Manifesto della Libera Parola

 Chi ha paura della libertà di espressione?

Manifesto della Libera Parola

 

Felici i tempi in cui puoi provare i sentimenti che vuoi, 
e ti è lecito dire i sentimenti che provi
(Tacito)

Io sono responsabile di quello che dico, non di quello che capisci tu
(Massimo Troisi)

 

1 – C’è stato un tempo in cui la censura era di destra e la libertà di espressione era di sinistra.
Era logico, perché la cultura dominante era conservatrice, autoritaria, e un po’ bigotta. I film di Pasolini erano considerati pornografia, e un letterato come Aldo Braibanti poteva essere condannato e imprigionato per plagio, mentre il ragazzo da lui “plagiato” poteva venir rinchiuso in manicomio e sottoposto a elettroshock. Era anche il tempo in cui, per gli omosessuali, uscire allo scoperto richiedeva coraggio, molto coraggio. Un coraggio che ebbero in pochi: Pier Paolo Pasolini, Paolo Poli, Angelo Pezzana, e non molti altri.
In quel tempo, che si prolunga fin verso la metà degli anni ’70, la sinistra ufficiale è ancora guardinga, ma l’intelligentia progressista si schiera risolutamente dalla parte della libertà di espressione in tutti i campi: cinema, arte, teatro, stampa, vita privata. I maggiori scrittori, artisti e intellettuali dell’epoca sono quasi tutti dalla parte di Aldo Braibanti, impegnati contro la censura e contro il reato di plagio.

2 – Tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, anche grazie al femminismo e alle lotte sull’aborto e i diritti LGBT, le cose cominciano a cambiare. La cultura dominante non è più né bigotta, né conservatrice. Nel 1978 passa la legge sull’aborto, nel 1981 viene abolito il reato di plagio, nel 1982 viene approvata la prima legge che consente il cambiamento di sesso. La stagione delle lotte sociali cede il passo a quella dei diritti civili, le idee progressiste penetrano sempre più nella coscienza collettiva.
E’ in quegli anni che, anche in Italia, prima in modo appena avvertibile, poi in modi sempre più massicci e pervasivi, prendono piede i principi del politicamente corretto.
Essere progressisti comincia a significare, per molti, farsi legislatori del linguaggio. Parte una furia nominalistica che, con ogni sorta di eufemismo e neologismo, si premura di stabilire come dobbiamo chiamare le cose e le persone, in totale spregio del linguaggio e della sensibilità della gente comune.
Solo Natalia Ginzburg, dalle colonne della Stampa prima e dell’Unità poi, avverte del pericolo, con due bellissimi articoli che denunciano l’ipocrisia, e la sopraffazione verso il comune sentire dei ceti popolari, implicite nella pretesa di imporci come dobbiamo parlare e pensare.
Ci troviamo così circondati di parole che non sono nate dal nostro vivo pensiero, ma sono state fabbricate artificialmente con motivazioni ipocrite, per opera di una società che fa sfoggio e crede con esse di aver mutato e risanato il mondo (…).
Così accade che la gente abbia un linguaggio suo, un linguaggio dove gli spazzini sono spazzini e i ciechi sono ciechi, e però trovi quotidianamente intorno a sé un linguaggio artificioso, e se apre un giornale non incontra il proprio linguaggio ma l’altro. Un linguaggio artificioso, cadaverico, fatto di quelle che Wittgenstein chiamava parole-cadaveri. Per docilità, per ubbidienza – la gente è spesso ubbidiente e docile – ci si studia di adoperare quei cadaveri di parole quando si parla in pubblico o comunque a voce alta, e il nostro vero linguaggio lo conserviamo dentro di noi clandestino.  Sembra un problema insignificante ma non lo è. Il linguaggio delle parole-cadaveri ha contribuito a creare una distanza incolmabile fra il vivo pensiero della gente e la società pubblica. Toccherebbe agli intellettuali sgomberare il suolo da tutte queste parole-cadaveri, seppellirle e fare in modo che sui giornali e nella vita pubblica riappaiano le parole della realtà.
Ma le preoccupazioni della Ginzburg cadono nel vuoto. Ormai il politicamente corretto ha iniziato la sua colonizzazione di tutti i gangli della società. Scuole, università, giornali, istituzioni, associazioni professionali, agenzie pubblicitarie, case editrici, reti radio e tv, aziende private, e negli ultimi tempi gli stessi giganti del web, fanno propri i principi della nuova religione della parola, imponendo codici linguistici e sorvegliando il loro rispetto.

3 – Parallelamente, si moltiplicano le richieste di essere messi al riparo da ogni espressione di idee, sentimenti, convinzioni che possano risultare lesive di qualsiasi singola sensibilità: è l’era della suscettibilità, come la chiama Guia Soncini.
Cresce a dismisura la schiera dei “suscettibili”, dei potenzialmente offesi, di tutti coloro che si sentono vittime di un odio, o anche solo di una trascuratezza o maleducazione, o persino di un’intenzione.
O nemmeno: si vedono intenzioni anche dove non ce ne sono. E se ne scoprono di vecchie, andando a ritroso nello spazio e nel tempo. Le opere d’arte del passato vengono sottomesse ai raggi X delle odierne sensibilità, e spesso tagliate, edulcorate o ritirate dalla circolazione. E’ il trionfo della cancel culture, che pretende di togliere dalla vista qualsiasi opera o manifestazione del pensiero che, con la sensibilità di oggi, possa apparire offensiva per qualcuno. Ed è la Caporetto della satira e dell’ironia, forme del discorso che per essere intese richiedono troppa intelligenza e distacco.

4 – Accade così che l’opposizione al politicamente corretto, troppo costosa e sconveniente negli spazi pubblici ufficiali e nell’interazione face to face, trovi solo sui social lo spazio in cui manifestarsi liberamente, per giunta con la protezione di un presunto anonimato. Ma sui social l’opposizione diventa puro sfogo, i pensieri si immiseriscono in brevi formule ad effetto, le parole si colorano di odio. Trionfano insulti e volgarità, proliferano haters e leoni da tastiera. Tutto questo incendia ancor più gli animi benpensanti dei nuovi progressisti, e finisce per esasperare il politicamente corretto. In un circolo vizioso inarrestabile.
Eppure dovrebbe essere chiaro: i cattivi sentimenti che dilagano sui social sono anche mutazioni, varianti più aggressive (e più trasmissibili!) del dissenso. Se chi non è in sintonia con i canoni del politicamente corretto viene sistematicamente squalificato, delegittimato e sanzionato nei luoghi “seri”, è possibile che una parte di quel medesimo dissenso cambi non solo luogo, ma anche natura, trasformandosi in odio, disprezzo, rivalsa, aggressività.  Odio e disprezzo peraltro ricambiati dai custodi del Bene, ai quali spesso risulta difficile non vedere gli avversari come mostri, destituiti di ogni umanità.

5 – In ogni ambiente si crea un clima di sospetto e paura. Si teme di dire la parola sbagliata, fraintendibile, ambigua: in ogni caso, al di là delle intenzioni effettive, offensiva. O anche solo non in linea, non conforme: quindi non accettabile. E si avvia, più o meno inconsapevolmente, un processo di censura preventiva delle proprie idee e delle proprie parole.
Non solo l’informazione (giornali e tivù) si muove con questa circospezione, ma anche l’arte, da sempre per definizione espressione di libertà. Le nuove opere (in letteratura, teatro, cinema, arte figurativa) si formano in un clima di autocensura, in cui la prima preoccupazione degli autori è schivare ogni possibile accusa di offensività o scorrettezza politica. Così, accanto alla massa delle opere prodotte effettivamente, cresce quella delle opere che non si sono prodotte, e forse neppure pensate, per timore dei nuovi conformismi.
L’impegno diventa una condizione necessaria: cessa di essere una delle tante possibilità dell’arte, per diventare l’arma impropria che assicura un vantaggio (e uno scudo) a chi lo pratica e lo ostenta. Il confronto e lo scontro pubblico – aperto e leale – fra concezioni e sensibilità opposte, diventa semplicemente impossibile.

6 – In questo clima la libertà di espressione declina non tanto perché le suscettibilità offese possono ricorrere alla magistratura, naturalmente sensibile allo spirito del tempo, per punire ogni manifestazione giudicata lesiva della propria sensibilità, autostima, reputazione, onorabilità; ma perché sono le stesse istituzioni pubbliche e private a provvedere motu proprio a sanzionare i reprobi, senza aspettare la condanna della magistratura, sulla sola base della violazione di codici aziendali o etici più o meno espliciti. Al posto della censura classica e pubblica (ma ancora fatta da persone in carne e ossa), che ritira i libri e vieta ai minorenni i film scabrosi, si installa un nuovo tipo di censura, tecnologica e privata, non di rado fondata su algoritmi e programmi di intelligenza artificiale, incaricati di scovare ogni contenuto o parola potenzialmente lesiva di qualche principio etico assoluto, o di qualche sensibilità – individuale o di gruppo – giudicata degna di protezione. Con un esito paradossale: i codici etici, indispensabili a qualsiasi soggetto che svolga attività di interesse pubblico, rischiano di trasformarsi in strumenti di censura, o di imposizione delle visioni del mondo dominanti.
Il nuovo clima, vagamente inquisitorio e intimidatorio, non tocca solo scrittori, registi, professori, giornalisti, utenti di internet, ma finisce per inquinare le stesse relazioni faccia a faccia tra le persone, a partire dai giovani e dagli studenti. Lo ha denunciato con forza la femminista libertaria Nadine Strossen:
Gli studenti hanno paura persino di discutere argomenti importanti e delicati come quelli del razzismo, della violenza sessuale e dell’immigrazione, per timore di essere fraintesi, di dire involontariamente qualcosa che possa essere considerato “insensibile” (o peggio), e di diventare oggetto di azioni punitive – che possono andare dal linciaggio sui social alla perdita di opportunità di lavoro. Per troppi giovani negli Stati Uniti sono state ritirate le ammissioni al college a causa di isolati post sui social pubblicati quando erano adolescenti. In breve, temo per la “cancellazione” delle opportunità future, così come dell’attuale libertà di espressione, proprio in nome delle persone oggi più impotenti e vulnerabili.
Anche in ambiti ben più circoscritti e privati, ad esempio a una cena tra amici, succede che si abbia paura di parlare dei temi scottanti del momento (migranti, omofobia, sessismo). Se lo si fa, se si decide di esprimere comunque le proprie idee o anche solo usare le proprie parole in dissonanza con le idee e le parole imposte dal clima circostante, si paga un prezzo, anche molto caro: il gelo immediato degli astanti, il litigio, la rottura definitiva di legami sociali e anche affettivi, l’esclusione futura da ogni cena o incontro, nonché da eventuali rapporti di lavoro, incarichi, carriere e finanziamenti.

7Ed ecco il punto. In un’epoca nella quale l’ideologia fondamentale del mondo progressista è divenuta il politicamente corretto, e il politicamente corretto stesso è diventato il verbo dell’establishment, non stupisce che la censura di ogni espressione disallineata sia diventata una tentazione per la sinistra, e la lotta contro la censura una insperata occasione libertaria per la destra.
Ma è un errore in entrambi i casi. Silenziare, oggi, chi viola il politicamente corretto non è più nobile di quanto lo fosse, ieri, silenziare chi offendeva “il comune senso del pudore”. Le idee e gli atteggiamenti che non ci piacciono si combattono con altre idee e modi di essere, non impedendo agli altri di esprimersi.
Una società moderna, aperta e non bigotta, non può lasciare a una sola parte politica l’esclusiva della difesa della libertà di espressione. Perché la libertà non è né di destra né di sinistra, ma è il principio supremo del nostro vivere civile.

I LiberoParolisti si impegnano affinché la libertà di idee, sentimenti e parole sia sempre e ovunque salvaguardata, affermata, e difesa con forza.

 

Pubblicato su La Ragione del 2 giugno 2021

 

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Sta cambiando qualcosa?

Da quando la campagna vaccinale è entrata nel vivo, e la mortalità ha cominciato a diminuire (circa due mesi fa), un sentimento di fiducia e di ottimismo ha progressivamente preso il posto dei fantasmi che ci avevano perseguitato nei mesi precedenti. La speranza di tutti è che le vaccinazioni siano sufficienti a sconfiggere l’epidemia, e che nel giro di qualche mese la vita possa tornare alla normalità, o quasi.

Ma andrà così?

Nessuno può saperlo, per almeno tre motivi. Primo, è impossibile prevedere con quali varianti dovremo fare i conti nei prossimi mesi e anni. Secondo, nessuno è stato ancora in grado di quantificare il rischio di trasmissione da parte dei vaccinati. Terzo, non sappiamo quanti verranno vaccinati, e in particolare se lo saranno anche i bambini.

Dunque la sconfitta del virus è nell’ordine delle possibilità, ma è difficile dire se si tratti di un’eventualità probabile oppure no. I motivi per essere ottimisti non mancano, ma ce ne sono anche per non esserlo affatto.

Un primo motivo di preoccupazione viene direttamente dal Regno Unito, ossia dal paese europeo in cui la campagna vaccinale è più avanti. Lì è da un po’ di settimane che l’epidemia ha smesso di regredire, e anzi alcuni indicatori sono in aumento. I decessi hanno cessato di diminuire, il quoziente di positività (nuovi infetti su test effettuati) è in aumento, e alcune stime di Rt sono prossime a 1.5, un livello quanto mai pericoloso. E’ possibile che la ragione stia nei comportamenti della popolazione, che ha abbandonato troppo presto le cautele, ma è più verosimile che la causa sia la diffusione massiccia (più del 70%) della variante indiana, ancora più contagiosa della variante inglese, che a sua volta era più contagiosa delle varianti precedenti.

E in Italia?

In Italia tutto sembra andare per il meglio: meno morti, meno nuovi casi, meno ricoverati, quoziente di positività in discesa, Rt ampiamente sotto 1. Però ci sono anche alcune ombre.  Il numero dei casi, ad esempio, sta scendendo anche perché si fanno sempre meno tamponi (presumibilmente in quanto ogni Regione compete con le altre per entrare in zona gialla o in zona bianca). Ma il dato più inquietante è la dinamica dei morti: sono scesi in modo regolare e molto pronunciato per 8 settimane, ma nell’ultima settimana hanno bruscamente smesso di diminuire. Può essere una fluttuazione statistica, ma non è detto. Non si deve scordare, infatti, che sulla mortalità al momento agiscono due potentissimi fattori di contenimento: l’aumento del numero di persone vaccinate, l’aumento del tempo trascorso all’aperto. Se, nonostante questi due fattori, il numero di decessi non cala, vuol dire che ci sono importanti controtendenze che elidono i benefici delle vaccinazioni e della bella stagione.

La variante indiana, anche qui da noi?

Direi proprio di no, visto che le stime più recenti la dànno sotto il 3% (contro il 70% del Regno Unito). Molto più plausibile, e confermato dai dati di mobilità di Google, è che lo stallo dei decessi, tuttora compresi fra 50 e 100 persone al giorno, sia dovuto a un genarle abbassamento della guardia da parte della popolazione, rassicurata dal miglioramento degli indici e dal buon andamento della campagna di vaccinazione.

Dobbiamo preoccuparci?

Pe ora non troppo, secondo me. Ma per questo autunno sì. Perché il vero pericolo non è che l’epidemia esploda nell’estate, ma che riprenda vigore non appena il clima sarà di nuovo favorevole al virus. Nulla esclude che il cocktail “autunno + nuove varianti” torni a metterci a dura prova. In quel caso sarà decisivo essere pronti su tutti i fronti che abbiamo lasciato sguarniti fin qui: sequenziamento, tamponi molecolari, cure domestiche, rafforzamento dei trasporti, messa in sicurezza delle scuole.

Ma lo siamo? Stiamo facendo tutto ciò che occorre per evitare di essere presi di nuovo alla sprovvista?

Direi proprio di no. E la cosa più sorprendente è che le forze politiche che, quando  erano all’opposizione, non perdevano occasione per ricordare al governo Conte i suoi ritardi e le sue inadempienze, ora restino sostanzialmente silenti, come se la mera presenza di Draghi bastasse a garantirci una ripresa autunnale sicura, al riparo dai rischi di una risorgenza dell’epidemia.

Pubblicato su Il Messaggero del 12 giugno 2021




Indice DQP: per la pseudo-immunità di gregge (70% di vaccinati) dobbiamo aspettare metà agosto 2021

Le autorità politiche e sanitarie, in particolare il ministro Roberto Speranza e la sottosegretaria Sandra Zampa, hanno ripetutamente dichiarato che la campagna di vaccinazione serve a raggiungere la cosiddetta immunità di gregge:

5 dicembre: “Il nostro obiettivo è l’immunità di gregge grazie al vaccino” (Roberto Speranza).

17 dicembre: “Immunità di gregge a settembre-ottobre prossimi (Sandra Zampa).

28 dicembre: “Oggi il ministro Speranza ha precisato che entro marzo raggiungeremo la quota di 13 milioni di italiani vaccinati contro Covid-19, e quindi in estate potremo già essere molto avanti nel perseguimento dell’obiettivo immunità di gregge data dal 70%” (Sandra Zampa).

9 gennaio 2021: “Per arrivare all’immunità di gregge dobbiamo vaccinare l’80% di 60 milioni di italiani” (Sandra Zampa).

13 marzo 2021: “È stata considerata una progressione della capacità vaccinale dalle 170 mila somministrazioni medie giornaliere (registrate dal 1 al 10 marzo) fino ad almeno 500 mila entro il mese di aprile” (Piano vaccinale del Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19). In base al nuovo Piano vaccinale si dovrebbe arrivare a raggiungere il 70% di copertura vaccinale a fine agosto.

Per “immunità di gregge” si intende una situazione nella quale ci sono abbastanza persone vaccinate (e non in grado di trasmettere il virus) da portare la velocità di trasmissione del virus (Rt) al di sotto di 1, con conseguente progressiva estinzione dell’epidemia. Per calcolare la percentuale di vaccinati necessaria (Vc) per avviare il processo di estinzione dell’epidemia occorre conoscere il valore di R0 (velocità di trasmissione in condizioni di normalità) e il valore di E (efficienza media dei vaccini, intesa come capacità di bloccare la trasmissione):

Vc = (1-1/R0)/E

Poiché R0 ed E dipendono dal tipo di varianti presenti in un determinato paese in un dato momento, nonché dalle caratteristiche dei vaccini, nessuno è attualmente in grado di indicare la soglia per l’immunità di gregge. Se E è troppo basso, il valore di Vc supera 1, il che significa che nemmeno vaccinando tutti si ottiene l’immunità di gregge.

Ecco perché la soglia del 70% da noi utilizzata NON è quella che garantisce l’immunità di gregge (e che è sconosciuta), ma è semplicemente la quota realisticamente raggiungibile in un paese come l’Italia, in cui non si possono vaccinare i più giovani (perché manca il vaccino), e una parte degli adulti non intende vaccinarsi.

Ma quante settimane occorreranno per vaccinare un numero di italiani sufficiente a raggiungere una copertura del 70%?

A rispondere a questa domanda provvede l’indice DQP (acronimo di: Di Questo Passo), che stima il numero di settimane che sarebbero ancora necessarie se – in futuro – le vaccinazioni dovessero procedere “di questo passo”.

A metà della ventitreesima settimana del 2021 (mercoledì mattina, 9 giugno) il valore di DQP è pari a 9 settimane, il che corrisponde al raggiungimento della pseudo-immunità di gregge verso metà agosto del 2021.

Il valore del DQP è leggermente migliorato rispetto a quello della settimana scorsa (i tempi si sono ridotti di circa una settimana).

Questa settimana sono state somministrate poco più di 3.8 milioni di dosi, circa 547 mila somministrazioni giornaliere, in linea con gli obiettivi del piano vaccinale (il 4 e il 5 giugno è stata raggiunta, per la prima volta, la quota di 600 mila vaccinazioni giornaliere).

Nel caso in cui si decidesse di utilizzare soltanto vaccini che prevedono una seconda somministrazione, occorrerebbero 3 settimane in più. “Di questo passo” la pseudo-immunità di gregge verrebbe raggiunta in 12 settimane, non prima di fine agosto del 2021.

Nota tecnica

Le stime fornite ogni settimana si riferiscono ai 7 giorni precedenti e si basano sui dati ufficiali disponibili la mattina del giorno in cui viene calcolato il DQP (quindi possono subire degli aggiornamenti).

Va precisato che la nostra stima è basata sulle ipotesi più ottimistiche che si possono formulare, e quindi va interpretata come il numero minimo di settimane necessarie.

Più esattamente l’interpretazione dell’indice è la seguente:

DQP = numero di settimane necessario per raggiungere almeno il 70% degli italiani con almeno 1 vaccinazione completa procedendo “Di Questo Passo”.

A partire dalla prima settimana completa dell’anno (da lunedì 4 a domenica 10 gennaio) la Fondazione Hume calcola settimanalmente il valore dell’indice DQP (acronimo per: Di Questo Passo).

L’indice si propone di fornire, ogni settimana, un’idea vivida della velocità con cui procede la vaccinazione, indicando l’anno e il mese in cui si potrà raggiungere l’immunità di gregge procedendo “Di Questo Passo”.

Il calcolo dell’indice si basa su 3 parametri:

  1. quante vaccinazioni sono state effettuate nell’ultima settimana considerata;
  2. quante vaccinazioni erano già state effettuate dall’inizio della campagna (1° gennaio 2021) fino alla settimana anteriore a quella su cui si effettua il calcolo;
  3. che tipo di vaccini verranno presumibilmente usati (a 2 dosi o a dose singola).

Nella versione attuale l’indice si basa su due ipotesi ottimistiche, e precisamente:

  • l’obiettivo è solo di vaccinare il 70% della popolazione (anziché l’80 o il 90%, come potrebbe risultare necessario);
  • ci si accontenta di vaccinare ogni italiano in modo completo una sola volta, trascurando il fatto che, ove la campagna di vaccinazione dovesse prolungarsi per oltre un anno, bisognerebbe procedere a un numero crescente di rivaccinazioni.



Antidoti contro il Covid: sole o vaccini?

Nei frequenti talk show televisivi in cui si dibatte di covid non ho sentito nessuno argomentare sul raffronto tra i dati pandemici di questo ultimo scorcio di primavera e quelli del corrispondente periodo dello scorso anno. Provo a farlo io perché le evidenze numeriche si prestano a considerazioni che mi paiono veramente interessanti.

Ho preso in esame i dati a mio giudizio più significativi perché più facili da rilevare in modo oggettivo: due consistenze (numero dei ricoveri ordinari e numero delle persone in terapia intensiva) ed un flusso (numero dei morti giornalieri in media mobile a 7 giorni). Il dato dei positivi, infatti, non mi sembra significativo nel raffronto tra 2020 e 2021 perché è molto dipendente dal numero e dalla tipologia dei tamponi effettuati, variati entrambi enormemente tra 2020 e 2021. A tali rilevazioni ne ho aggiunta una, il rapporto tra morti giornalieri e ricoverati in terapia intensiva, che, seppur poco ortodossa (rapporto tra un flusso e una consistenza) si presta a una considerazione interessante sull’effetto dei vaccini.

Dal sito del Sole 24ore ho ricavato i dati riepilogati nella seguente tabella:

Come si può vedere, i ricoveri ordinari sono rimasti sostanzialmente inalterati, i morti hanno avuto un incremento significativo ma non eccezionale, mentre gli altri due indicatori – terapie intensive e rapporto tra morti e terapie intensive – hanno avuto variazioni straordinarie: il primo è più che raddoppiato, mentre il secondo si è sostanzialmente dimezzato.

Parto da quest’ultimo dato, il rapporto tra morti giornalieri e ricoverati in terapia intensiva, perché ho osservato che esso è rimasto sostanzialmente stabile, attorno al 20%, per tutto il 2020 e fino all’inizio della campagna vaccinale (gennaio 2021), per poi ridursi progressivamente fino quasi a dimezzarsi; l’effetto dei vaccini mi pare indiscutibile: le persone più anziane, in genere le prime ad essere vaccinate, hanno avuto modo di evitare di finire in terapia intensiva e la probabilità di uscirne vivi è per loro molto minore rispetto a quella dei pazienti più giovani. E allora come spiegare l’aumento che c’è stato nel numero delle terapie intensive rispetto a quello dei ricoveri ordinari? Non sono un virologo, ma mi sembra difficile escludere che la variante inglese, a quanto leggo riscontrata ora in circa il 90% dei contagiati, sia responsabile non solo di una maggiore diffusione del contagio, ma anche della maggiore gravità delle infezioni, maggiore gravità che non si è tradotta in un pari incremento della mortalità – incremento che comunque si è verificato – solo perché le persone più giovani sono, come detto, meno soggette a soccombere.

Lascio per ultimo la considerazione forse più preoccupante: i vaccini sono veramente i principali responsabili del miglioramento del quadro epidemiologico? Ho il timore che la risposta sia negativa. Come spiegare, infatti, che, nonostante l’assenza dei vaccini nel maggio dello scorso anno, la situazione migliorò addirittura più velocemente? D’accordo, l’anno scorso siamo usciti da un lock down molto più ferreo di quello attuale e le varianti più pericolose ancora non si erano manifestate, ma è altrettanto vero che i presidi di sicurezza, quali le mascherine, erano pressoché assenti, come pure mancava l’esperienza che nel frattempo è maturata nella cura dei pazienti.

Premesso che la vita all’aria aperta e i raggi ultravioletti, particolarmente nocivi per i virus, si devono al soleggiamento e che questo raggiunge il suo massimo nei tre mesi circa a cavallo del solstizio d’estate, esso ci abbia aiutato oggi non meno dell’anno scorso nell’attenuare progressivamente la pandemia. L’anno scorso fu proprio a partire da Ferragosto, quando il soleggiamento inizia a ridursi sempre più velocemente, che la pandemia riprese vigore e, anche quest’anno, dovremo essere molto, ma molto cauti e confidare, allora sì, nei vaccini, a cominciare dai richiami per i più anziani.




Le differenze fra culture esistono e la nostra si è evoluta più di altre

Il caso di Saman Abbas ha riproposto nel dibattito una questione più generale: il confronto fra civiltà. Prendo come esempio le parole di Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 6 giugno: “Questa storia è dunque l’occasione per….”

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