Investire sui figli: meglio un delinquente in meno che 50 studenti preparati in più?

Martin Luther King diceva: “può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla.

La scorsa settimana io e mio marito Salvatore, d’accordo con nostro figlio Federico, abbiamo deciso che doveva cambiare scuola. L’argomento è stato fonte di molte discussioni. E non so come la pensate sul tema e se siamo noi i “dissidenti” e i rompi scatole. E non solo nel mondo della consulenza finanziaria.

inizio anno avevamo scelto di comune accordo dopo le Medie un Istituto Tecnico con specializzazione Amministrazione Finanza e Marketing, perché Federico aveva dimostrato “curiosamente” questa inclinazione, forse anche perché ha due genitori che parlano mattina e sera di questi argomenti.

Da quando poi Salvatore a 10 anni gli aveva regalato 1000 euro (poi quasi raddoppiati di valore) di azioni della Walt Disney, nostro figlio era andato su Google e aveva capito (da solo) che esistevano gli analisti, che le notizie e i bilanci potevano avere un impatto significativo sui corsi dei titoli e che c’è un circo di analisti finanziari che sparano target price ogni settimana.

Quando parlavamo di economia e finanza, mentre sua sorella ci guardava annoiata, lui era incuriosito, quindi spinti anche dall’endorsement del Sole 24 Ore di iscrivere i ragazzi agli istituti tecnici, e non volendo ricadere nel cliché per cui i ragazzi di buona famiglia vanno tutti al liceo, lo abbiamo iscritto a un istituto tecnico commerciale versione 2.0.

Anche perché Salvatore ha frequentato un I.T.C. a Torino fra i migliori d’Italia, il Germano Sommeiller (che ha avuto illustrissimi docenti e allievi tranne naturalmente alcune eccezioni) e ne parla solo bene. E speriamo che la nostra esperienza complicata in un istituto tecnico non sia lo standard.

Il primo giorno di scuola di nostro figlio Federico si è rivelato in verità subito un delirio, tanto da meritarsi una nota di classe collettiva per il comportamento “selvaggio” di numerosi suoi compagni.

Dopo poco più di un mese, la scorsa settimana, la scuola convoca tutti i genitori nell’auditorium e schiera mezzo corpo docente e il dirigente dell’istituto: “mai vista una classe così rumorosa, indisciplinata, sregolata in quarant’anni di insegnamento. Su quasi 30 ragazzi quasi la metà ha problemi anche certificati di deficit dell’attenzione”.

I professori, sostanzialmente, dicono che non solo non è possibile fare lezione, ma è quasi impossibile anche fare l’appello. È una corsa a ostacoli e una guerra di nervi. Un papà chiede un esempio pratico, l’insegnante spiega e lui se ne esce con una frase che rende bene l’idea “Ma questi ragazzi sono usciti da Scampia?” (e grande rispetto naturalmente per i ragazzi e i genitori di Scampia). Una madre al mio fianco (un’insegnante) dice che fra gli “indisciplinati” c’è sicuramente suo figlio e che lei e suo marito non sanno cosa fare nemmeno a casa.

Alcuni genitori invitano a usare le maniere forti (note e sospensioni) e il dirigente dice che apposta hanno convocato la riunione, per avvertire tutti i genitori, quasi a chiedere il permesso che da domani si cambia.

Poi però all’invito di un genitore di usare tutte le misure consentite per assicurare competenze a quelli che la voglia di studiare e imparare ce l’hanno, punendo, sospendendo e, in qualche modo, contingentando i ragazzi difficili, interviene una coordinatrice della scuola, che forte di decenni di insegnamento, intima: “noi dobbiamo favorire l’inclusione, non dobbiamo lasciare indietro nessuno. Perché domani così avremo forse un delinquente in meno. Peraltro, è anche un obbligo di legge e un dovere della scuola: l’inclusione“.

Interviene la psicologa “la collega ha ragione. Mi metto a disposizione delle famiglie in difficoltà“.

Sullo sfondo poi c’è un altro argomento che io e Salvatore (che abbiamo avuto, peraltro, due madri insegnanti vecchia scuola) abbiamo conosciuto in questi anni da genitori quando ci si relaziona con la scuola: la mitica “autonomia scolastica”. Che in pratica vuol dire che gli insegnanti e il preside possono prendere anche una direzione ostinata e contraria al buon senso e non affrontare di petto nulla.

Lo scopo, quindi, oggi della scuola moderna e del politicamente corretto – per il poco che capisco io – è avere (forse) un delinquente in meno. E gli altri 50 che avrebbero potuto imparare qualcosa in più che fanno mi chiedo? E penso che tra cinque anni mio figlio non avrà imparato niente, o meglio non così tanto come quelli con cui nel mondo dovrà competere per un posto di lavoro. Ma magari il suo vicino di banco non finirà in carcere.

Mi spiace, non ci sto. Con mio marito decidiamo che non c’è via di uscita (anche se in questa scuola il corpo docente non è certo male e abbiamo trovato grande sensibilità, compreso il fatto che hanno convocato un’assemblea sul tema) e Salvatore che è nato problem solver “inside” dice : “Si fa come in Borsa, si vota con i piedi (traduzione: in Borsa se un titolo non ti piace lo vendi e vai da un’altra parte”). E poi il nostro lavoro porta a prendere decisioni veloci e sotto stress, questo contesto non è diverso“. In effetti io sono un po’ stressata.

Ri-esaminiamo tutte le scuole della provincia (siamo nel nord ovest fra Liguria e Toscana) nel fine settimana con nostro figlio Federico e guardiamo decine di video di presentazione. Troviamo un liceo a indirizzo Economico (dopo la riforma Gelmini ci sono più indirizzi di studio che professori) che ha materie simili anche se non è uguale uguale (Salvatore storce solo un po’ il naso: “la partita doppia non la fanno”.)

Eh pazienza la prendono più dall’alto, dico io, sono un liceo e la partita doppia (il dare e l’avere come il conto economico) un giorno la capirà anche lui come funziona nella Borsa come nella Vita.

Lo scorso giovedì Federico ha fatto la sua prima lezione in questo gineceo scolastico in cui ci sono 9 donne per ogni uomo. Mai viste tante ragazze in vita mia (Salvatore è già molto preoccupato).

E abbiamo trovato nel dirigente scolastico di questo istituto una persona super valida che ha compreso il nostro smarrimento.

Mamma a scuola i ragazzi sono silenziosi – racconta Federico al suo primo giorno – e nel pomeriggio ho chiesto i compiti nella chat dei miei compagni e in due minuti me li hanno mandati. È un altro mondo“.

Io e mio marito tiriamo un sospiro di sollievo e incrociamo le dita. Non siamo responsabili per la situazione in cui ci siamo trovati, ma lo saremmo diventati se non avessimo fatto nulla per cambiarla.

Per consolarmi, Salvatore mi regala un libro “Il danno scolastico” di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, edito da “La Nave di Teseo”. In questo libro i due autori, lui uno dei più importanti sociologi italiani e docente universitario, lei scrittrice, finalista al Premio Strega, articolista de Il Sole 24 Ore, ma anche insegnante nei licei per tanti anni, dicono che in nome dell’uguaglianza e dei diritti dei deboli, la scuola italiana è diventata una gigantesca macchina della disuguaglianza. Perché?

I figli di chi ha di più in tutti i sensi, ovvero benessere economico, migliore preparazione culturale, trovano sempre il modo di trovare una soluzione attingendo alle proprie risorse. E ricorrendo a lezioni private, per esempio, o potendo accedere a scuole più selezionate e magari più distanti o costose, i loro figli proseguiranno gli studi e ce la faranno anche se non sono particolarmente dotati. Ma i capaci e i meritevoli, si chiedono gli autori, se privi di mezzi, come potranno farcela ad acquisire i più alti gradi di istruzione? Secondo gli autori, per come è strutturata oggi la scuola italiana, non ce la faranno.

E consiglio per chi avesse un’oretta di tempo di ascoltare l’intervista sempre attuale che avevamo fatto con Salvatore al professor Ricolfi su Radioborsa sul suo libro precedente “La società signorile di massa” in cui si parlava anche della scuola e del perché da tempo in Italia l’ascensore sociale non funziona più. Povera patria.

Stai bene, investi bene




Chi sono i No Green Pass? Molte conferme e qualche sorpresa

È ovvio che le manifestazioni dei No Green Pass, presenti in molte città italiane da diverse settimane, non vedano coinvolto che qualche migliaio di persone. Non tutti hanno voglia di scendere in piazza, sfidando magari le intemperie meteorologiche o delle forze dell’ordine, senza altro obiettivo concreto se non quello di cercare di sensibilizzare il governo a ritirare quelle misure da loro giudicate illiberali.

Ma se non sono molti coloro che si mobilitano “fisicamente”, dietro quei pochi ci sono milioni di italiani che, in qualche modo, la pensano più o meno come loro, ritengono cioè che il green pass sia “una misura esagerata che viola la libertà di chi non vuole farsi vaccinare”. Piuttosto interessante quindi cercare di capire chi sono, quali sono le loro caratteristiche in termini demografici e politici.

Utilizzando un campione sufficientemente numeroso di elettori (circa 4mila individui interrogati negli ultimi due mesi da Ipsos) è possibile tracciare un quadro significativo del loro profilo, confrontandolo poi con chi non si dichiara contrario al greenpass. La tipologia costruita ad hoc tiene conto di una ulteriore specificità, differenziando i “no green pass” non vaccinati da quelli invece vaccinati.

Avremo quindi tre tipi: il primo, che chiameremo “SI vax SI gp”, è composto da chi si è vaccinato ed è d’accordo con l’adozione del green pass (il gruppo più numeroso, pari al 70% circa degli intervistati); il secondo (“SI vax NO gp”) dai contrari al green pass ma vaccinati (18%); il terzo (“NO vax NO gp”) dai contrari sia al vaccino che al green pass (12%). Esiste per la verità anche uno gruppo molto ridotto (meno del 2%) di non vaccinati ma favorevoli al green pass, che ho tralasciato nell’analisi.

Occorre innanzitutto sottolineare come al trascorrere del tempo sia la seconda categoria, i vaccinati contrari al greenpass, quella a crescere in maniera significativa: se in ottobre erano soltanto il 10-12%, nelle ultime settimane arrivano infatti a superare il 20% della popolazione elettorale, mentre cala contestualmente il gruppo dei “non vaccinati”. E già questo pare un primo dato estremamente interessante: vanno cioè aumentando poco alla volta coloro che, pur vaccinati, reputano di fatto una sorta di attentato alla libertà (anche lavorativa) l’obbligo del passaporto verde. Potremmo identificarli con l’etichetta di “rivoltosi”, e mi sembra questa la categoria più interessante da analizzare, laddove il terzo gruppo (quello dei non-vaccinati), in tendenziale calo, è composto da individui le cui caratteristiche li fanno assomigliare maggiormente all’area più nota degli emarginati dalla politica (non-votanti, livelli di informazione e di scolarizzazione poco elevati, poco inseriti nel mondo del lavoro, casalinghe e disoccupati, convinti anti-europeisti, favorevoli al ritorno della lira).

Cosa contraddistingue dunque questi “rivoltosi”, rispetto alla fetta più rilevante della popolazione, quel 70% di “mainstream” che concorda con l’utilizzo del greenpass? Dal punto di vista del loro orientamento politico, sono tendenzialmente poco presenti gli elettori dei partiti di sinistra, di centro-sinistra e di Forza Italia, mentre le scelte più significative vanno in direzione del Movimento 5 stelle e, soprattutto, verso la Lega e Fratelli d’Italia, che sfiorano in questo gruppo il 30% nelle intenzioni di voto, oltre il doppio dei “mainstream”.

Sono anch’essi, in sintonia con i non vaccinati e con le parole d’ordine dei partiti di loro maggior riferimento, in prevalenza anti-Euro e anti-Europeisti e per il 70% pensano che le cose nel nostro Paese stiano andando in generale nella direzione sbagliata. Il loro livello di scolarizzazione non è molto dissimile dalla media italiana, con la presenza quindi di quote significative di laureati e diplomati, benché siano più numerosi coloro che si fermano alla scuola dell’obbligo. Sono ben inseriti nel mondo del lavoro, in particolare tra gli operai e gli autonomi con reddito relativamente più basso. Dal punto di vista generazionale, spicca la presenza tra i “rivoltosi” delle classi d’età relativamente più giovani, mentre tra le loro fonti d’informazione appare sovra-rappresentata la presenza dei social e del passaparola, dell’interazione tra amici e parenti per formarsi un’opinione, mentre meno presenti sono le fonti d’informazione più “ufficiali”, come i giornali cartacei e i telegiornali.

L’atteggiamento di decisa sfiducia nei confronti dell’attuale governo e delle principali istituzioni, italiane ed europee, è il tratto marcato che contraddistingue questo gruppo di elettori, certo meno agguerrito dei variegati manifestanti che quotidianamente (in forme quasi pre-politiche) scendono in piazza, al grido di “libertà”, ma che in qualche modo rappresenterebbero soltanto la punta di un iceberg di sentimenti diffusi nella popolazione. Sentimenti che paiono in costante crescita anche tra coloro che, forse di malavoglia, sono arrivati alla vaccinazione sospinti più dall’opinione pubblica dominante che da una reale convinzione dell’efficacia dei vaccini. Tanto che quasi il 70% tra loro si trova tuttora in disaccordo con la simbolica affermazione: “Oggi, il vaccino è la libertà”.

I milioni di italiani “rivoltosi” sembrano dunque rappresentare un’ondata di crescente profondo dissenso con la quale confrontarsi seriamente, nelle settimane a venire, per evitare che quell’iceberg emerga ancora più evidente nel mare della nostra società.




Il caso Stock e la nostra libertà

In Italia se ne è parlato poco, ma il caso Stock merita una riflessione. Kathleen Stock è (anzi era) una docente di filosofia dell’Università del Sussex, femminista e lesbica, recentemente insignita del titolo di Ufficiale dell’ordine dell’impero britannico per i suoi meriti accademici.

Qualche mese fa è stata costretta ad abbandonare la sua cattedra e l’insegnamento a causa delle minacce, intimidazioni, persecuzioni cui studenti e colleghi la avevano sottoposta per le sue idee, etichettate come “transfobiche”, in materia di sesso biologico e identità di genere. Non si pensi, però, alle solite campagne denigratorie, basate su tweet e cancelletti, di cui ci dilettiamo in un paese comparativamente mite e tutto sommato ancora bonaccione come l’Italia: le cronache raccontano che le intimidazioni verso la professoressa Stock erano giunte a un punto tale da indurre la polizia a farle   ingaggiare una guardia del corpo, installare camere di videosorveglianza davanti a casa, nonché ricorrere a un numero di emergenza in caso di pericolo.

Il caso della Stock è solo l’ultimo di una serie impressionate di episodi di censura e di intimidazione che, specie nel mondo anglosassone e con crescente frequenza negli ultimi anni, hanno colpito la libertà di espressione nelle università, nelle scuole, nei giornali, nell’editoria, nella televisione, nel cinema, nello spettacolo.

Ma la libertà di espressione di chi?

Un po’ di tutti, a quel che si apprende dalle cronache. Ma in misura assolutamente preponderante la libertà delle donne, specie se femministe e impegnate in lavori intellettuali, come scrittrice, giornalista, professoressa universitaria. La ragione di tale accanimento è semplice: i più radicali tra gli attivisti LGBT+, che legittimamente propagandano le proprie idee e rivendicazioni in materia di sesso e di genere, non tollerano che le donne si facciano portatrici di idee diverse, o opposte, rispetto a quelle prevalenti nei segmenti più estremi del loro mondo. Materia del contendere, soprattutto, la richiesta degli uomini che si sentono donne di accedere agli spazi tradizionalmente riservati alle donne, come bagni, spogliatoi rifugi/centri anti-violenza, reparti femminili nelle carceri, competizioni sportive fra donne. Chiunque osi difendere tali spazi, è bollata come TERF (Trans-Exclusionary Radical Feminist), un acronimo usato quasi sempre in chiave denigratoria e dispregiativa.

Di qui tutta una serie di insulti, minacce, aggressioni, cancellazioni di conferenze, richieste di dimissioni o di licenziamento che hanno colpito, in particolare, tre categorie: scrittrici celebri, come Margareth Atwood e Joanne Rowling, l’inventrice di Harry Potter; giornaliste come Suzanne Moore, Julie Bindel, Marina Terragni; ma soprattutto una schiera di professoresse universitarie, specialmente britanniche: Rosa Freedman, Germaine Greer, Kate Newey, Jo Phoenix, Janice Raymond, Selina Todd, solo per citare i casi più noti.

Questa vicenda presenta, a mio parere, due aspetti sociologicamente interessanti. Il primo è che l’attacco alla libertà di espressione, pur minacciando tutti (se non altro come pressione all’autocensura), oggi colpisce soprattutto le donne, specie se   femministe e/o impegnate in una professione intellettuale. Ed è paradossale che questo attacco alla libertà delle donne, tradizionalmente descritte come discriminate, avvenga proprio in nome dei diritti di una minoranza a sua volta discriminata.

Il secondo aspetto interessante è il fatto che l’accusa di transfobia, fuori luogo quando viene rivolta a donne che esprimono la loro opinione in materia di identità di genere, finisca per funzionare come una profezia che si auto-avvera. Etimologicamente, transfobia non significa odio per i trans, ma paura (dal greco phobos) nei loro confronti, ed è quantomeno curioso che sia invalso l’uso di dire ‘paura’ e intendere ‘odio’. Ma nel momento in cui una donna viene minacciata, fisicamente e moralmente, in nome dei diritti di una comunità (in questo caso quella trans), è normale che la medesima donna cominci davvero, quali che fossero i suoi sentimenti precedenti, a provare paura dei membri di quella comunità. Una paura che prima non provava, e che è stata suscitata dalle intimidazioni cui è stata sottoposta. La professoressa Stock ha lasciato l’università precisamente perché aveva paura degli studenti, dei colleghi e degli attivisti che la minacciavano per le sue idee. Con un singolare contrappasso: la lotta al fantasma della transfobia finisce per secernere transfobia vera e letterale, pura e semplice paura fisica dei membri di una comunità.

Come se ne esce?

Dipende da dove si vive. Nel Regno Unito è il Governo stesso, anche sotto la pressione del caso Stock, che si sta interrogando su come garantire i diritti delle donne e la libertà di espressione nelle università esistenti, proteggendo professori e studenti dalla prepotenza degli attivisti.

Negli Stati Uniti molti professori ormai pensano che la battaglia per ripristinare la libertà di espressione nelle loro università sia perduta, e che per cambiare le cose occorrerebbe troppo tempo. Quando un’istituzione come un grande e prestigioso ateneo comincia a credere che la sua missione sia la “giustizia sociale”, anziché la ricerca disinteressata della verità, della conoscenza, della cultura, è inutile sperare che sia in grado di proteggere la libertà di pensiero. Di qui l’idea di fondare università libere, in cui professori e studenti possano esprimere senza timore le loro idee, anche se radicali, eterodosse, controcorrente, abrasive. Sta succedendo a Austin, in Texas, e forse la professoressa Stock troverà rifugio proprio lì.

E nell’Unione europea? E in Italia?

Vedremo. L’importante è che non si metta la testa sotto la sabbia, e si affronti il problema. Senza paura.

Pubblicato su Repubblica del 20 novembre 2021




Quant’è difficile parlare di vaccini con libertà. Intervista a Luca Ricolfi

Professore, perché stampa e talk show sul Covid sembrano prigionieri di una logica da «curva»? Inscenando lo scontro tra opposti estremismi – vaccino «sola salus» contro no vax per principio – non ci si preclude la possibilità di una discussione seria e informata?
La possibilità di una “discussione seria” non interessa granché neppure i cosiddetti scienziati, troppo spesso prede di faziosità (e di conflitti di interesse), figuriamoci la grande stampa e i talk show. La realtà è che tutta la comunicazione pubblica risente del clima di guerra che si è instaurato dopo l’arrivo del vaccino. E in guerra chi solleva dubbi è trattato come un disertore.

Lo scontro, comunque, non è simmetrico: c’è una posizione, quella di totale adesione alle scelte del governo, che ha dalla sua una sorta di «bollinatura». È per questo che, dall’altro lato, si sovrarappresentano le voci più grottesche, dai negazionisti ai complottisti del vaccino? Insomma, si dà l’impressione che l’unica alternativa all’agenda governativa sia un coacervo di tesi deliranti…
E’ una precisa strategia, specie nei talk show. I paladini della campagna vaccinale vengono selezionati fra gli studiosi autorevoli, o comunque insediati in posizioni apicale del sistema sanitario, e per ciò stesso guardati con rispetto. Per quanto riguarda gli “infedeli” si alternano tre tecniche principali: non dar loro la parola; invitare solo i personaggi da operetta; farli parlare, ma affiancati da personaggi che li interrompono continuamente, insultando e screditando.

Al contrario, gli elementi che potrebbero incrinare la narrativa dominante e che provengono da fonti qualificate sono prontamente minimizzati. Il caso più recente mi sembra il tentativo di liquidare l’inchiesta del British medical journal sulle gravi lacune in uno dei trial di Pfizer. Questo atteggiamento non rischia di privarci di elementi di riflessione importanti?
Certo, questo atteggiamento priva il pubblico di informazioni cui avrebbe diritto ad accedere. Con la complicazione che il pubblico rischia di trovarle lo stesso (su internet), senza però essere in grado di soppesarle. Però…
Forse la deluderò, ma voglio provare a fare l’avvocato del diavolo dei grandi media, giusto per mettere a fuoco un meccanismo (e un problema). Supponiamo che la stampa e le tv non stendessero il velo pietoso che sono solite stendere sulle numerose controindicazioni della campagna vaccinale, a partire da quelle sulla vaccinazione di massa dei bambini: lei pensa che avremmo la medesima copertura? Crede davvero che il generale Figliuolo sarebbe riuscito a superare l’80% di vaccinati?
Se lei fosse convinto (come molti) che senza un’altissima copertura vaccinale avremmo decine di migliaia di morti in più, non sentirebbe la pressione a censurare le informazioni che disincentivano la vaccinazione? Forse è anche questa convinzione che induce una parte dei media a rinunciare alla completezza e imparzialità dell’informazione, che pure dovrebbero essere imperativi categorici della professione di giornalista.

In suo articolo sul sito della Fondazione Hume, lei ha deplorato il modo in cui è stata frettolosamente accantonata un’ipotesi, discussa in seno alla comunità scientifica, sulla possibilità che la vaccinazione di massa favorisca la selezione di varianti più resistenti del virus. Un altro tabù pericoloso?
Più che deplorarlo, ho messo in evidenza questa ed altre omissioni, alcune innocue (frutto di pura sciatteria), altre influenti e presumibilmente intenzionali. Quello che mi dà fastidio è il paternalismo di questo modo di fare informazione: si assume che noi popolo-bue non capiremmo, ci spaventeremmo, e agiremmo in modo sconsiderato. A me invece piace credere che le persone vadano aiutate a vagliare le informazioni, e a prendere decisioni difficili. Qualche volta tragiche.

Tragiche?
La decisione di una madre che vaccina un bambino di 6 anni è tragica, come quella di Antigone: proteggere il figlio, o proteggere la città?

È apparentemente impossibile, a livello mediatico, separare il giudizio sul vaccino e quello sul green pass. Indipendentemente da come la si pensi sulla tessera verde, perché non si possono avanzare obiezioni al passaporto Covid senza essere accusati, se non di essere dei no vax, di servire assist alle tesi di questi ultimi?
Per il solito motivo: si ritiene che se si critica il green pass si finisce per indebolire la campagna vaccinale. Ma potrebbe esserci anche un altro motivo…

Quale?
Che il governo abbia il problema di trovare un capro espiatorio in caso di fallimento della campagna vaccinale: e i critici del green pass sono “un colpevole quasi perfetto”, come l’uomo bianco nel bel libro di Pascal Bruckner.

Lei non crede che i no-pass siano la causa dell’attuale esplosione dei contagi?
Sono una concausa. E forse nemmeno la più importante. Lei lo sa che l’epidemia galoppa, con un Rt preoccupante, anche nei paesi che hanno vaccinato quasi tutti, come ad esempio il Portogallo, che ha una copertura del 98%?

E allora qual è la causa principale?
Il “generale inverno”, e la scelta del governo di non contrastarlo con la messa in sicurezza degli ambienti chiusi, a partire da aule scolastiche e metropolitane. Avessero dato retta ai sostenitori della ventilazione meccanica controllata nelle scuole (studiosi, medici, ingegneri e, fra i partiti, ahimè solo Fratelli d’Italia) forse non saremmo a questo punto. Dico “forse” perché l’impatto protettivo dei filtri Hepa e della Vmc (ventilazione meccanica controllata) nessuno lo conosce ancora con esattezza.

Anche sulla vaccinazione dei bambini si è determinata una curiosa coincidenza: ora che si vuole spingere su questo fronte, dei piccoli, finora descritti come sostanzialmente al riparo dalla malattia grave, si è iniziato a dire che finiscono in terapia intensiva, che sviluppano il long Covid e che sono «untori» per i nonni, peraltro già vaccinati. È ancora legittimo esprimere dubbi sul programma di iniezioni sui bambini?
Lo sarà ancora per qualche giorno, approfittando del fatto che gli esperti sono divisi, poi non più. La libertà di parola finisce quando, nel mondo della cosiddetta scienza, la politica riesce a far emergere una posizione nettamente dominante, che mette fuori gioco tutte le altre.

La comunicazione scientifica è stata caratterizzata da una quantità spropositata di giravolte. Più si va indietro, più si trovano casi clamorosi: ad esempio, gli esperti che snobbavano la mascherina sono gli stessi che dopo l’hanno santificata. Cambiare idea può essere il risultato di un avanzamento nelle conoscenze, ma allora perché ogni affermazione dei tecnici ci viene presentata in modo apodittico? Con questo metodo, alla fine, i progressi appaiono, invece, come delle contraddizioni.
E’ esattamente così. La scienza dice di coltivare il dubbio e la discussione critica, ma questo avviene solo finché il dubbio e la discussione critica non urtano contro interessi economici o politici soverchianti. Quando questo accade, il dubbio si può esprimere solo a condizione che gli utenti che possono accedervi siano pochi, come nei giornali a bassa tiratura e nelle riviste. E’ una delle cose che mi ha insegnato Piero Ostellino, il padre spirituale della Fondazione Hume.

E poi ci sono i toni trionfalistici, seguiti da altrettante inversioni a U nella narrativa. Gli stessi vaccini, fino a pochi mesi fa, ci venivano presentati come l’unica via d’uscita dalla pandemia (con un’aperta sottovalutazione del ruolo delle terapie), come la sola salvezza che ci avrebbe riconsegnato la libertà. Adesso, il vento è cambiato: la protezione cala, serve un’altra dose, ma poi vi promettiamo che basterà così, tornerà veramente la libertà. Ecco, questo approccio alla comunicazione non è controproducente? È proprio questo il modo di fornire un assist ai no vax – e poi ci si ritrova a dover «convincere» gli indecisi con un obbligo vaccinale surrettizio…
E’ la conseguenza della sfiducia nella gente. Pensano che noi non capiremmo, se ci dicessero tutto.

Franco Locatelli, alcuni giorni fa, in conferenza stampa ha affermato che non ci sono under 59 vaccinati in terapia intensiva. Sono gli stessi dati Iss a smentirlo. È lecito, o almeno utile, rimaneggiare un po’ i numeri a scopi persuasivi? Non è sempre meglio essere precisi e dire la verità? Anche perché bastano i numeri reali a dimostrare l’efficacia dei vaccini…
Sì, ma è anche colpa della stampa e dei media, che sulle bugie dei potenti raramente hanno il coraggio di chiedere dimissioni che in altri paesi sarebbero scontate.

È indubbio che le vaccinazioni – e, auspicabilmente, questo effetto sarà consolidato dai richiami sulle fasce di popolazione più a rischio – abbiano mitigato enormemente l’impatto del Covid su ricoveri e decessi. Ma in questo contesto, ha senso tenere in piedi lo stato d’emergenza? Se i vaccini funzionano, perché ogni «ondata» viene accompagnata da una massiccia offensiva «terroristica» sui canali d’informazione, e si tiene in piedi anche sul piano giuridico una sorta di regime speciale? Non sarebbero opportuni un approccio più sobrio e un’uscita anche de iure dalla logica emergenziale?
Su questo sono completamente d’accordo con lei (e con Cacciari!). Non possono continuare a dirci che dovremo convivere con il virus, che i vaccini ci consentiranno di farlo, e poi mantenere ad oltranza lo stato di emergenza. O meglio: possono anche farlo, ma allora ci dicano quali sono le soglie di morti-ricoverati-infetti-Rt al di sotto delle quali “lorsignori” si degneranno di rinunciare ai poteri speciali.

Intervista rilasciata a La Verità, del 14 novembre 2021




Una stima realistica degli effetti avversi dei vaccini anti-Covid e del rapporto rischi-benefici

In questo articolo vengono analizzate e confrontate fra loro – che io sappia per la prima volta in modo così ampio – le informazioni sugli effetti avversi post-vaccino (in gergo, AEFI) contro il Covid provenienti da una quantità di fonti diverse, fra cui: i database sugli effetti avversi di vari paesi (Stati Uniti, Regno Unito, Italia, etc.), che rappresentano una forma di farmacosorveglianza passiva; alcuni studi di sorveglianza attiva presenti nella letteratura scientifica; gli studi clinici controllati randomizzati pre- e post-autorizzazione al commercio dei vaccini a mRNA; i primi studi epidemiologici relativi ad alcune singole patologie legate ai vaccini; le prime analisi sulla variazione della mortalità della popolazione più giovane nel periodo della sua vaccinazione; i dati storici e recenti sull’eccesso di mortalità nei Paesi d’Europa nelle varie classi di età; i risultati di alcune autopsie, etc.

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Allegato: Database MHRA