero ancora necessarie se – in futuro – le vaccinazioni dovessero procedere “di questo passo”.

A metà della diciottesima settimana del 2021 (mercoledì mattina, 5 maggio) il valore di DQP è pari a 18 settimane, il che corrisponde al raggiungimento della pseudo-immunità di gregge non prima del mese di settembre del 2021.

Il valore del DQP è migliorato di quattro settimane rispetto a quello della settimana scorsa (quando il DQP indicava inizio ottobre 2021).

Il numero di vaccinazioni settimanale è di poco inferiore a quello necessario per rispettare gli obiettivi delle autorità sanitarie (70% di vaccinati entro agosto 2021). Nell’ultima settimana sono state somministrate più di 3 milioni di dosi, circa 430 mila al giorno, poco meno delle 500 mila dosi previste dal piano vaccinale (l’obiettivo delle 500 mila somministrazioni giornaliere è stato raggiunto solo il 29 e il 30 aprile).


Nota tecnica

Le stime fornite ogni settimana si riferiscono ai 7 giorni precedenti e si basano sui dati ufficiali disponibili la mattina del giorno in cui viene calcolato il DQP (quindi possono subire degli aggiornamenti).

Va precisato che la nostra stima è basata sulle ipotesi più ottimistiche che si possono formulare, e quindi va interpretata come il numero minimo di settimane necessarie.

Più esattamente l’interpretazione dell’indice è la seguente:

DQP = numero di settimane necessario per raggiungere almeno il 70% degli italiani con almeno 1 vaccinazione completa procedendo “Di Questo Passo”.

A partire dalla prima settimana completa dell’anno (da lunedì 4 a domenica 10 gennaio) la Fondazione Hume calcola settimanalmente il valore dell’indice DQP (acronimo per: Di Questo Passo).

L’indice si propone di fornire, ogni settimana, un’idea vivida della velocità con cui procede la vaccinazione, indicando l’anno e il mese in cui si potrà raggiungere l’immunità di gregge procedendo “Di Questo Passo”.

Il calcolo dell’indice si basa su 3 parametri:

  1. quante vaccinazioni sono state effettuate nell’ultima settimana considerata;
  2. quante vaccinazioni erano già state effettuate dall’inizio della campagna (1° gennaio 2021) fino alla settimana anteriore a quella su cui si effettua il calcolo;
  3. che tipo di vaccini verranno presumibilmente usati (a 2 dosi o a dose singola).

Nella versione attuale l’indice si basa su due ipotesi ottimistiche, e precisamente:

  • l’obiettivo è solo di vaccinare il 70% della popolazione (anziché l’80 o il 90%, come potrebbe risultare necessario);
  • ci si accontenta di vaccinare ogni italiano in modo completo una sola volta, trascurando il fatto che, ove la campagna di vaccinazione dovesse prolungarsi per oltre un anno, bisognerebbe procedere a un numero crescente di rivaccinazioni.